Sindrome
da abbandono
Ad A. S., perché ci credeva.
A Z. S., anche nel colore sentiamo il loro amae.
Forse non sono
la persona migliore del mondo, ma la vita mi ha insegnato l’autocontrollo, a
nascondere i miei impulsi, a cominciare a ragionare come loro, come voi.
Mi piaceva
giocare con le bambole, non quanto correre o dare calci a un pallone, ma mi
piaceva. Alla fine di ogni storia che m’inventavo, Tania sposava Brandon,
quello delle Winx, tutti vivevano felici e contenti e i bambini e l’amore
vincevano sempre.
Segui
il tuo cuore e sarai sempre felice.
Erano queste le parole che mi ripeteva spesso mia madre e ancora ora ne sento
il suono e il peccato che mi accompagna. Avvicinavo le teste delle due bambole,
si baciavano sotto la pioggia; sì sotto la pioggia perché nei miei sogni di
bambina i baci sapevano di sale e zucchero, di gioia pura. Sentivo il cuore
arrivare alla gola quando ci pensavo, a volte tremavo da quanto desiderassi
essere baciata da qualcuno.
Quando mi
trovavo a scuola però, quando entravo nella vita reale questo sogno fantasioso
mi passava di mente, come se potesse essere disegnato solo con il gesso, per
poi venire cancellato con una secchiata d’acqua non appena le mie scarpe
lasciavano la porta di legno scuro di casa. A ricreazione grande il sogno però
tornava. Me ne stavo con le mie quattro compagne di classe ogni tanto, invece
di correre dietro al pallone assieme ai miei quindici compagni; se ne stavano
distese sull’erba come dive e organizzavano matrimoni.
–E tu, e tu con
chi vuoi stare?
– Con Tommaso –
risposi sparando il nome del bambino che mi affascinava di più. Le mie compagne
mi fissavano con occhi grandi e dissero che mi avrebbero aiutata, tanto
convinte e fiduciose che ad un certo punto di Tommaso m’innamorai veramente.
C’era solo un punto oscuro nelle mie rosee fantasie: mi vedevo mano nella mano
con lui, lo vedevo che mi stringeva, ma quando si trattava di immaginarlo
baciarmi allora crollavo; era come se la mia mente rifiutasse con violenza
l’idea di quel bacio e mi svegliavo con una vaga sensazione di disgusto. Non
riuscivo a figurarmi di baciare nessuno sulle labbra, tranne le mie amiche, ma
beh, loro erano mie amiche era ovvio che mi venisse naturale baciarle, no? Le
conoscevo bene, ci scambiavamo segreti, avremmo dato la vita l’una per l’altra,
insomma era ovvio che con loro mi sentissi a mio agio; coi maschi invece non
avevo un grande rapporto, ne avevo anche un po’ paura, era per questo che anche
solo l’idea di poggiare le labbra sulle loro non mi attirava granché.
Cominciai a
fare amicizia con Tommaso, poi andammo alle medie e non lo vidi più. M’innamorai
di svariati ragazzi, nomi che ho ancora ben impressi in mente. Poi mi scordai
persino il suono della parola “amore”, mi assuefeci alla solitudine e a
scorgere indifferente i cuori ogni giorno infranti.
Mi svegliai un’estate,
quando Giacomo mi scrisse che mi amava, che voleva stare con me … Pensai a uno
scherzo all’inizio: i suoi amici gli avevano preso il cellulare e mi avevano
mandato quell’sms per farsi due risate, perciò cancellai il messaggio senza
pensarci troppo su. In seguito ebbi modo di comprendere fin troppo bene che
Giacomo mi amava, ma questa è un’altra storia. Io voglio parlarvi di Anna,
della mia Anna, della ragazza che fino a qualche ora fa aveva la testa poggiata
sulle mie ginocchia. Ha diciannove anni, tre più di me e in questi ultimi mesi
mi sono resa conto di amarla. Quella ragazza bionda che anche se mi fa
arrabbiare a morte, anche se mi irrita non riesce a farsi odiare e ad uscire
dalla mia testa, ma sto correndo troppo.
