Storie originali > Romantico
Ricorda la storia  |      
Autore: tomboy    20/07/2014    1 recensioni
"Aveva i capelli biondi con qualche sfumatura cioccolato e gli occhi di un azzurro intenso, discreto. Tutto in lei però comunicava forza. Teneva un piede appoggiato al muro della scuola, incurante dell’impronta infangata che sarebbe rimasta e mi sorrideva divertita. "
"Era il bacio più meraviglioso che avessi mai ricevuto, nulla in confronto ai ragazzi, neanche paragonabile, quella era droga pura; una droga che provavo per la prima volta e che non volevo smettere di assumere."
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
rtrfdcd

Sindrome da abbandono

 

 

Ad A. S., perché ci credeva.

A Z. S., anche nel colore sentiamo il loro amae.

 

 

Forse non sono la persona migliore del mondo, ma la vita mi ha insegnato l’autocontrollo, a nascondere i miei impulsi, a cominciare a ragionare come loro, come voi.
Mi piaceva giocare con le bambole, non quanto correre o dare calci a un pallone, ma mi piaceva. Alla fine di ogni storia che m’inventavo, Tania sposava Brandon, quello delle Winx, tutti vivevano felici e contenti e i bambini e l’amore vincevano sempre.

Segui il tuo cuore e sarai sempre felice. Erano queste le parole che mi ripeteva spesso mia madre e ancora ora ne sento il suono e il peccato che mi accompagna. Avvicinavo le teste delle due bambole, si baciavano sotto la pioggia; sì sotto la pioggia perché nei miei sogni di bambina i baci sapevano di sale e zucchero, di gioia pura. Sentivo il cuore arrivare alla gola quando ci pensavo, a volte tremavo da quanto desiderassi essere baciata da qualcuno.
Quando mi trovavo a scuola però, quando entravo nella vita reale questo sogno fantasioso mi passava di mente, come se potesse essere disegnato solo con il gesso, per poi venire cancellato con una secchiata d’acqua non appena le mie scarpe lasciavano la porta di legno scuro di casa. A ricreazione grande il sogno però tornava. Me ne stavo con le mie quattro compagne di classe ogni tanto, invece di correre dietro al pallone assieme ai miei quindici compagni; se ne stavano distese sull’erba come dive e organizzavano matrimoni.
–E tu, e tu con chi vuoi stare?
– Con Tommaso – risposi sparando il nome del bambino che mi affascinava di più. Le mie compagne mi fissavano con occhi grandi e dissero che mi avrebbero aiutata, tanto convinte e fiduciose che ad un certo punto di Tommaso m’innamorai veramente. C’era solo un punto oscuro nelle mie rosee fantasie: mi vedevo mano nella mano con lui, lo vedevo che mi stringeva, ma quando si trattava di immaginarlo baciarmi allora crollavo; era come se la mia mente rifiutasse con violenza l’idea di quel bacio e mi svegliavo con una vaga sensazione di disgusto. Non riuscivo a figurarmi di baciare nessuno sulle labbra, tranne le mie amiche, ma beh, loro erano mie amiche era ovvio che mi venisse naturale baciarle, no? Le conoscevo bene, ci scambiavamo segreti, avremmo dato la vita l’una per l’altra, insomma era ovvio che con loro mi sentissi a mio agio; coi maschi invece non avevo un grande rapporto, ne avevo anche un po’ paura, era per questo che anche solo l’idea di poggiare le labbra sulle loro non mi attirava granché.
Cominciai a fare amicizia con Tommaso, poi andammo alle medie e non lo vidi più. M’innamorai di svariati ragazzi, nomi che ho ancora ben impressi in mente. Poi mi scordai persino il suono della parola “amore”, mi assuefeci alla solitudine e a scorgere indifferente i cuori ogni giorno infranti.
Mi svegliai un’estate, quando Giacomo mi scrisse che mi amava, che voleva stare con me … Pensai a uno scherzo all’inizio: i suoi amici gli avevano preso il cellulare e mi avevano mandato quell’sms per farsi due risate, perciò cancellai il messaggio senza pensarci troppo su. In seguito ebbi modo di comprendere fin troppo bene che Giacomo mi amava, ma questa è un’altra storia. Io voglio parlarvi di Anna, della mia Anna, della ragazza che fino a qualche ora fa aveva la testa poggiata sulle mie ginocchia. Ha diciannove anni, tre più di me e in questi ultimi mesi mi sono resa conto di amarla. Quella ragazza bionda che anche se mi fa arrabbiare a morte, anche se mi irrita non riesce a farsi odiare e ad uscire dalla mia testa, ma sto correndo troppo.
