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Autore: iosonoluna    21/07/2014    0 recensioni
"Quando si svegliò, non riconobbe il posto. Succede quando si perde la memoria, si ha quel senso di smarrimento."
Genere: Fantasy, Horror, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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‘ Quando si svegliò, non riconobbe il posto. Succede quando si perde la memoria, si ha quel senso di smarrimento. Alzò la schiena e appoggiò le mani al materasso, per tenersi su. Non aveva abbastanza forza per camminare e andare a esplorare il luogo, si accontentò di guardarlo da quella visuale. Le pareti erano color verde bosco, quasi verde militare, ed erano vuote, neanche un quadro era stato messo. Il pavimento era a piastrelle bianco perlato, tendente al verde chiaro. Di finestre non c’era traccia, eccetto una, una strana finestra rotonda posizionata nella parete opposta a lei, in legno. Vicino a lei, alla sua destra, c’era un comodino, verde, sopra al quale qualcuno aveva messo una sorta di pappetta, una medicina forse, e un telefono, verde scuro. Il letto dove stava era marrone, con le lenzuola e il piumino verde. Per terra, a sinistra, c’era un paio di pantofole, verdi.  Alzò la testa, il lampadario era forma di fiore, e verde. Il camice che indossava, provate a indovinare, verde pure quello, un verde molto chiaro ma pur sempre verde. La porta, aperta, era verde. Tutto era verde. Si guardò la pelle, no quella era rosa, per fortuna.  Beh, ovunque fosse di sicuro non era in un posto normale. Non voleva diventare verde.  “Che poi, perché questa fissazione per il verde?” Non ricordava niente di ciò che le era successo prima di svegliarsi, magari era semplicemente svenuta. Di certo non poteva stare lì a girarsi i pollici, ma non poteva neppure gridare “Ehi c’è qualcuno qua? Qualcuno abbia la cortezza di alzare il sedere per venire ad aiutarmi!”. No, non poteva, o meglio, avrebbe potuto, ma nonostante il suo stato non era così fusa da non capire cosa fosse giusto e cosa sbagliato. Optò per l’opzione tre: mi alzo e cerco di camminare sperando di non spaccarmi niente. Tenendosi al letto, riuscì a fare qualche passetto, tuttavia non sapeva per quale strana ragione si trovasse lì, era meglio essere cauti. Arrivò a dieci passi, all’undicesimo si trovò a terra. Una ragazza, che aveva l’aria di essere un’infermiera, la notò, restò lì ad osservarla e sgranò gli occhi. “O scusa, che ho fatto di male che devi guardarmi così” avrebbe tanto voluto dire, ma anche questa cosa entrava nella lista “cose da non fare”. Erano tante le “cose da non fare”, e questo la turbava. Non sapeva perché avesse in mente la lista delle “cose da non fare”, forse era la sua coscienza che in automatico la bloccava non appena aveva l’impulso di fare qualcosa di “sbagliato”. Tornando a noi, la ragazza-infermiera, che sembrava presa dall’emozione non si sa perché, fece cadere i documenti che aveva in mano e iniziò a urlare in giro per tutto l’edificio.                    
-E’ sveglia, è sveglia, si è svegliata, o signore… qualcuno venga qui!! Veloci!!- La sua voce metteva ansia. Era una donna giovane, a vederla sembrava sulla ventina, avrà avuto più o meno venticinque anni. Era piuttosto grassottella, le guance paffute. Sembrava una brava persona, ma la ragazza, a terra, notò qualcosa che, dal primo istante, non apprezzò: la sua divisa, una sorta di uniforme, simile a quella delle donne delle pulizie, con la camicetta giallina, e la gonna, verde. Verde, di nuovo. Non ne poteva più del verde.
 -Perseo!! Perseo!! Signore, venga! Sua figlia, Persefone!-                                                                                                                                        -Perseo è mio padre? Cosa? Chi? Io mi chiamo Persefone? Che?- si tirò su e si adagiò sul letto, lentamente. Forse lo fece lentamente perché il nome di suo padre la faceva sentire nobile, era un nome da nobile, Perseo.  A dire il vero era un po’ meno preoccupata di prima, stava per incontrare suo padre, forse. Beh, era perfetto, sicuramente si sarebbe tolta un po’ di dubbi. La porta non era del tutto aperta, ma sembrava che la donna si fosse allontanata, dal momento che non le aveva risposto. Mentre attendeva che arrivasse qualcuno, iniziò ad elencare, nella sua testa, le cose che avrebbe dovuto domandare. Dove si trovava? Perché aveva perso la memoria? Ma soprattutto, chi era lei? Mentre stava fantasticando sulla sua vita, immaginando se fosse, che so, con gli occhi blu o marroni, doveva ancora vedere la sua faccia, bussò alla porta un uomo dalla voce possente:              -Posso entrare, Persefone?- ancora quel nome, Persefone, e lei iniziava a capire che forse, sì, si chiamava così.                    
