A Hilly,
che ha compiuto gli anni impunemente senza che la sottoscritta fosse in grado
di confezionarle una fic decente.
A Mimi,
perché lo scoprirete alla fine.
Al mio papà,
perché mi ha regalato un mare di orchidee quando
gliene avevo chiesta una.
Una gemma preziosa
1- La foglia al Villaggio
Per prima cosa le radici.
Lavorare su se stessi era la chiave, l’aveva detto anche Tsunade:
disciplina e concentrazione avrebbero portato i loro frutti, col tempo.
Già.
Eppure lui
non ci riusciva. Non riusciva a pensare alle parole di Tsunade.
Solo, a Ino, bambina, le gote e poi gli occhi rossi. Stranamente, a causa sua.
“Deriva dal greco orchis, lo sapevi?”.
Un bambino guarda una bambina, gli occhi neri in quelli azzurri,
sfidanti e sfidati.
“Certo che lo sapevo”. La bambina sottolinea
l’ovvietà del suo tono con una scrollata di capelli, che le superano appena le
spalle.
“Non è vero”.
“Sì invece. Mio padre ha un negozio di fiori, ricordi?”. E chiunque saprebbe dire che a quella bambina non piace
perdere, che forse non sa nemmeno cosa significhi la parola ‘perdere’.
“Sei proprio un’orchidea” scuote il capo il bambino
mentre la bambina arrossisce. “Ino, tuo padre avrà pure un negozio di
fiori, ma non ti insegna certo a distinguerli. Orchis vuole dire testicolo, cogliona”. E comincia a
ridere divertito, e Ino pensa di non aver mai odiato tanto qualcuno, in sei
anni di vita.
Shikamaru si passò una mano tra
i capelli, si scompigliò la coda e la sciolse, affondando le dita tra le
ciocche, tirandole per sentire qualcosa, dolore o pena, o rassegnazione che fosse, massaggiandosi il capo tentando di capire che
significato avesse tutto ciò, perché se ne stesse lì da tre ore a fissare
immobile – lui come lei - quella pianta.
Certo che le foglie dell’orchidea sono
proprio brutte. Pensò,
tentando lasciarsi trasportare da un pensiero contingente.
Grandi, spesse, aperte.
Ora che ci faceva caso
sembravano le sue braccia quando guardava il cielo, o
quando sconsolato le spalancava per poi farle cadere sui fianchi, prima di
obbedire a un capriccio – l’ennesimo – di Ino. Ino, lei sì
che aveva le braccia aperte, continuamente: quando mostrava a suo padre quanto
bene gli volesse, quando misurava il tronco del nocciolo davanti a casa sua,
quando intenerita le apriva il più possibile per abbracciare Choji nei momenti tristi.
A pensarci bene entrambi tenevano le braccia aperte, a modo loro. Solo, non le une
verso le altre.
Fu a quel punto che il genio di
Konoha si sentì stupido. Shikamaru si sentì
profondamente stupido a fare questi pensieri mentre
osservava una pianta. Si sentì stupido a pensare a
Ino, guardando quella pianta. Si sentì stupido perché quella pianta gli
ricordava, ancora una volta, lei. A dire il vero tutte le piante gli ricordavano lei.
Chissà perché.
Che stupido.
Mentre le sue foglie, le sue
braccia restavano aperte, manco si era accorto che Ino cresceva e crescendo si
allontanava, si innalzava al di sopra di tutto, di
tutti, di lui. Si innalzava fino alle nuvole della sua
vanità, dimenticava tutto il resto mentre Shikamaru non cercava altro che la
sicurezza delle radici profonde che lo legavano alla sua terra. Lei desiderava
il sole, la luce della gloria che rende speciali; lui
inseguiva l’ombra, il buio che rende tutto uniforme. Così Ino cresceva proiettata verso l’alto mentre Shikamaru se ne stava steso
su un prato, le braccia ancora aperte, la speranza ancora salda, a fornirle
discretamente nutrimento, mentre lo stelo di lei si innalzava sempre più in là,
sempre più lontana dalla sua terra e da lui, verso nuove missioni, nuovi
incarichi, nuove glorie.