Tutto cominciò con Lisa, c’eravamo conosciute a catechismo, il che è strano visto che lei è atea convinta, io all’epoca non prendevo posizione in merito. Un giorno all’angolo del cortile si fermò e mi disse: –Lei è Anna. – Queste parole risuonano ancora forti nella mia mente, ma non quanto in quei giorni successivi; mi rimbombavano continuamente nella testa e mi ripetevano sempre il suo nome: Anna. Anna. Anna …
Aveva i capelli biondi con qualche sfumatura cioccolato e gli occhi di un azzurro intenso, discreto. Tutto in lei però comunicava forza. Teneva un piede appoggiato al muro della scuola, incurante dell’impronta infangata che sarebbe rimasta e mi sorrideva divertita. Spostò la sigaretta dalla mano destra alla sinistra e, mentre mi stringeva la mano, mi baciò su entrambe le guance.
–Beatrice. Io mi chiamo Beatrice. – sussurrai. Non mi è mai piaciuto il mio nome, ma il significato è bello: colei che porta beatitudine e, in effetti, è quello che solitamente faccio senza nemmeno rendermene conto perché beh, la calma mi accompagnava sempre; nell’ultimo periodo però era stato difficile non impazzire, non spezzarmi in mille pezzi, a causa dei ricordi di quel passato che tuttora mi tiene sveglia e che mi spinge a distruggermi ogni giorno di fatica, per poi crollare alle dieci di sera, sperando in un riposo senza sogni. Io la sera la odio. Spero vivamente che passi in fretta, di modo che arrivi presto la mattina e mi manchi un giorno in meno da scontare alla mia condanna; un giorno di meno da vivere in questa perenne angoscia senza meta. Ma sto divagando, volevo parlarvi di Anna. Eravamo diventate quasi amiche nel frattempo e dovevamo partecipare a una grigliata e le avevo chiesto di venire a casa mia di modo da non andarci da sola.
Io solitamente non mi trucco, okay è una bugia, io non mi trucco mai. Quella sera Anna aveva una voglia matta di mettermi ombretto e quelle cose lì; avrei potuto fare sparire tutti i suoi trucchi come avevo sempre fatto con chi provava a mettermi in faccia qualcosa, ma mi costrinsi a non nascondere tutte le sue scatolette e matite e boccette mentre non guardava. Le sorrisi timida.
–Stenditi sul letto – mi disse assorta. Non ero un’esperta di quelle cose, ma mi sembrava strano. – Allora? Su! –
–Ma perché? – mi arrischiai a chiedere.
–Perché è più comodo, no? – disse semplice sorridendo. Non avendo coraggio di ribattere obbedii, anche se un po’ nervosa. Lei si chinò su di me e avvicinò al mio volto le dita sporche di una polverina rosa. Ero tesa, terribilmente tesa. Era talmente vicina, troppo vicina. Le punte bionde dei suoi capelli mi danzavano davanti agli occhi; con le mani nervosa giocavo con i laccetti dei miei pantaloni militari. Ad un tratto mi prese le mani stringendole a coppa e incrociò il mio sguardo, cosa che stavo cercando di evitare. Era troppo vicina, troppo vicina … Con i suoi capelli che mi toccavano le spalle azzerò le distanze, in un attimo le sue labbra sulle mie, in un attimo tutto il corpo che bruciava dal piacere, dalla gioia, dallo stupore. Era il bacio più meraviglioso che avessi mai ricevuto, nulla in confronto ai ragazzi, neanche paragonabile, quella era droga pura; una droga che provavo per la prima volta e che non volevo smettere di assumere.
Sentii un rumore e mi riscossi. C’era mia mamma dietro la porta di camera mia, c’era lei che ignara si affaccendava in cucina, c’era lei ma non m’importava. Lasciai che Anna continuasse a baciarmi lungo il collo, sulle guance, sulle labbra; ero talmente inebriata che quando smise le misi una mano dietro al capo e cercai nuovamente quel piacere. La porta si aprì con uno scatto, mi bloccai con il battito del cuore che rallentava per farmi cogliere ogni dettaglio. Anna sorrise a mia madre. – Ha visto? Ho truccato sua figlia!
Non so come, grazie alla protezione di quale Dio, mia madre non si era accorta di nulla.
Da lì non feci più ritorno.
Se lei non mi avesse baciata, io avrei continuato la mia vita da persona normale, perché chi mai crede di essere diverso?  Chi mai penserebbe di non amare i ragazzi, di provare un amore folle per una ragazza? Io no. Ho sempre visto Sky e Bloom, Peter e Wendy, Robin Hood e Lady Mariam … Sempre maschio e femmina. Quando ero piccola, pensavo non ci fosse altro modo di amare, poi la televisione mi ha istruita. Ma, cavolo, continuavo a ripetermi, perché proprio io?