-Entra pure. - l’uomo si sedette sul bordo del letto e per qualche istante la stanza fu completamente in silenzio, ma non era un silenzio imbarazzante, i due si stavano esaminando, cercando di non incrociare lo sguardo.                                                                           
-Ciao, Persefone.                                                                                                                                                                       
-Ciao. Sei tu Perseo?                                                                                                                                                                   
-Sì sono io, tuo padre- le passò una mano sulla guancia.                                                                                                                   
 -Ma tu, lei, la mamma dico. Chi sono io? Chi è mia madre? Dove sono? Cosa mi è successo, perché sono qui? E quanti anni ho? Che faccia ho, dico, non mi sono mai vista allo specchio! Ho troppe cose da chiederti, papà. Chi sei tu?                        
-Calma, Persefone. Risponderò a tutte le tue domande, non temere. Vuoi che ti racconti tutto, dall’inizio?                                                                                                                                                                                           
-Certo!- lei era entusiasta.                                                                                                                                                             
-Beh, tutto iniziò un giorno di primavera del 3055, centoventi anni fa. Io ero al fiume, stavamo lavorando…            
-Cosa? Tremilacinquantacinque? Centoventi anni fa?  Va bene che ho perso la memoria, credo, ma io sono rimasta al 2014.- lei lo interruppe, nonostante quella vocina da dentro le dicesse che era una “cosa da non fare”. -Cioè dico, quanto sono rimasta a dormire, senza senso? Forse sono proprio mal ridotta, non ricordavo neppure il mio nome! Forse ho sognato, non capisco papà.            
-Se mi fai proseguire, ti ho già detto, chiarirò tutti i tuoi dubbi, e se vuoi, ti farò parlare con delle persone che ti aiuteranno.                                           -Okay. Vai avanti.                                                                                                                                                                           
-Dicevo, tutto iniziò un giorno di primavera del 3055, centoventi anni fa. Ero al fiume, stavamo svolgendo il nostro lavoro giornaliero. Mentre raccoglievo l’acqua, insieme ai miei compagni, sopra la mia testa volavano alcune fate- Persefone era quasi scioccata, aveva detto “fate”? - , tra queste una particolarmente bella, di nome Giglio. Il loro compito era quello di trasportare il cibo, essendo loro dotate di ali, mentre noi elfi dovevamo farci tutta la strada a piedi. Eravamo all’ultimo anno di scuola, alla fine del quale c’era un ballo. - Persefone faceva strane smorfie, da quanto le sembrava incredibile ciò che udiva - Potrei parlarti di questa storia per ore e ore, ma cercherò di essere sintetico. Lei aveva ricevuto varie proposte per questo ballo, ma sembrava non volere partecipare. Io quella sera ci andai da solo, quando arrivai lì, erano tutti a danzare, sulle note di quella dolce canzone. Ero l’unico che si annoiava, seduto a guardare gli altri divertirsi. Dopo un’ora, circa, si fece presente tua madre. Era così bella, vestita elegante. Non potei fare a meno di alzarmi, baciarle la mano e proporle di unirci agli altri con la canzone successiva. Lei prima di allora non mi aveva dato molta importanza, ma quella volta accettò, e ballammo per tutta la notte. Si fermarono ad osservarci perfino dei bambini, dei bambini veri, non i nostri bambini, quelli grandi e cicciottelli, alla faccia delle creature mitologiche, i bambini esistono, e assomigliano molto a noi fate e elfi, Persefone. Hai mai sentito parlare degli umani, vero? Ti ricordi di quando li hai visti, no?                                                                                                                                                     -Sì, credo. Io ero un essere umano. Io sono un essere umano.- parlò talmente a bassa voce che sarebbe stato impossibile udire la sua voce.