E mentre
le foglie se ne stavano in basso, sempre uguali a se stesse, progettando la
loro uguaglianza all’infinto, il bocciolo evolveva, cresceva, simile eppure mai
identico a se stesso.
“Shikamaru, muoviti!”
“Arrivo, mendokuse! Perché
non stressi Choji?”
“Perché Choji ha
bisogno di riposarsi”
“E io no?”
“Tu dormi tutto il giorno”
“Mi sembrava di esserci, stamattina alle quattro, quando la principessa
aveva assolutamente bisogno del bagno. E adesso, caso strano, hai assolutamente bisogno della tua colazione. Se mangiassi
un po’ di più forse non sverresti”. Il ragazzo alza le braccia sconsolato, e fa per allontanarsi.
“Taci”. Ino sa che non lo farebbe, non sul serio, e continua a
camminare.
Cammina seguita da un silenzio che non sa del respiro quieto e regolare
di Shikamaru. Cammina in un’ombra che non è confortevole come quando c’è lui a
coprirle le spalle. Cammina sola, e quando se ne rende conto, si sente
improvvisamente spaesata. E impaurita.
“Shikamaru? Shikamaru?”.
D’un tratto Ino si volta: il cuore in gola e la disperazione nel cuore. Per la prima volta, la disperazione al pensiero che lui possa non
esserci. Guarda a destra e a sinistra, velocemente; squadra la scena mentre non lo trova e contro sensatezza sente le
lacrime salirle agli occhi. È una ninja, è
forte…perché diamine si angoscia al solo pensiero che lui non sia dietro di
lei?
Saranno
gli ormoni, si sforza di pensare. Dopotutto, le è appena venuto
il primo ciclo e grazie a Dio sua madre le aveva spiegato
qualcosa, qualche tempo fa. Ma sua madre ora non c’è.
C’è solo Shikamaru che è un maschio, e che si lamenta di tutto, e che le fa
pesare tutto. E a dirla tutta, ora non c’è neanche più
lui.
Ino sente le lacrime annebbiarle lo sguardo, e d’istinto tira su col
naso, storcendo il volto in una smorfia per nulla attraente.
“Sono qui, scema” fa una voce alle sue spalle “Tieni”
finisce Shikamaru porgendole un panino. “Era inutile andare in due al
chiosco, non aveva senso fare due chilometri in più per niente”.
Ino guarda in basso, non parla.
“Ino?” Il volto di Shikamaru si piega abbastanza da scorgere le sue
lacrime. E in quel momento sente che vorrebbe
abbracciarla, ma l’orgoglio dei suoi tredici anni glielo impedisce. Apre le
braccia e le lascia ricadere lungo i fianchi, sconsolato.
E Ino apre le braccia e gliele butta al collo, e piange senza apparente motivo mentre i capelli biondi si mischiano a quelli neri di
lui, molto più corti, molto più ispidi.
Shikamaru sospirò ripassando i contorni
del fiore, badando alla sua consistenza fugace eppure spessa, percorrendo i cinque
petali che si incastravano alla perfezione con le sue
dita.
Sospirò pensando che Ino era così, come quel fiore: bianca con le labbra rosse e
carnose.
Di una
bellezza quasi imbarazzante per le foglie che la guardano dal basso. Ino
era sempre stata complicata eppure tanto semplice, esattamente come l’orchidea:
diffusa in ogni parte del globo e tuttavia, ogni
volta, unica, sempre diversa. E questo, tutto questo, Ino lo sapeva e l’aveva
sempre saputo; portata sempre, da tutti, al di sopra di
tutto. Anche sopra le foglie.
Dopotutto quale fiore ha
bisogno delle foglie per risplendere?
La pianta dell’orchidea, in sé,
è assolutamente banale. Ma il fiore, quello sì. Quello sì che è unico, quello
sì che non è comune, quello sì che è irripetibile, e
complicato, e affascinante.
E Shikamaru si trovò a intrecciare le sue dita coi petali del fiore, così che
sembrassero due mani, intrecciate come le loro quella sera.
