Fanfic su artisti musicali > Emblem3
Segui la storia  |       
Autore: Alex Wolf    22/07/2014    1 recensioni
Mi chiamavo Chloe Valerie King, e non ero mai stata una ragazza cattiva, aggressiva o arrogante. [...]
Mi chiamo Chloe Valerie King, e sono la bulla della scuola.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Drew Chadwick, Keaton Stromberg, Nuovo personaggio, Un po' tutti, Wesley Stromberg
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=1VyXZiAEvd4
 

Girl next door.
 


"Mostriamo sempre la parte peggiore di noi, tenendo dentro i nostri veri caratteri per paura di essere deriso.”
 
— vento-gelido

 
 



Image and video hosting by TinyPic
 
 

Martedì mattina la giornata iniziò malissimo.  Mi svegliai sudata, con il fiato corto e il battito cardiaco accelerato. Passandomi più volte le mani fra i capelli, avevo tentato di dimenticare i brutti sogni che, come non accadeva da qualche mese, mi avevano tormentata. Ma era inutile. Continuavo a vedere quell’ombra di un fantasma passato allungarsi verso di me, tentare di afferrarmi, far passare la mano nel mio busto ed estrarmi il cuore dal petto. Mi vedevo cadere a terra, gridare aiuto e poi morire sola, con gli occhi vitrei di quell’essere senza volto puntati nei miei. Dannati brutti sogni. Dannato passato senza risposte. Avevo sempre associato quell’unica ombra a mio padre, quell’uomo che aveva lasciato la mamma e non aveva voluto saperne nulla di me. Avevo associato la perdita del mio cuore a una mancanza che non ero mai riuscita a colmare, e così aveva fatto lo psicologo da cui ero andata per svariati anni. Ma la mamma non aveva voluto sentire ragioni: di quell’uomo che sarebbe dovuto essere mio padre non voleva parlare. Per lei era ancora come una ferita aperta, una cicatrice che guarisce piano piano senza essere disinfettata. E per me, anche se la curiosità mi uccideva, l’unico padre che restava tale era Marcus.
 Quando spinsi via le coperte dal mio corpo, avevo i crampi allo stomaco e dei capelli disastrosi; e se si contava persino che c’era brutto tempo, la mia voglia di vivere andava a puttane. In lontananza potevo udire il rombo del mare mosso, le onde si stavano schiantando contro gli scogli in un tripudio di schiume bianche e acque torbide. Mi alzai senza fare troppe storie, comunque, e la prima cosa che i miei piedi toccarono fu la coda di Ares. Dannato gattaccio! Come il dolore gli arrivò al cervello, l’animale si voltò adirato, soffiò e tentò di graffirmi con quei suoi artigli retrattili. Li odiavo, sia lui che quelle armi improprie.
« Mamma, tieni a bada quel tuo stramaledetto animale! » Strillai, trattenendomi dal tirare un calcio a quella palla senza pelo. Con gli occhi acquosi, Ares mi osservò per parecchi secondi prima di scomparire oltre la porta socchiusa. Sospirando, gettai la fronte contro la testiera del letto e chiusi gli occhi. Sarebbe stata una lunga giornata. Uff.
Era martedì e già sapevo che mi aspettava una lavata di capo da Marcus per via della spifferata da parte di Drew, due intense ore di educazione fisica e un compito di chimica –su cui di certo non morivo dalla voglia di mettere mano. Fantastico. Martedì da oggi sarebbe stato classificato come “secondo lunedì”. Perciò: maledetto secondo lunedì!
 Mettendo un piede avanti all’altro mi diressi in bagno, dove tentai di rendermi presentabile.
 