-Finisci di raccontare, papà.                                                                                                                                                         
-Bene. Alla fine della serata, le strappai un bacio, uno di quei baci seri. Dopo che ottenemmo il diploma dell’acqua io e quello dell’aria lei, le chiesi di sposarmi. Eravamo insieme da cinque mesi, sembrava una storia seria. Lei ci pensò su, mi rese contento quando mi rispose con un “Sì, lo voglio. Io amo te.”. Fui ancora più felice quando mi disse di aspettare una dolce creatura, femmina. E’ raro che gli elfi e le fate riescano a riprodursi, di solito, nella maggior parte dei casi, si è figlio di fata e fatino o elfo ed elfi femmine. Ma tu eri un caso particolare, che rese me e tua mamma tanto contenti.                                                                                                        
-Che bello! E dov’è mamma? Posso incontrarla?                                                                                                                                
-Mi dispiace, non puoi.- disse con tono quasi solenne- Le fate sono più piccole degli elfi, e più gracili. Quando arrivò il momento di partorirti, lei era rilassata. Ma purtroppo andò tutto storto, tu eri troppo grande per riuscire, insomma, eri un terzo di lei. I medici riuscirono a farti sopravvivere, ma lei è morta, dissanguata, mi hanno detto. Fin da piccola, hai sempre saputo queste cose, ovviamente te lo avevo spiegato con altre parole. Mi dispiace che tu non la possa conoscere, Persefone. Assomigli molto a Giglio, hai molte cose in comune a lei. Ora che stai bene, se vuoi, puoi visitare la casa, e anche il nostro paese, se ti va. Ti farò accompagnare da alcune persone.                                                                                                                 -Dove sono?- chiese alzandosi dal letto.                                                                                                                                                                -Dici dove ti trovi? In questo caso, siamo a Ciliegio34, non è ancora in fiore, ma tra poco potrai iniziare a lavorare anche tu, e raccogliere le ciliegie, come faceva tua madre. Anche tu hai le ali. Se intendevi dove sono queste persone che ti accompagneranno, sono qua fuori. Entrate ragazzi, so che state ascoltando. La porta si aprì lentamente, e spuntarono due fatelfi, così aveva deciso di chiamare i “meticci” come lei. Uno era alto e grassoccio, e teneva le gambe incrociate e le mani dietro la schiena, in segno di imbarazzo, l’altro era piccolino e gracile, sembrava più tranquillo.                                                                                                                                            
-Ciao…sono Elio- fece il primo con un’espressione quasi da “devo proprio parlare?”, alzando leggermente la mano destra, come per sfiorare l’aria. Il secondo con un balzo varcò la soglia e si mise a gridare:                                         
-Buongiorno, Penelope, no scusa, Persefone. Su su, che aspetti, vestiti che andiamo a zonzo, su su! Esca Perseo! Lasci da sola sua figlia, un po’ di privacy insomma!- e lo trascinò fuori, chiudendo la porta e salutando la giovane. Approfittando della situazione, esaminò la stanza. L’avevano lasciata sola, ma l’armadio per i vestiti dov’era? Ci mise un quarto d’ora per capire che l’armadio si vedeva solo in particolari situazioni: aveva il vizio, che era rimasto nonostante il coma-svenimento, ancora non le avevano detto se era stata in coma o solamente svenuta, di sbadigliare solo con l’occhio destro aperto, e quello sinistro coperto dalla mano. L’armadio appariva solo con l’occhio sinistro chiuso. Prese ciò che serviva -il guardaroba era pieno zeppo di abiti- e notò che molte altre cose apparivano solo in questo modo, come fosse una sorta di password anti-ladro. C’era uno specchio, lei lo toccò e si accorse che poteva sbloccarlo da questa “password” semplicemente mostrando la mano, e questo diventò visibile anche con tutti e due gli occhi aperti. Fu sorpresa dal riflesso che vide, si immaginava più bella, per essere una fata: aveva le ali, sì, ed era anche carina, con quegl’occhi blu notte e le labbra rosse, ma non era bellissima, come raffiguravano gli umani nei loro libri sulle fate.  