Tutto cominciò con
Lisa, c’eravamo conosciute a catechismo, il che è strano visto che lei è atea
convinta, io all’epoca non prendevo posizione in merito. Un giorno all’angolo
del cortile si fermò e mi disse: –Lei è Anna. – Queste parole risuonano ancora forti
nella mia mente, ma non quanto in quei giorni successivi; mi rimbombavano
continuamente nella testa e mi ripetevano sempre il suo nome: Anna. Anna. Anna …
Aveva i capelli
biondi con qualche sfumatura cioccolato e gli occhi di un azzurro intenso,
discreto. Tutto in lei però comunicava forza. Teneva un piede appoggiato al
muro della scuola, incurante dell’impronta infangata che sarebbe rimasta e mi
sorrideva divertita. Spostò la sigaretta dalla mano destra alla sinistra e,
mentre mi stringeva la mano, mi baciò su entrambe le guance.
–Beatrice. Io
mi chiamo Beatrice. – sussurrai. Non mi è mai piaciuto il mio nome, ma il
significato è bello: colei che porta beatitudine e, in effetti, è quello che
solitamente faccio senza nemmeno rendermene conto perché beh, la calma mi
accompagnava sempre; nell’ultimo periodo però era stato difficile non
impazzire, non spezzarmi in mille pezzi, a causa dei ricordi di quel passato
che tuttora mi tiene sveglia e che mi spinge a distruggermi ogni giorno di
fatica, per poi crollare alle dieci di sera, sperando in un riposo senza sogni.
Io la sera la odio. Spero vivamente che passi in fretta, di modo che arrivi presto
la mattina e mi manchi un giorno in meno da scontare alla mia condanna; un
giorno di meno da vivere in questa perenne angoscia senza meta. Ma sto
divagando, volevo parlarvi di Anna. Eravamo diventate quasi amiche nel
frattempo e dovevamo partecipare a una grigliata e le avevo chiesto di venire a
casa mia di modo da non andarci da sola.
Io solitamente
non mi trucco, okay è una bugia, io non mi trucco mai. Quella sera Anna aveva
una voglia matta di mettermi ombretto e quelle cose lì; avrei potuto fare sparire
tutti i suoi trucchi come avevo sempre fatto con chi provava a mettermi in
faccia qualcosa, ma mi costrinsi a non nascondere tutte le sue scatolette e
matite e boccette mentre non guardava. Le sorrisi timida.
–Stenditi sul
letto – mi disse assorta. Non ero un’esperta di quelle cose, ma mi sembrava
strano. – Allora? Su! –
–Ma perché? –
mi arrischiai a chiedere.
–Perché è più
comodo, no? – disse semplice sorridendo. Non avendo coraggio di ribattere
obbedii, anche se un po’ nervosa. Lei si chinò su di me e avvicinò al mio volto
le dita sporche di una polverina rosa. Ero tesa, terribilmente tesa. Era
talmente vicina, troppo vicina. Le
punte bionde dei suoi capelli mi danzavano davanti agli occhi; con le mani
nervosa giocavo con i laccetti dei miei pantaloni militari. Ad un tratto mi
prese le mani stringendole a coppa e incrociò il mio sguardo, cosa che stavo
cercando di evitare. Era troppo vicina, troppo vicina … Con i suoi capelli che
mi toccavano le spalle azzerò le distanze, in un attimo le sue labbra sulle
mie, in un attimo tutto il corpo che bruciava dal piacere, dalla gioia, dallo
stupore. Era il bacio più meraviglioso che avessi mai ricevuto, nulla in
confronto ai ragazzi, neanche paragonabile, quella era droga pura; una droga
che provavo per la prima volta e che non volevo smettere di assumere.