 Anna era, o per lo meno appariva, come la classica ragazza che porta guai. Si tingeva spesso i capelli dei colori più improbabili, anche se io adoravo il suo biondo cioccolato; aveva un piccolo tatuaggio a forma di Sole, fumava spesso e beveva, e pure parecchio, ma mai troppo di fronte a me. Mi dicevano che si comportava male con gli altri, che era pericolosa, ma io non prestavo ascolto a quelle parole. Io mi basavo su quello che vedevo e lei era gentile, lei era buona.
Stavamo assieme in pianta stabile e quando andavo a dormire a casa sua mi sembrava un sogno, mi sembra tuttora per niente reale tanto era bello. Io e lei che andavamo a dormire, io e lei che ci coccolavamo, lei che mi seguiva sempre con gli occhi come se potessi spezzarmi da un momento all’altro e quando incontrava il mio sguardo doveva leggerci qualcosa che le piaceva, perché mi sorrideva tranquilla. Ero sempre io che, con la sua voce in sottofondo crollavo dal sonno. E quando avevo paura c’era lei e quando i sogni non mi lasciavano andare c’era sempre la sua mano stretta nella mia; al mattino i suoi occhi che mi cercavano. Mi diceva spesso ‘ti amo’, mi chiamava con dolci soprannomi ed io lo adoravo perché vivevo sempre nel terrore che non mi volesse più e ne avevo bisogno; necessitavo del suo quotidiano affetto, perché senza che lei me lo ricordasse, io cominciavo a pensare di essere solo un peso.
L’unica cosa di lei che non apprezzavo erano i suoi continui ‘dove, come, quando, perché’. Odiavo - e odio ancora - dire anche solo quando esco. Lei dal canto suo penso odiasse i miei silenzi, odiasse che non le dicessi chi mi aveva fatto soffrire, odiasse che corressi piangendo da lei e una volta calmata mi rifiutassi di dirle perché.