Le sembrava di essere un essere umano, in altra vita, forse. Non sapeva perché questa idea, ma le pareva che le fate fossero tutte belle e aggraziate, così aveva letto da qualche parte. Evidentemente, chissà, durante il periodo coma-svenimento, aveva sognato di essere un umano, era la sua più grande aspirazione da sempre. Ammirava molto gli esseri umani, li aveva studiati, all’età di sessantatré anni. Non le facevano paura, come a molte fate e a molti elfi. Passò circa venti minuti a cercar di ricordare il più possibile riguardo queste creature, ma non poteva far aspettar per sempre i suoi “amici” fuori, Elio e l’altro. Uscì e guidata dalla poca memoria rimasta arrivò in cucina. Non fece in tempo ad esplorarla, il “fatelfo” magro già l’aveva portata all’esterno, volando. Una volta atterrati in un posto sconosciuto alla ragazza, si misero a dialogare.                                                                                                                                            -Ehi, ti è piaciuto volare?                                                                                                                                                                              
-Sì. Come ti chiami?                                                                                                                                                                                     
-Sono Earth, piacere.- le porse la mano, sporca di terra. Lei pensò che era una cosa orribile, una mano sporca dico, non il gesto. Gliela strinse, e si accorse che nel fare questa cosa, le loro mani si scaldarono. Ma non erano imbarazzati, per cui sudavano di più, semplicemente lei era un simbolo di acqua-aria, lui di fuoco-terra. Dicono che gli opposti si attraggano. Dopo non molto arrivò Elio. Seguirono tre minuti di silenzio. Tre come loro. Elio era di simbolo aria-fuoco. Il simbolo non era altro che l’unione dei due diplomi dei genitori. Se la madre si era diplomata in fuoco e il padre in acqua, il loro figlio era di simbolo acqua-fuoco, e in quelle materie sarebbe stato in qualche modo agevolato. Oltre che al lavoro, le fate e gli elfi ancora inesperti andavano a scuola. In quel posto la scuola era divertente, e a Persefone sembrava di ricordare che nel suo sogno non era proprio la stessa cosa. Ma dopotutto, era solo un sogno. Non era mai stata nel mondo degli umani, dunque non poteva sapere se fosse davvero così brutto come nel sogno. Ci sono sempre dei pro e dei contro, e se si aveva la “fortuna” di essere esseri umani, non si poteva sperare che tutto fosse rosa e fiori. Beh, nel mondo delle fate era tutto rosa e fiori, letteralmente. Si guardò un po’ attorno, e c’erano fiori dappertutto, perfino nei suoi capelli dorati: fiori azzurri, fiori gialli, fiori verdi, fiori medi, fiori grandi, fiori piccoli, fiori di ogni tipo, di cui ricordava i nomi, dalle classiche margherite ai tulipani, dalle viole ai girasoli, insomma, fiori di ogni genere, già solamente vicino a lei poteva ammirare fiordaliso, strelitzia, petunia, mimosa e clematide. Sembrava che tutte le piante fiorissero nello stesso periodo, lì. Riguardo al rosa, no problem, bastava guardare gli indumenti delle fate che passavano: tutti rosa, e verdi. Ancora il verde! Ora capiva il perché quel colore avesse invaso tutto, erano avvolti nel verde, con tutte quelle piante! I maschi erano vestiti tutti di verde e marrone, le femmine avevano più scelta, ovviamente, come doveva essere. Di un’altra cosa si rese conto Persefone, nonostante fosse una cosa così evidente che si diede della stupida da sola, per non averlo notato prima: erano tutti, TUTTI, senza scarpe, né calze, lei era l’unica che le aveva indosso. Domandò a Earth il perché, lui disse che era quasi un tabù, che le scarpe si usavano solo alle feste. Ma lei era lei, lei era Persefone non Martina o Lucia, e lei avrebbe continuato ad usare le sue ciabatte col pon-pon per uscire, non voleva sporcarsi i piedi, altra cosa estremamente schifosa. 
 -Ehi Ear, ma la signora che prima è andata a chiamare mio padre, quando ha visto che ero sveglia, chi è?    
-Ah quella, lei è la vostra domestica, Megan. E’ una donna un po’ strana. Ora non posso stare a spiegarti tutto, ho promesso al capo, ehm, a tuo padre, che ti avrei portato dall’esperta che ti spiegherà qual è il tuo lavoro qui. Da questa parte. - Si misero in marcia, verso nord-ovest. Elio li seguiva, ma non sembrava tanto convinto di ciò che stava facendo. Di nuovo quella vocina da dentro, che diceva “Non farlo Persefone, te ne pentirai, non seguirli”, e questa volta disse proprio una frase senza senso, perché non avrebbe dovuto seguire delle persone incaricate da suo padre, l’uomo che da centoventi anni si prendeva cura di lei? L’ennesima prova del suo stare diventando pazza. Mentre camminavano le venne in mente che ancora non sapeva la causa del suo coma, o svenimento, insomma, non sapeva la causa della sua perdita di memoria.                             