 
Entrai in cucina ancora mezza addormentata. Lo scricchiolio delle mie Vans sul pavimento veniva amplificato dal silenzio che regnava in quella stanza. Strano, di solito la cucina era il luogo preferito di famiglia, quello più vitale–se non contiamo il salotto con la nostra amata tv durante le partite di campionato.  Mi accarezzai i capelli a disagio e con passo lento mi afflosciai su uno degli sgabelli, accanto a Jade. La bambina aveva leggere occhiaie sotto i verdi occhi –quasi grigi quel giorno, a causa del tempo-, teneva i lunghi capelli biondi legati in una treccia e sembrava pronta a cadere con la faccia dentro la sua ciotola di cereali. Mamma e Marcus dovevano essere rimasti da Anne per molto tempo dopo la mia partenza e Jade, ancora troppo piccola per restare a casa da sola, non aveva potuto fare altro che rimanere a subirsi le loro chiacchiere.  Sinceramente mi dispiaceva per lei, ma avevo avuto altro a cui pensare. Come Leigh.
Quando eravamo rincasate, la sera prima, avevo aspettato che lei entrasse in casa e avevo ringraziato Drew del passaggio. « Nessun problema », mi aveva detto sorridente. Poi, passandosi una mano sul suo ciuffo ormai spettinato aveva aggiunto: « Magari una di queste sere potremmo uscire insieme. Insomma, io, te e gli altri. » Non avevo nemmeno ragionato sulla sua proposta che già avevo dichiarato con solennità uno splendido, acido e impassibile NO.
Iniziai a mangiare senza rivolgere un saluto a nessuno e, quando ebbi finito, mi alzai e tornai sui miei passi. « Aspetta Chloe. » La voce di Marcus mi richiamò, proprio mentre sorpassavo la volta che divideva la cucina dal grande corridoio. Alzando gli occhi al cielo mi voltai, stringendomi nelle mie stesse braccia. « Possiamo parlare? » Ora tutti, Luke appena apparso compreso, sembravano essere interessati a quel “possiamo parlare?”
Annuii e seguii Marcus nel suo studio. Sorpassammo la grande scalinata alla “Bella & la Bestia” del corridoio, svoltammo prima di raggiungere l’uscita per la piscina e giungemmo in prossimità della porta a vetri scorrevole che introduceva al suo paradiso privato. Mi  ero sempre detta che Marcus aveva una definizione tutta sua per la parola paradiso. Insomma, la mia (di definizione) si accendeva quando qualcuno nominava dei libri, una bella spiaggia e tavole da surf; la sua era più una cosa composta da documenti, scartoffie e roba del genere. Essendo un avvocato di rinomato successo non riuscivo a immaginarmi altro che quello. Il suo luogo di privacy, il luogo in cui poteva essere se stesso – quel luogo tuo che tutti dovrebbero avere- era quello: una grande stanza dal pavimento di legno lucido, le pareti bianche tappezzate di quadri e diplomi, e una grande scrivania di mogano scuro ricca di fogli. Un libreria piena di blocchi rossi, blu e grigi con dentro casi risolti e un’altra con blocchi verdi, gialli e neri con i casi in corso. Mi accomodai su una delle sobrie sedie di pelle marrone, mentre lui fece il giro e si sedette sulla sua grande sedia di pelle nera. I suoi occhi verdi caddero, come abitudine, sulle scartoffie che aveva davanti ma poi tornarono su di me. Nel grigio che li sfumava potevo vedere curiosità, rabbia e un pizzico di tristezza. Tutti sentimenti molto contrastanti, difficili da gestire in una volta sola. Fui tentata di dirgli: « Puoi fare in fretta? Sai, ho la scuola e non vorrei arrivare tardi. » ma mi trattenni. Alla fine, non avevo tutta questa voglia sfrenata di solcare i pavimenti piastrellati della Huntington Beach High School, o di sentire l’odore penetrante di detersivo al limone per pavimenti o, ancora meglio, vedere la faccia di certe persone. Quel giorno avrei voluto solo andarmene al mare.
« Se vuoi parlare di quello che ha detto ieri sera Drew, papà giuro che non era mia intenzione saltare le lezioni. Ho solo accompagnato un ragazzo a casa, dopo che l’avevano pestato. » Odiavo fare quella con la scusa sempre pronta, ma odiavo ancora di più rimanere chiusa in casa per tutto maggio e giugno –quando le spiagge ancora non brulicavano di turisti accaldati e si poteva fare surf tranquillamente.
Marcus, inaspettatamente, scosse la testa e intrecciò le mani sulla scrivania. Arricciai leggermente le labbra e accavallai le gambe, rizzando la schiena per spormi in avanti incuriosita.
« Poco fa ha chiamato il tuo datore di lavoro », disse, senza mai distogliere lo sguardo chiaro dai miei occhi scuri. « Ha detto che sei licenziata perché non può più permettersi tanto personale. Ha anche aggiunto che puoi andare a ritirare il tuo ultimo stipendio questo pomeriggio. » Dopo di che, serrò le labbra e poggiò la schiena contro lo schienale imbottito della sua sedia, accarezzandosi una tempia.
Sbattei più volte le palpebre, sorpresa e delusa da quella notizia. Perché proprio io? Perché licenziare me? Ero sempre stata brava con i clienti al negozio, nessuno si era mai lamentato di me e tutte le donne che avevano usufruito dei miei consigli erano sempre tornate a ringraziarmi. A lavoro ero sempre stata la migliore e ora mi cacciavano così, come se fossi spazzatura. Con un sospiro carico d’angoscia, mi alzai silenziosa e uscii dallo studio dirigendomi in camera, dove recuperai la roba prima di lanciarmi in una corsa sfrenata verso scuola.
 