Anna passava molto tempo con il suo gruppo di amici, scherzosamente si chiamavano i Cacciatori. Le chiesi varie volte il perché, ma a quanto pare quello era un nome dettato dal caso. E da quando frequentavo lei, anche io cominciai a passare i miei pomeriggi con loro. Mi chiamavano spesso ‘la ragazza del capo’, perché Anna era il cuore pulsante di quei venti ragazzi e decideva praticamente tutto.
Ricordo che un giorno di sole io e lei eravamo distese sul prato, in riva al fiume assieme ai Cacciatori che giocavano tranquilli a briscola, scala 40 e ad altri giochi inventati. Avevo passato l’intera giornata in tensione per un piccolo litigio con un’amica. Avevo gli occhi chiusi, immagino Anna pensasse stessi dormendo; fu per questo che quando Marco, il suo “secondo”, le si avvicinò per parlarle, gli fece segno di non trattenersi. Parlavano di un gruppetto di ragazzi che aveva insultato un Cacciatore, parlavano di vendetta, di fargli capire chi comandava. Fra tutti questi piani di guerra lei giocava piano con i miei ricci. Dimenticai l’accaduto pensando a un sogno.
Ad Anna piaceva molto andare al fiume, lei stava sulla riva a prendere sole mentre io nuotavo. A volte mentre mi guardava in costume le orecchie mi bruciavano. Fu proprio al fiume, quand’ero per conto mio, che un ragazzo vestito di rosso mi avvicinò.  – Di’ ad Anna che noi non ci stiamo, dille che è guerra. – E penso avrebbe continuato con le minacce se il suo compare non l’avesse afferrato per il braccio. – Guardala, – aveva cominciato – non sa nulla. Non spaventarla.
Quando raccontai l’accaduto ad Anna, lei mi disse che doveva trattarsi di uno scherzo. Fumava mentre lo diceva. Mi avvicinai baciandola dolce sul collo, perché sentivo che qualcosa non andava come doveva e che lei era distante. Si riscosse un attimo e mentre cercavo di farla stare bene sussurrò: – Non fumare mai, Beatrice. Non provare. Non cominciare. Me lo prometti? – Non capivo cosa c’entrasse quello con il discorso di prima, ma mi affrettai ad annuire. – E non bere, lo sai che solo un bicchiere ti fa impazzire – annuii di nuovo, preoccupata da quelle raccomandazioni. Sentivo che con la mente era a mille kilometri da lì, mi accoccolai vicino a lei con un sapore amaro in bocca: stava per accadere qualcosa ed io ne avevo paura.
Grazie ad Anna ero cambiata. Finalmente ero tranquilla e morivo continuamente dalla voglia di stare con lei. Anna mi dava tutto, io cercavo di essere alla sua altezza, ma ogni volta mi sembrava di non fare abbastanza, non quanto lei perlomeno. Lei era la mia luce, l’unica con cui potessi essere me stessa fino in fondo. Ma mi teneva nascosto un segreto.
Anna mi proteggeva da tutto. Era seduta a fianco a me nella macchina un giorno. I miei genitori parlavano continuamente di morti e di ospedali e di come stava male, andavano nei dettagli. Stavamo andando di corsa in ospedale, perché mia zia aveva tentato il suicidio, di nuovo. Mia zia dagli occhi luna e lo sguardo disperso, dalla pelle macchiata dal Sole. Quella che mi sorrideva e che quando ero piccola mi regalava i Lego.
Avevo in mente quei coltelli, la gola, i buchi, il sangue. E i miei ne parlavano e parlavano, immagino li tranquillizzasse. Io volevo scappare da quell’auto, aprire la portiera e rotolare, rotolare sull’asfalto. Tagliarmi, avere il corpo coperto di escoriazioni, battere il capo a terra, ma non sentire almeno. Sangue. Coltelli. Sangue. Tutto nella mia testa; le mie mani che indugiavano sulla portiera. Voglio scappare, scappare … Ero disperata. Ma stavo immobile, testa appoggiata al finestrino, apparentemente calma. Sangue. Ero a piedi nudi, le ciabatte abbandonate sul tappetino della macchina. Mi strinsi le ginocchia al petto e ci affondai il capo. Anna leggera, ben attenta ai miei genitori, mi mise una mano sulla spalla. Coltelli conficcati nella gola. Lama zigrinata. Quelli della carne. La mano di lei sulla mia schiena.
Ci arrivammo in ospedale; ho ancora nelle orecchie mia madre che diceva ad Anna che le dispiaceva aver ‘dirottato’ l’auto così di punto in bianco e di non averla potuta riaccompagnare a casa. Coltelli. Sangue. Coltelli. Sarebbe passato a prenderla suo papà.
Andai nella sala d’attesa, ormai familiare. Avevo il mio posto: l’angolo da cui potevo vedere arrivare tutti. Mi sedevo e rimanevo così, ferma immobile per ore.