 -Elio, ma perché ho perso la memoria? Dico, sono stata in coma?                                                                                                            
 -Puoi chiederlo dopo, all’esperta, manca poco e siamo arrivati.                                            
 Attraversarono un piccolo fiumiciattolo e si inoltrarono nel bosco. Persefone iniziava ad avere paura. Pensava “Perché dobbiamo andare nel bosco per parlare con un’esperta? Non ha senso”. Avrebbe voluto chiederlo, ma le sarebbe stato risposto “Puoi chiederlo all’esperta”. Aveva fatto tre domande, e a tutte e tre Earth e Elio avevano risposto così. Arrivarono di fronte alla porta di una casa, una sorta di baracca, e bussarono.                                                                                                                                                                                     
-Chi è?                                       
-Siamo noi, con Persefone.- rispose Earth.                                                                                                                                         
-Fate entrare la ragazza, voi attendete fuori, e non origliate, soprattutto tu, Elio.                                             
Persefone entrò. La donna aveva una voce profonda e roca, ma non incuteva timore. La fece accomodare ad una sedia. La stanza era piena di statue, ma erano statue solo della parte sopra del corpo, dalle spalle in su. Erano i volti di fate e elfi, di tutte le età e tutte le taglie. La donna sembrava simpatica, era anche molto ospitale, aveva tentato in tutti i modi di farle mangiare qualcosa, un dolcetto, magari con del tè. Purtroppo Persefone era sazia, non poteva accettarlo.                                                                                                                                          
-Dai, prendine solo uno, poi inizio a raccontarti tutto.- Non poteva rifiutare, l’avrebbe fatta rimanere male.                            
-Okay, grazie.- Persefone lo accettò, ma non appena la donna si girò per versare il caffè in una tazza, ne approfittò per mettere il biscotto in tasca, sentiva lo stomaco completamente pieno, nonostante da quando si era svegliata non avesse ancora mangiato. Le venne in mente solo in quel momento che non era possibile che fosse stata in coma, nella camera da letto non c’era nessun apparecchio, se era stata in coma certamente non avrebbero potuto alimentarla senza flebo e cose varie. Almeno, gli umani usavano le flebo, forse in quel posto no, ma in qualche modo avrebbero dovuto nutrirla. Beh, era lì, il dolce lo aveva “mangiato”, ora poteva fare quella domanda all’esperta.                                                                                                                                                                                
-Ma io, sono stata in coma? O sono solo svenuta? Perché ho perso la memoria? E quanto ho dormito?                           
-Ogni cosa a suo tempo.- L’esperta fece passare cinque minuti, durante i quali Persefone esaminò attentamente il luogo. -Ora guardami bene negli occhi, attentamente. Fissa le mie pupille- la ragazza obbedì- Ascoltami, hai mangiato il biscotto, giusto? L’hai mangiato tutto?- Persefone annuì. -Bene. Quindi ascoltami, attentamente.- Scandì le sillabe. -Ora dovresti essere ipnotizzata, lo sai?- lei annuì di nuovo, non doveva farsi capire, doveva scoprire cosa voleva fare la donna. -Riesci a sentirmi? Se mi senti scuoti il capo.- lei scosse il capo, la voce dell’ “esperta” iniziava a farsi inquietante, e Persefone notava una certa somiglianza con quella della domestica, Megan. E non solo la voce era simile, anche il volto. -Ora, cioè dopo, tu andrai da Elio, e gli offrirai un dolce dentro al quale aggiungerai quella pozione, quella che era sopra al comodino della camera tua, lui la mangerà senza dubbio, goloso com’è. Se proprio non lo vuole, o diluisci la pozione nell’acqua, oppure lo obblighi. Dopo di che, lui sverrà per pochi minuti, mezz’ora circa, durante la quale tu lo porterai a casa sua, anche se non ci sei mai andata, la riconoscerai. Dopo di che mi arrangerò io. Mi raccomando, non farti vedere da nessuno.