 
Luise quel giorno faticava a restarmi dietro. Io e il mio malcontento andavamo talmente veloce che, lo ammetto, temetti di lasciarmi una scia di fuoco alle spalle. Il grigiore del cielo entrava dal lucernario posto sopra il mosaico dello squalo. Mi fermai a fissarlo. Non c’era niente di diverso in quel dannato dipinto su mattonella: aveva la stessa posa, gli stessi denti bianchi e aguzzi, gli stessi occhi neri rabbiosi.
Mi passai una mano fra i capelli e digrignai i denti. « E’ proprio vero che porti sfiga, è? » Sussurrai silenziosa, mentre tentavo di calmare il respiro. Finalmente Luise mi raggiunse. Aveva il fiatone. La guardai per bene, osservai il suo vestito bianco a fiori rossi, e le ballerine pallide che indossava. Scossi il capo.  « Sei lenta, Luise. » Affermai, con più acidità di quando volessi realmente far uscire dalle mie labbra.
« Lo so, mi dispiace, ma le ballerine… » Balbettò un poco, prima di tacere definitivamente. Si sistemò gli occhiali rotondi sul naso piccolo e si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Era così innocente, mi ritrovai a pensare, e l’innocenza è una bella cosa. Non capivo perché volesse diventare come me. Lei era così spontanea, solare e dolce, e riusciva a farsi amare da tutti; io ero solo acida e stronza, e stavo bene per conto mio. Cosa c’era di tanto bello in questo? Perché voleva diventare questo?
« Si si, come ti pare. » Declassai i suoi tentativi di scusarsi con un gesto della mano. « E’ tardi, dobbiamo andare a ginnastica. Su, muovi le chiappe. » E  riprendemmo a camminare.
La palestra era una gande costruzione dalle pareti pallide, su cui correvano i tubi verdi dell’aria condizionata e l’acqua, il pavimento di legno pallido e le gradinate pericolanti. Inoltre, la puzza di piedi che c’era li non si poteva trovare da nessun’altra parte. Era impossibile ricrearla… Grazie a Dio. Non so cosa avrei fatto nel caso l’avessi trovata altrove, probabilmente mi sarei chiusa in casa a vita per paura di risentirla ancora. Gli spogliatoi, almeno quelli femminili, al contrario erano profumati grazie agli sforzi delle ragazze che portavano quantità industriali di profumo. Camminando sicura di me, passai accanto a delle ragazze di quinta, che non avevo mai visto, e raggiunsi il mio armadietto. Inserii la combinazione e l’aprii, gettandoci all’interno il borsone con la roba.
Oggi nulla sembrava potesse prendere una piega positiva. Nemmeno la ginnastica, che di solito utilizzavo come mezzo di sfogo, mi arrecava un po’ di gioia.
« Oggi ci hanno cambiato la classe di compresenza », mi informò Luise, mentre si infilava un paio di pantaloncini azzurri. « Ma dai, non l’avevo notato! »  Sarebbe stata la mia risposta, ma non gliela dissi. Per quanto mi volessi sfogare, volessi disperdere la mia rabbia, non era con lei che dovevo farlo. Luise non c’entrava nulla, era solo una ragazza che voleva stare al mio fianco al momento sbagliato, nelle condizione sbagliate.
« Capito. La cosa non mi cambia la giornata. » Ammisi, infilandomi una canottiera bianca per poi richiudere con forza l’armadietto. Luise chiuse gli occhi al momento dell’impatto, e quando li riaprì io ero già lontana.
Poverina, tanto buona ed era amica di una come me.
« Ok. Ti… ti dispiacerebbe colpire meno forte il sacco da box? Sai, io non ho tutta la tua forza. » Lanciai un’occhiata a Lydia, i cui capelli castani erano ormai incollati alle tempie dal sudore causato dalla sforzo di reggere il sacco.
« Scusami. Scusa. » Mi allontanai dal sacco e mi passai un braccio sulla fronte. Dovevo darmi una calmata e, se proprio volevo sfogarmi, dovevo rompere qualcosa. « Vado a bere. » Annunciai a Lydia, togliendomi i guantoni da box e gettandoli sul materassino. Lei sorrise e si fiondò lontano da me, mentre io mi dirigevo verso le macchinette. L’acqua mi scese giù per la gola, fresca e dissetante mentre tornavo in palestra. Una goccia di sudore mi colò giù dalla tempia, mi affrettai ad asciugarla prima do poggiare la bottiglietta a terra e rinfilarmi i guantoni. Quando alzai lo sguardo, due occhi chiari mi sorrisero divertiti.
Dio no, pensai.
« Stromberg », sibilai sorpresa, « e tu cosa ci fai qui? » Gli occhi di Wesley mi osservarono, avevano questa certa luce divertita che vi brillava dentro e sembrava risplendere che pensai avrebbero preso vita. Così, dal nulla. 
« Guarda che sei tu che sei venuta qui, al sacco da box. Io c’ero già. » Si appoggiò al sacco con un sorrisetto strafottente sulle labbra piene… poi cadde. Il sacco si era spostato sotto il suo peso e lui, con la sua corporatura ben allenata, era crollato a terra velocemente e con un tonfo non indifferente.