Sentii un
rumore e mi riscossi. C’era mia mamma dietro la porta di camera mia, c’era lei
che ignara si affaccendava in cucina, c’era lei ma non m’importava. Lasciai che
Anna continuasse a baciarmi lungo il collo, sulle guance, sulle labbra; ero
talmente inebriata che quando smise le misi una mano dietro al capo e cercai
nuovamente quel piacere. La porta si aprì con uno scatto, mi bloccai con il
battito del cuore che rallentava per farmi cogliere ogni dettaglio. Anna
sorrise a mia madre. – Ha visto? Ho truccato sua figlia!
Non so come,
grazie alla protezione di quale Dio, mia madre non si era accorta di nulla.
Da lì non feci
più ritorno.
Se lei non mi
avesse baciata, io avrei continuato la mia vita da persona normale, perché chi
mai crede di essere diverso? Chi mai
penserebbe di non amare i ragazzi, di provare un amore folle per una ragazza?
Io no. Ho sempre visto Sky e Bloom, Peter e Wendy, Robin Hood e Lady Mariam …
Sempre maschio e femmina. Quando ero piccola, pensavo non ci fosse altro modo
di amare, poi la televisione mi ha istruita. Ma, cavolo, continuavo a
ripetermi, perché proprio io?
Stavamo assieme
in pianta stabile e quando andavo a dormire a casa sua mi sembrava un sogno, mi
sembra tuttora per niente reale tanto era bello. Io e lei che andavamo a
dormire, io e lei che ci coccolavamo, lei che mi seguiva sempre con gli occhi
come se potessi spezzarmi da un momento all’altro e quando incontrava il mio
sguardo doveva leggerci qualcosa che le piaceva, perché mi sorrideva
tranquilla. Ero sempre io che, con la sua voce in sottofondo crollavo dal
sonno. E quando avevo paura c’era lei e quando i sogni non mi lasciavano andare
c’era sempre la sua mano stretta nella mia; al mattino i suoi occhi che mi
cercavano. Mi diceva spesso ‘ti amo’, mi chiamava con dolci soprannomi ed io lo
adoravo perché vivevo sempre nel terrore che non mi volesse più e ne avevo
bisogno; necessitavo del suo quotidiano affetto, perché senza che lei me lo
ricordasse, io cominciavo a pensare di essere solo un peso.
L’unica cosa di
lei che non apprezzavo erano i suoi continui ‘dove, come, quando, perché’.
Odiavo - e odio ancora - dire anche solo quando esco. Lei dal canto suo penso
odiasse i miei silenzi, odiasse che non le dicessi chi mi aveva fatto soffrire,
odiasse che corressi piangendo da lei e una volta calmata mi rifiutassi di
dirle perché.
Ricordo che un
giorno di sole io e lei eravamo distese sul prato, in riva al fiume assieme ai
Cacciatori che giocavano tranquilli a briscola, scala 40 e ad altri giochi
inventati. Avevo passato l’intera giornata in tensione per un piccolo litigio
con un’amica. Avevo gli occhi chiusi, immagino Anna pensasse stessi dormendo;
fu per questo che quando Marco, il suo “secondo”, le si avvicinò per parlarle,
gli fece segno di non trattenersi. Parlavano di un gruppetto di ragazzi che
aveva insultato un Cacciatore, parlavano di vendetta, di fargli capire chi
comandava. Fra tutti questi piani di guerra lei giocava piano con i miei ricci.
Dimenticai l’accaduto pensando a un sogno.
Ad Anna piaceva
molto andare al fiume, lei stava sulla riva a prendere sole mentre io nuotavo.
A volte mentre mi guardava in costume le orecchie mi bruciavano. Fu proprio al
fiume, quand’ero per conto mio, che un ragazzo vestito di rosso mi avvicinò. – Di’ ad Anna che noi non ci stiamo, dille che
è guerra. – E penso avrebbe continuato con le minacce se il suo compare non
l’avesse afferrato per il braccio. – Guardala, – aveva cominciato – non sa
nulla. Non spaventarla.