- Persefone annuì ancora, ma questa volta mille idee le frullavano in testa, aveva capito tutto. Il perché del suo svenimento, qualcuno, ipnotizzato, le aveva offerto qualcosa da mangiare, ed era svenuta, il perché della memoria persa, a causa dello svenimento, il perché la donna delle pulizie avesse chiamato il padre, non poteva fare finta di niente, sarebbe sembrata sospetta, oppure per mandare avanti il suo piano, senza che lei si rendesse conto di ciò che stava accadendo. Ora toccava fare lo stesso a lei, ma non poteva, mandare da quella strega una persona innocente. Magari non le avrebbe fatto niente, ma comunque era una brutta cosa da fare. E poi, non conosceva la casa di Elio. Non capiva a cosa servisse far perdere la memoria a tutti. Forse ce l’aveva con suo padre. Una lacrima le rigò il viso, era emotiva lei. Megan se ne accorse. -Ma non è per caso che, il biscotto è, vediamo, dove potrebbe essere, in tasca?- glielo tirò fuori, appunto dalla tasca. -Bene bene, dolcezza, lo sai cosa succede a chi mi prende in giro vero?- la domestica si girò, quando si voltò verso Persefone la sua faccia si era tramutata in quella di un maiale, e in mano teneva un coltello. Uno di quelli da cucina, che usavano gli umani, con l’impugnatura in plastica nera e rossa, e la lama seghettata spessa quasi mezzo centimetro e lunga quaranta. Come descriverlo, era un semplice coltello, di quelli che gli uomini usavano per tagliare la carne, quando facevano le grigliate, ma non era pulito come quelli, era sporco e pieno di aloni, non brillava affatto. Lo usava come fosse una  frusta, faceva battere la parte della lama non tagliente contro il palmo dalla sua mano sinistra, imbrattata di sangue. Un’altra cosa disgustosa. -Le fate che mi prendono in giro, fanno la stessa fine di tutte le altre.- Lei non capiva cosa intendesse con quella frase. -Guardati in giro, le statue. Mi basta tagliarti la testa, quando le fate muoiono si trasformano in pietra, non sono medusa, non temere. Potrei avvelenarti, ma sarebbe troppo poco doloroso. Sai troppe cose ormai, amore bello. E non credere che la cattiva sia solo io. Ho solo sfruttato un po’ di persone, tutto qua…” Persefone non ascoltò il resto del discorso, era immersa nei suoi pensieri. Il padre, Earth, tutti e due erano stati ipnotizzati. Si chiedeva chi altro in paese fosse in quella condizione, e in quanto tempo sarebbero stati tutto sotto il suo comando. Ora che ci pensava, suo padre poteva non essere suo padre, poteva essere semplicemente una persona che era obbligata a fingere di esserlo. Magari i suoi genitori erano nel mondo degli umani, e si sarebbe spiegato il perché del suo essere attratta verso essi. Forse la voce che sentiva dentro la testa, quella che le diceva quali cose fossero giuste e quali sbagliate, era della madre, ma ora la voce aveva smesso di risuonare nella sua testa, forse grazie alla potenza di quell’essere maligno. O forse la voce era quella della strega, Megan, forse era riuscita ad impossessarsi della sua testa. Se così era, beh, era la fine. La strega le lanciò un’occhiata. -No, non mi sono impossessata della tua mente, tranquilla.- Persefone sudava freddo. Le mani le tremavano, come le sue gambe. Se si era impossessata della sua mente, poteva decidere cosa farle pensare, forse aveva deciso lei di farle pensare tutto ciò che stava pensando, un po’ per metterle paura, un po’ per divertirsi. Perché se era lei che le faceva pensare certe cose, le faceva pensare ciò che Persefone avrebbe voluto davvero pensare, e se così fosse stato, l’unica spiegazione logica era che in realtà tutte le fate e gli elfi erano la stessa persona,  i loro cervelli appartenevano alle stessa persona. Lei era il destino. Stava impazzendo. Proprio come voleva la strega. Ma se lei impazziva, alla fine era come una sorta di suicidio, per Megan. Ma non importava. Persefone si mise in un angolo, piangendo. Chiuse gli occhi, ma quando li riaprì non vide più niente, né sentì. Forse la strega, con il suo coltello da macellaio, la stava squarciando in due. Forse no. Forse era lì ferma, in attesa di un'altra vittima. Era un sogno, non poteva essere vero, non voleva rimanere lì per l’eternità, al buio, senza sentire più niente. L’unica voce che sentiva era quella dei suoi pensieri, dei pensieri di Megan, se davvero così si chiamava. ’                                                                                                                                                                                                                            
Mi svegliai dal coma dopo questo sogno. Dai rumori che sentivo, capii che ero in ospedale. Ma ad un certo punto riconobbi una voce, di una delle infermiere. E nella mia testa: mi nutro della vostra paura. Stava conquistando il mondo.
  
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