Risi. Il suono uscì dalla mia gola divertito mentre mi infilavo i guantoni e fermavo il sacco, sempre tenendo gli occhi puntati contro di lui, che ricambiava lo sguardo. Mi aspettavo dicesse qualunque cosa di ironico, sul fatto che l’avesse fatta a posta e blablabla, e invece ne uscì fuori con una risata cristallina che gli rimbombò nel petto ampio.
« Presumo che la maledizione che mi hai gettato contro si sia appena avverata. » Si issò in piedi, accarezzandosi la schiena e successivamente si posizionò di fianco al sacco.  Le sue mani si poggiarono sull’oggetto davanti a me e vi si ancorarono in una stretta d’acciaio.
« Avevi qualche dubbio? » Un ghigno divertito si disegnò sulle mie labbra, mentre colpivo con forza il bersaglio. L’urto si riversò sulle mie braccia, facendomi fremere leggermente. Gli occhi di Wes si spostarono per qualche minuto su di esse, prima di tornare al mio viso.
« Nessun dubbio, Sunshine. A proposito, volevo ringraziarti ancora per aver tolto Kea dai guai e… »
« Sunshine? » Domandai colta alla sprovvista, senza fermare i colpi. Sunshine. Mi domandai da dove l’avesse tirato fuori, quel soprannome che sapeva di qualcosa di dolce.
Nei suoi occhi colsi un guizzo d’imbarazzo, ma le sue labbra si limitarono ad alzarsi verso l’alto in un sorriso simpatico. Le sue guance si alzarono verso l’alto, dandogli un’aria da bambino. « Non ti piace? »
« E’… strano. » Mi bloccai quando mi accorsi che le sue labbra erano troppo rivolte verso l’altro. « Smettila. »
« Smettila, cosa? » Rise, attirando alcuni sguardi su di noi. Mi passai una mano sulla fronte, per asciugare il sudore che minacciava di colarmi sul volto,  e intanto lanciai occhiatacce a tutti quelli che non intendevano distogliere il loro sguardo da noi.
Poco lontano notai Luise intenta a saltare la corda, più che altro a inciamparci, che mi sorrideva e cadeva; e Lydia alle prese con la pallavolo subito dopo. Lei se la cavava meglio. Luise cadde nuovamente, attirando la mia attenzione. Poverina, la ginnastica non faceva per lei. Scossi il capo tornando a Wes.
« Di starmi intorno. Sgambetta dal tuo amico rovina vite e andatevi a bere qualcosa. Su, pussa via. » Mi voltai dandogli le spalle. Tra pochi minuti mi sarei rintanata nelle docce e avrei iniziato a pensare a tutti i modi possibili per uscire di casa venerdì sera. Dovevo assolutamente andare a quella festa in spiaggia, non perché ne andasse della mia vita ma perché non mi andava di restare a casa.
Sarei sembrata una sfigata, e io non lo ero. Non più.
Senza accorgermene mi ero avviata in corridoio, dove le luci al neon soffuse davano un senso di quiete. Dalla porta alle mie spalle si sentivano le chiacchiere della gente, i colpi sui materassini e le risate. Sospirai senza accorgermene e mi infilai negli spogliatoi per prendere il cambio. Mi diressi verso la doccia.
Il getto tiepido d’acqua mi accarezzava la pelle accaldata, mentre mi insaponavo a dovere i capelli. C’era profumo di arancia nell’aria, che mi saliva al cervello ogni volta che inspiravo. Mi piaceva l’odore degli agrumi, mi rilassava. Chiusi gli occhi mentre mi gettavo del tutto sotto l’acqua e mi appoggiavo alla parete fredda alle mie spalle. Ero rientrata dalla lezione molto prima di quello che pensavo, poco male. Tanto ginnastica era la materia in cui andavo meglio. Sotto le palpebre mi passò davanti l’immagine di Marcus, quella stessa mattina mentre mi diceva che ero licenziata.  Nel mio petto si aprì come una voragine d’odio: ora non sarei stata più autonoma! Non avrei potuto spendere i miei soldi come volevo e avrei dovuto chiederli a mamma e papà – non che ci mancassero- e la cosa m’infastidiva. Avevo sempre preso molto in considerazione il fatto di essere indipendente, come se ne andasse della mia vita. Perché quando sei indipendente puoi spendere i tuoi soldi senza dover dar conto a nessuno, mentre se non lo sei i conti li devi fare.
Spensi il getto d’acqua quando sentii le voci di alcune ragazze che si avvicinavano, strizzai i capelli e mi avvolsi in un accappatoio caldo e soffice di spugna. Incrociai le ragazze mentre uscivo dalle docce; entrambe non erano molto alte, una aveva lunghi capelli neri mentre l’altra rossi ma entrambe possedevano due occhi azzurri come l’oceano e una spruzzata di lentiggini sul naso. Era belle. Ne carine, ne perfette. Belle. Ecco che una strana presa tornava ad aprirmi lo stomaco, con forza e cattiveria. Le sorpassai veloce e mi andai a cambiare mentre ancora pensavo alle due ragazze. Basse, con un bel corpo e un bel viso, e due splendidi occhi.
Oh, smettila! Tu sei bellissima. Intervenne la mia voce interiore. Bella, simpatica, spiritosa e semplice.
Già, semplicemente ferita dentro. Scossi il capo con forza, usando come scusa i capelli bagnati. No. Niente autocommiserazione. Smettila. Hai finito di autocommiserarti quando sei diventata Chloe e hai smesso di essere Valerie.
 