Era tutto cominciato in maniera abbastanza innocente: un film tra amici,
una cosa tranquilla. Poi non c’era posto per tutti e lui doveva sedersi. E lei se ne stava lì su una poltrona grande abbastanza per
due persone, e Kiba non la smetteva di guardarla, e
lui non aveva voglia di parlare…l’aveva presa per mano e tirata su dal suo
posto, sedendovicisi comodamente e ritrascinandola a sedere. Su di lui. Avevano passato due
lunghe ore così, lei in braccio a lui, le loro mani che si cercavano e che
finalmente, dopo diciott’anni di conoscenza, si erano trovate a combaciare
perfettamente.
Shikamaru accarezzò a lungo
quel fiore solitario, passò lentamente le dita tra petali e pistillo, pensando a
come potesse vivere da solo quel fiore, reciso dalla
pianta, se addirittura avrebbe potuto fiorire da solo.
Forse, morire solo.
Solo, esattamente come lui in
quel momento.
Alzò una mano, lambì di nuovo
quel fiore recitandone a memoria i componenti, come in
una preghiera: il labello, il sepalo, il gimnostemio
e l’antera. Lo sfiorò, lo strinse tra le dita senza imprimervi troppa forza,
mentre l’altra mano scivolava all’ingiù, verso lo stelo, le foglie per poi
posarsi sul vaso, freddo. Cercò il fiore con gli occhi, cercò gli occhi di lei in quelli del fiore.
Infine chiuse
i propri, poi, stretto con forza il vaso, lo scagliò rabbiosamente contro
la parete.
2- Alla distanza di uno stelo
“Cornu che?”
“Cornu cervi. Non eri tu che te la tiravi
pensando a quella lingua morta?”
Una ragazza guarda un ragazzo, gli occhi azzurri in quelli neri,
sfidanti e sfidati.
“Odi et amo” sospira Shikamaru.
“Odie che?” fa Ino stranita.
“Odi et amo. Quare id faciam, fortasse
requiris. Nescio, sed fieri sentio et excrucior.”*
“Ti odio quando fai così” Ino incrocia le
braccia sul petto, poi d’improvviso si volta sfidandolo a parlare.
“Ti lamenti sempre che parlo poco. Dovresti apprezzare
quando lo faccio” Shikamaru scrolla le spalle, apparentemente
indifferente ma in fondo divertito.
“Apprezzerei se dicessi cose comprensibili”ritorce Ino, con estrema
naturalezza, confortata dal ritmo cadenzato dei loro battibecchi.
“Anche io non capisco la metà dei tuoi
discorsi, ma mi adeguo”.
“Beh, questo perché mi ami” ribatte lei con naturalezza.
Shikamaru alza un sopracciglio.
“Avanti, ammettilo” e Ino sorride mentre glielo
chiede.
“Mi sembrava di averlo…suggerito quando ho chiesto a tuo padre la tua mano. E tu ricambi con una pianta. Bell’investimento,
le donne”. La risata cristallina di Ino si leva in
aria, si confonde con l’aria perché ne ha tutta la leggerezza, e ha l’intensità
di quel sole d’inizio primavera, la ventitreesima della loro vita.
Sebbene fosse
primavera, Shikamaru non usciva di casa.
Non c’era amico che tenesse,
non c’era senso che contasse, non parola che fosse
d’aiuto.
Lo andò a cercare Naruto, una
fiera di banalità in bocca e un peso insopportabile nel cuore, perché in quella
missione doveva esserci lui.
E Shikamaru
se ne stava seduto a terra, la schiena appoggiata alla parete e lo sguardo
all’insù, a cercare le nuvole in un tetto, a sperare in un fiore disperso,
infranto contro il muro dell’indifferenza generale.
“Shikamaru….”
“E’ passato un mese, Naruto, lo
so”
“Mi dispiace”
“Non c’è bisogno che tu stia,
puoi andare”.
“Se
posso…”
“Potresti, ma non vuoi. Nessuno vuole. A nessuno importa nulla”. Gli faceva
male dire quelle parole, gli faceva male ferire Naruto, ma non sapeva come
altro sfogare la sua rabbia mentre era costretto a
rimanere al villaggio, mentre era costretto a mangiare, e a bere, e persino a
respirare quando non si sentiva altro che usato dal quell’Hokage
che lui stesso riteneva tanto intelligente, tanto previdente, tanto premuroso.