Quando
raccontai l’accaduto ad Anna, lei mi disse che doveva trattarsi di uno scherzo.
Fumava mentre lo diceva. Mi avvicinai baciandola dolce sul collo, perché
sentivo che qualcosa non andava come doveva e che lei era distante. Si riscosse
un attimo e mentre cercavo di farla stare bene sussurrò: – Non fumare mai,
Beatrice. Non provare. Non cominciare. Me lo prometti? – Non capivo cosa c’entrasse
quello con il discorso di prima, ma mi affrettai ad annuire. – E non bere, lo
sai che solo un bicchiere ti fa impazzire – annuii di nuovo, preoccupata da
quelle raccomandazioni. Sentivo che con la mente era a mille kilometri da lì,
mi accoccolai vicino a lei con un sapore amaro in bocca: stava per accadere qualcosa
ed io ne avevo paura.
Grazie ad Anna
ero cambiata. Finalmente ero tranquilla e morivo continuamente dalla voglia di
stare con lei. Anna mi dava tutto, io cercavo di essere alla sua altezza, ma
ogni volta mi sembrava di non fare abbastanza, non quanto lei perlomeno. Lei
era la mia luce, l’unica con cui potessi essere me stessa fino in fondo. Ma mi teneva nascosto un segreto.
Anna mi
proteggeva da tutto. Era seduta a fianco a me nella macchina un giorno. I miei
genitori parlavano continuamente di morti e di ospedali e di come stava male,
andavano nei dettagli. Stavamo andando di corsa in ospedale, perché mia zia
aveva tentato il suicidio, di nuovo. Mia zia dagli occhi luna e lo sguardo
disperso, dalla pelle macchiata dal Sole. Quella che mi sorrideva e che quando
ero piccola mi regalava i Lego.
Avevo in mente
quei coltelli, la gola, i buchi, il sangue. E i miei ne parlavano e parlavano,
immagino li tranquillizzasse. Io volevo scappare da quell’auto, aprire la
portiera e rotolare, rotolare sull’asfalto. Tagliarmi, avere il corpo coperto
di escoriazioni, battere il capo a terra, ma non sentire almeno. Sangue. Coltelli. Sangue. Tutto nella
mia testa; le mie mani che indugiavano sulla portiera. Voglio scappare,
scappare … Ero disperata. Ma stavo immobile, testa appoggiata al finestrino,
apparentemente calma. Sangue. Ero a
piedi nudi, le ciabatte abbandonate sul tappetino della macchina. Mi strinsi le
ginocchia al petto e ci affondai il capo. Anna leggera, ben attenta ai miei
genitori, mi mise una mano sulla spalla. Coltelli
conficcati nella gola. Lama zigrinata. Quelli della carne. La mano di lei
sulla mia schiena.
Ci arrivammo in
ospedale; ho ancora nelle orecchie mia madre che diceva ad Anna che le
dispiaceva aver ‘dirottato’ l’auto così di punto in bianco e di non averla
potuta riaccompagnare a casa. Coltelli.
Sangue. Coltelli. Sarebbe passato a prenderla suo papà.
Andai nella
sala d’attesa, ormai familiare. Avevo il mio posto: l’angolo da cui potevo
vedere arrivare tutti. Mi sedevo e rimanevo così, ferma immobile per ore.
Cadevo - cado -
a volte in quegli attimi di vuoto. Non lo faccio apposta; mi capita più
facilmente se qualcosa mi turba e beh, il mondo non c’è più, né il rumore, solo
il colore. Quando uscivo da questi momenti da cui nessuno poteva riscuotermi,
mi creava confusione vedere che alcune persone non c’erano più o non erano
nelle stesse posizioni. Mi sembravano secondi, a volte erano anche ore. Non so
che cosa mi riportasse a quella che voi chiamate realtà. Quando ritornai dal
mio viaggio quella sera c’era ancora Anna, nella stessa identica posizione,
pensai fossero passati solo pochi secondi, in seguito mi dissero che ero stata
così per dieci minuti. Anna. Ospedale.