Cadevo - cado - a volte in quegli attimi di vuoto. Non lo faccio apposta; mi capita più facilmente se qualcosa mi turba e beh, il mondo non c’è più, né il rumore, solo il colore. Quando uscivo da questi momenti da cui nessuno poteva riscuotermi, mi creava confusione vedere che alcune persone non c’erano più o non erano nelle stesse posizioni. Mi sembravano secondi, a volte erano anche ore. Non so che cosa mi riportasse a quella che voi chiamate realtà. Quando ritornai dal mio viaggio quella sera c’era ancora Anna, nella stessa identica posizione, pensai fossero passati solo pochi secondi, in seguito mi dissero che ero stata così per dieci minuti. Anna. Ospedale. Zia. Sangue. Coltelli. Sangue. Mi tornava tutto in mente e cominciavo a contare per calmarmi. In tedesco, contavo sempre in tedesco perché era più difficile.
Anna era rimasta  lì, ferma immobile perché sapeva che quando mi bloccavo, mi disorientava che la realtà fosse cambiata nel frattempo. Mi prese la mano. Me la stringeva passando rassicurante il pollice sul dorso. In senso antiorario, a piccoli cerchi, con un ritmo regolare. Mi sono sempre piaciuti gli schemi. Lei m’impediva di immergermi di nuovo nel mondo del colore. Ed era un bene. Perché più ci rimanevo, più pensavano che non avrei fatto ritorno. Non avrei più parlato, incrociato sguardi, seguendo quelle che per loro erano linee invisibili, ma che per me erano sfavillanti.
La mano nella sua. Alle quattro del mattino non c’erano ancora notizie. Lì all’ospedale il tempo lo dettavano le persone. La mattina una folla di anziani, il pomeriggio i più giovani, la notte medici e divise blu, calma e confusione. Mi addormentai su Anna, la mia ragazza, che non dormiva mai.
Mi svegliai nel mio letto. Non so quando mi ci avevano portato. Mi svegliai e rimasi immobile con il cuscino sulla testa. Coltelli. Chiusi gli occhi, le mani sulle orecchie. Rimasi lì fino alle cinque di pomeriggio quando Anna entrò, mi prese per mano e non mi lasciò più.
Immagino che se anche avesse pensato di dirmi la verità, fosse rimasta in silenzio ripensando a quell’episodio; Anna e i Cacciatori non erano un semplice gruppo di amici, erano una banda. Una di quelle che hanno il proprio territorio, che si scontrano con le altre bande e che hanno coltelli, e non solo, per farsi ascoltare. Io non ne sapevo nulla. Anna e i Cacciatori facevano tutto nell’oscurità, nel mutuo accordo di proteggermi dal loro mondo.
Anna mi ha lasciata, sono passati tre mesi ormai. Stamattina è ricomparsa perché doveva riprendere il suo vocabolario di russo. Mi aveva lasciata dicendomi che mi avrebbe fatto del male. Non m’importava nulla a me di quel male che mi avrebbe potuto fare, perché lei era buona, perché io l’amavo e nei suoi occhi leggevo la mia vita. Ora che non sto più con lei, non ho la forza di essere me stessa. Non l’ho mai detto ai miei che ero lesbica; non ho intenzione di farlo. Spero ancora di innamorarmi di un ragazzo, di baciarlo, di amarlo, ma sono egoista e seguo con gli occhi le ragazze e vedo loro e sogno Anna.
Lei è tornata stamattina a casa mia, lei ha preso il vocabolario, mi ha accarezzato la testa, l’ ho guardata. Non so cosa ha letto nei miei occhi, ma mi ha baciata, mi ha stretta al petto e poi presa per le spalle. – Non aspettarmi, Bea – e se n’è andata. Questa volta per sempre.
Mi sento soffocare, ma sono egoista e m’innamorerò di un’altra ragazza. Ricomincerò a correre quella che alcuni chiamano vita. Poggerò la matita e riprenderò. So che è una bugia, ma vi voglio illudere. Non sono mai stata una brava persona, in molti cercano di convincermi della mia bontà, per quanto mi riguarda cerco e cercherò solo di non affondare. Vi chiederei di salvarmi, ma l’aiuto spontaneo, senza richiesta è quello che preferisco. Cercherò di nascondermi ed essere normale; fingere la felicità non è mai stato un problema.
La matita sta per finire. Mi tocca alzarmi, ma prima di mantenere quell’assurda promessa - che infrangerò - ho voglia di ballare, perché “tutto passerà se balli walla-walla bang-bang!”.[1]

 

 



[1] Verso di “Tutto passerà”, una canzone dei Cartoons

  
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: tomboy