Poco più tardi, quello stesso
giorno, passò Neji da casa
sua: entrò senza dire nulla, guardò il fiore che aveva lasciato in frantumi a
terra, e gli poggiò una mano sulla spalla. Posò cibo e incarichi sul tavolo, e
infine fece per uscirsene silenzioso come sempre, arguto come sempre.
“Abbiamo litigato”. La voce di
Shikamaru arrivò in un sussurro mentre Neji già se ne stava andando.
Poi ancora, appena udibile: “L’ultima
cosa che abbiamo fatto prima che se ne andasse è stato
litigare.”
Neji si
fermò, chiudendo la porta alle sue spalle, lo sguardo altalenante tra il vaso
in frantumi e l’uomo distrutto che occupavano quella
stanza.
“Un marito dovrebbe amare la
propria moglie, e io sono stato solo capace di
contraccambiare la sua frustrazione con le mie frecciatine
sarcastiche. Lei ha sbattuto la porta e se ne è
andata.” Si teneva il capo tra le mani, Shikamaru. Si vergognava a dire quelle
parole, ma dovevano uscire di bocca, aveva bisogno di dirle a qualcuno, fosse anche Neji Hyuuga.
“È uscita da quella porta arrabbiata
con me. È un pensiero egoista, ma non lo posso sopportare”.
Neji non
fece passi verso di lui, ma lo guardò da uomo a uomo,
lo capì da uomo a uomo: “Non è egoista, è umano”.
“Bacia Tenten quando vai a casa.
Fai l’amore con lei”.
Neji lo scrutò
silenzioso, annuì impercettibilmente ed uscì.
Il terzo ospite della giornata
fu quello che era passato tutti i giorni, da quando
Ino era scomparsa: Choji. Il ragazzo se ne stette un
bel po’ sulla porta senza entrare: forse aspettava un segnale di Shikamaru,
forse aspettava ancora che tornasse lei; forse,
semplicemente, non sapeva che fare. E non seppe che fare finché non vide quel
fiore per terra, e allora sparì tornando con paletta e secchiello, trapiantandola
con estrema cura, e guardando gli occhi Shikamaru perché entrambi sapevano che era passato un mese, e un mese era il tempo
decretato dall’Hokage per celebrare le esequie di
coloro che non tornavano, in mesi come quelli. Quell’orchidea
sarebbe dovuta finire dinanzi alla lapide degli eroi,
lo sapevano entrambi, e avrebbe dovuto farlo quello stesso pomeriggio. Choji osservò per un po’ l’amico, e Shikamaru fece cenno di
no col capo: non era pronto, non lo sarebbe mai stato.
Dio, che senso ha una foglia senza fiore?
Mentre
Shikamaru si distruggeva a quel pensiero, Choji gli
porse l’orchidea reinterrata, il fiore tra le braccia
della foglia.
“Io ci vado” sussurrò Choji. “E pregherò anche per te” aggiunse andandosene mentre Shikamaru continuava a fissare quella
pianta, lasciando che diventasse il suo unico panorama, l’unico orizzonte della
sua disperata esistenza.
3- Gemma a primavera
“Shikamaru, non scappare!” Choji.
“Abbiamo ancora mezza cucina da montare e tu sei così sfaticato da
portare solo le piante?” Ino.
Il ragazzo dal codino sbuffa, guarda la fede che porta al dito e si
volta: “La pianta,
Ino” sussurra ammiccando. E Ino non sa che replicare. E lui sa che ha fatto la mossa giusta.
“Non sei ancora riuscito a farla fiorire, baka”
ribatte lei.
“Se tuo padre mi desse una mano…” Ino ride.
“In più di un senso, sai!”.
“Su, Shika” fa allora lei sedendosi a cavalcioni sull’unica sedia che sia stata
portata nella loro nuova casa “basta un po’ di amore, dedizione: parecchia luce
ma non troppa, acqua ogni volta che ne ha bisogno e attenzioni: costanti,
discrete, essenziali”.
“Mendokuse”
“Non ce la farai mai di questo passo!” uno svolazzare funesto
di coda e scompare di nuovo, a offrire un panino a Choji
che si era appisolato sul loro divano nuovo di zecca, a distribuire bibite a
Naruto che si era seduto sul tavolo della cucina e a fare il punto della
situazione con Sakura, che supervisionava la situazione in sala, mentre
Shikamaru se ne sta lì, un sorriso mozzo sulle labbra e una pianta di orchidea
tra le mani.