Zia. Sangue. Coltelli. Sangue. Mi tornava tutto in mente e cominciavo a
contare per calmarmi. In tedesco, contavo sempre in tedesco perché era più
difficile.
Anna era
rimasta lì, ferma immobile perché sapeva
che quando mi bloccavo, mi disorientava che la realtà fosse cambiata nel frattempo.
Mi prese la mano. Me la stringeva passando rassicurante il pollice sul dorso.
In senso antiorario, a piccoli cerchi, con un ritmo regolare. Mi sono sempre
piaciuti gli schemi. Lei m’impediva di immergermi di nuovo nel mondo del colore.
Ed era un bene. Perché più ci rimanevo, più pensavano che non avrei fatto
ritorno. Non avrei più parlato, incrociato sguardi, seguendo quelle che per
loro erano linee invisibili, ma che per me erano sfavillanti.
La mano nella
sua. Alle quattro del mattino non c’erano ancora notizie. Lì all’ospedale il
tempo lo dettavano le persone. La mattina una folla di anziani, il pomeriggio i
più giovani, la notte medici e divise blu, calma e confusione. Mi addormentai
su Anna, la mia ragazza, che non dormiva mai.
Mi svegliai nel
mio letto. Non so quando mi ci avevano portato. Mi svegliai e rimasi immobile
con il cuscino sulla testa. Coltelli.
Chiusi gli occhi, le mani sulle orecchie. Rimasi lì fino alle cinque di
pomeriggio quando Anna entrò, mi prese per mano e non mi lasciò più.
Immagino che se
anche avesse pensato di dirmi la verità, fosse rimasta in silenzio ripensando a
quell’episodio; Anna e i Cacciatori non erano un semplice gruppo di amici,
erano una banda. Una di quelle che hanno il proprio territorio, che si
scontrano con le altre bande e che hanno coltelli, e non solo, per farsi
ascoltare. Io non ne sapevo nulla. Anna e i Cacciatori facevano tutto nell’oscurità,
nel mutuo accordo di proteggermi dal loro mondo.
Anna mi ha
lasciata, sono passati tre mesi ormai. Stamattina è ricomparsa perché doveva
riprendere il suo vocabolario di russo. Mi aveva lasciata dicendomi che mi
avrebbe fatto del male. Non m’importava nulla a me di quel male che mi avrebbe
potuto fare, perché lei era buona, perché io l’amavo e nei suoi occhi leggevo
la mia vita. Ora che non sto più con lei, non ho la forza di essere me stessa.
Non l’ho mai detto ai miei che ero lesbica; non ho intenzione di farlo. Spero
ancora di innamorarmi di un ragazzo, di baciarlo, di amarlo, ma sono egoista e
seguo con gli occhi le ragazze e vedo loro e sogno Anna.
Lei è tornata
stamattina a casa mia, lei ha preso il vocabolario, mi ha accarezzato la testa,
l’ ho guardata. Non so cosa ha letto nei miei occhi, ma mi ha baciata, mi ha
stretta al petto e poi presa per le spalle. – Non aspettarmi, Bea – e se n’è
andata. Questa volta per sempre.
Mi sento
soffocare, ma sono egoista e m’innamorerò di un’altra ragazza. Ricomincerò a
correre quella che alcuni chiamano vita. Poggerò la matita e riprenderò. So che
è una bugia, ma vi voglio illudere. Non sono mai stata una brava persona, in
molti cercano di convincermi della mia bontà, per quanto mi riguarda cerco e cercherò
solo di non affondare. Vi chiederei di salvarmi, ma l’aiuto spontaneo, senza
richiesta è quello che preferisco. Cercherò di nascondermi ed essere normale;
fingere la felicità non è mai stato un problema.
La matita sta
per finire. Mi tocca alzarmi, ma prima di mantenere quell’assurda promessa -
che infrangerò - ho voglia di ballare, perché “tutto passerà se balli
walla-walla bang-bang!”.[1]