Ce l’aveva
fatta, alla fine: ce l’aveva fatta mentre lei mancava da Konoha,
mentre gli mancava, terribilmente.
In una notte, lentamente, lo
stelo era germogliato e gli aveva mostrato un bocciolo, che lui avrebbe tanto
voluto far vedere a lei, lei che non c’era.
E
l’aveva curato, medicato finché non aveva deciso che non aveva un senso, che
era patetico anche solo sperare che
tornasse, che ci fosse ancora, con lui, per lui.
E se ne stava lì Shikamaru, una
pianta d’orchidea tra le mani piantata in un vaso freddo come la morte; il
fiore tra le braccia della foglia, il cuore a pezzi sul pavimento, l’anima
devastata che si rinvigoriva a ogni angolo di quella
casa, che si disfaceva su ogni ricordo, straziandosi al suono devastante
dell’attesa disillusa.
La porta posteriore si aprì
sulla notte mentre lui si domandava che diavolo
volesse ancora Choji, a quell’ora.
Di solito passava all’orario dei pasti e si tratteneva per vederlo mangiare,
per accertarsi che lo facesse, perché Konoha non
poteva vincere quella guerra senza il capo della squadra strategica, perché non
poteva decisamente permettersi di farlo mentre non si
era fatta molti problemi a mandare alla morte sua moglie, non capendo che così
avrebbe ucciso anche lui. Solo, più lentamente.
Non perse nemmeno tempo a
chiedere all’amico cosa volesse, sentendo risuonare i
passi pesanti alle sue spalle.
“Ce l’hai
fatta”.
Sono riuscito a morire? Si chiese Shikamaru,
riconoscendo a stento quella voce. Flebile, provata, eppure inconfondibilmente sua.
Ebbe appena il tempo di
voltarsi che Ino gli si precipitò tra le braccia, aperte d’istinto
mentre il suo volto ancora ospitava un’espressione scioccata, mentre lei
si stringeva a lui con una forza che nemmeno pensava di avere più in corpo,
abbandonandosi contro di lui, lasciando cadere il suo scarno bagaglio a terra e
fregandosene della pulizia che sosteneva così maniacalmente,
una volta.
Shikamaru la strinse a sé
toccandola ovunque, prendendola sulle gambe per toglierle la fatica di reggersi
in piedi, facendole scorrere una mano lungo la schiena e portandole l’altra
dietro la nuca, attirandola a sé, premendola contro di sé, con la ferma volontà
di sentirsela addosso, tra le mani, sulle gambe, contro il petto.
“Ce l’hai
fatta” sussurrò lui tra i capelli biondi, mischiati ai suoi, molto più scuri,
molto più ispidi.
“Ce l’hai
fatta” ripeté mentre la baciava, e la abbracciava e l’accarezzava.
“Non…” cominciò lei, che non sapeva
cosa dire, o come dirlo.
“Dio, ce l’hai
fatta…” mormorò lui baciandola sulla fronte e prendendole il capo tra le mani,
mentre lei annuiva, gli occhi azzurri in quelli neri, adoranti e adorati.
“Lo so che non è il momento,
che sei stanca e che è un miracolo che tu sia qui e
che…Dio, Ino, tu sei un miracolo…C’è
un posto vacante all’accademia. So che sono egoista, so
che è troppo chiedertelo, ma…” si girò verso il vaso, dove il fiore se ne stava
tra le braccia della foglia, appassito.
“Shh…”
Ino lo zittì con mille baci, ovunque: teneri e consolatori e appassionati e
imploranti.
“Va tutto bene, amore…”
“Non sei arrabbiata con me?”
“Non lo sono mai stata
veramente”.
Si cercarono con gli occhi, e
con le mani, e mentre Ino singhiozzava, Shikamaru, finalmente, pianse.
“Mi dispiace” mormorò indicando
la pianta “Quando finalmente era in fiore, non sono
nemmeno stato in grado di tenerlo…”.
“Forse deve andare così”
sussurrò Ino, prendendogli le mani “Sai, quando un fiore d’orchidea muore, se
si guarda di nuovo in alto si scorge una nuova gemma”
“Non c’è, Ino…non sono stato
capace di trattarla come si meritava”.
“Guarda bene” gli fece allora
lei “C’è una gemma, qui” continuò indicando un pertugio dello stelo, non
staccandosi da lui che continuava a baciarla ovunque. “Non la vedevi perché
cercavi altro, ma c’è. Rifiorirà. Rifiorirò, Shikamaru.
Ora ho tutti i capelli spettinati e i vestiti macchiati, e…” sbuffò
per nascondere un singhiozzo, gli occhi rigonfi di lacrime.
“Sei bellissima. Sei un’orchidea”
“Una cogliona?”
domandò lei, un improvviso lampo divertito nei suoi lineamenti provati.
“Forse. Per avere sposato me.
Ho pensato davvero che il fiore potesse vivere benissimo lontano dalla pianta”
“La Phalenopsis
non ha pseudo bulbi, amore. Tutta la riserva di
nutrimento sta nelle foglie.”
“Anche
se c’è di mezzo lo stelo?”
“Anche
se c’è di mezzo lo stelo”.
****
“Per
prima cosa le radici.”
“Maestra?”
“Dimmi Ayumi”***
“Perché cominciamo con un fiore così difficile?”
“Perché
le cose difficili sono le più belle, piccola”.
Ino sorrise stringendosi nella sciarpa di lana e inforcando gli occhiali
che gli anni di studio le avevano regalato. Poi, gli occhi fissi
sugli alunni che pendevano dalle sue labbra, cominciò: “L’orchidea nasce da uno
pseudo bulbo, ma la phalenopsis cornu cervi, della quale ci occupiamo
oggi, stiva il suo nutrimento nelle foglie…”.
“Andiamo
Haruka***, mamma ha da fare” Shikamaru prese in braccio la figlia che si
dimenava osservando la madre intenta a spiegare.
“Ma papà! La mamma non è ancora arrivata alla riproduzione!”.
Shikamaru
avvampò, maledicendosi mentalmente: “Gemma, sei ancora piccola…e di quello ne parlerai con la mamma più avanti, comunque”
“Ma più avanti ci saranno ancora i fiori nell’orchidea?”
“Certo
piccola. Anche se a volte non sembra, si può sempre trovare
un angolo di primavera”.
* Odio e amo. Perché io faccia questo, forse domandi.
Non lo so. Ma
sento che accade e mi tormento. (Catullo, Carme 85)
** Ayu-chan,
se la leggi…è per te!
*** Haruka
significa Primavera. E Haruka è di Mimi ù.ù
Copio/Incollo il giudizio di Audy (grazie!!!)
Adoro il tuo modo di scrivere,
solcato da una malinconia inafferrabile che scorre più rapida dei pensieri
stessi. Ti senti catturata, travolta, colpita da ogni riga, ogni
parola ed il fluire della trama sembra una droga e tu ne sei affascinato e non
puoi sottrarti alla lettura.
I personaggi come sempre molto
verosimili e suggestivi. Tracci bene
una loro descrizione sotto il profilo psicologico, credo tu ti sappia
destreggiare magnificamente con Shikamaru. Il lettore rimane inevitabilmente
compiaciuto dall’ abilità di entrare nel suo mondo.
La storia in sé per sé non mi
ha lasciata insoddisfatta. Sebbene
io sia un’amante dei finali tragici e spesso li trovi molto più azzeccati di
quelli lieti, in questo caso non posso dire nulla. Se non vi fosse stata una fine felice il testo avrebbe perso il suo originale valore
divenendo un agglomerato di pensieri senza degna conclusione. Quindi anche in questo caso non posso che compiacermi. Certo
l’idea di base non brilla per originalità o particolarità, ma l’hai condotta
molto bene, delineando ogni tratto con sufficiente
profondità e imbarcandoti in ragionamenti che non mi hanno lasciata
indifferente.
Allo stesso modo ho trovato
sviluppato in maniera eccellente il tema, centrato, come desideravo.
Altro punto a favore per te!
Correttezza Narrativa: 9.5
Originalità: 7.5
Lessico e Stile: 9.5
Caratterizzazione
Personaggi: 9
Pertinenza alla traccia: 9
Totale:44.5/50