Drew.
 


« Esiste una parola per descrivere quelli come te: coglioni. » Mi gridò dietro Sebastian, mentre con una mano si reggeva il ciuffo di capelli neri che gli era ricaduto sulla fronte e con l’altra mi puntava contro la canna dell’acqua.
Risi, facendo un balzo indietro quando venni colpito in pieno da un getto freddo, che mi fece correre brividi sulla pancia e le gambe. Sebastian continuò a gettarmi occhiate di fuoco, mentre lasciava andare la canna e si toglieva la maglia zuppa gettandola sul portico di casa di mia madre. Feci lo stesso e mi ritrovai a torso nudo, con l’aria calda della costa che mi si abbatteva contro asciugando l’acqua che mi era finita contro. Mi passai una mano fra i capelli, sbadigliando.
Era tutta la mattina che lavoravamo nel giardino di mamma per farlo risplendere di una luce nuova. Ieri mi aveva detto per telefono che le sue siepi non le piacevano e, dopo svariati minuti di chiacchiere e dopo un accurato raggiro mi aveva convinto a sistemargliele. Non che la odiassi, era mia madre, ma ogni tanto mi capitava di domandarmi dove diavolo se la tirasse fuori tutta quella cattiveria. Raggirare il proprio figlio, che nella vita fa il giardiniere, per farlo lavorare gratis nel proprio giardino era malefico.
« Ne esiste una anche per quelli come te, di parola: pignoli. » Commentai, mentre raccoglievo da terra un paio di cesoie e mi dirigevo verso le siepi che confinavano con la casa di Luke.
Era stata una bella sorpresa ritrovarselo a casa di Ty per scoprire che era il fratello maggiore di Chloe. Non sapevo nemmeno io se quello era un colpo di fortuna o meno. Ci speravo. Iniziai a tagliare via i rami di troppo, proprio quando una grossa Renger Rover si intrufolò nel vialetto d’entrata dei King.
Chloe parcheggiò con disinvoltura e scese dall’auto con altrettanta tranquillità. La prima cosa che notai fu che quel giorno portava delle semplici Vans, che la rendevano più bassa di quindici centimetri buoni rispetto a ieri. La seconda, di cosa, fu che si stava legando i capelli in uno chignon poco curato e che la cosa la rendeva, in un certo senso, più carina del solito. Sembrava a proprio agio, quando non aveva nessuno intorno.
« Ehi, perché ti sei fermato? » Sebastian comparve al mio fianco, con quel suo passo da felino mancato non l’avevo neppure sentito arrivare.
Sobbalzai colto alla sprovvista e mi girai a guardarlo. La prima cosa che vidi fu il suo tatuaggio maori, che copriva tutto il bicipite destro e buona parte della spalla adiacente. Dannazione, dovevo averne uno anche io!
« Mi sono un attimo confuso. » Borbottai, mentre mi tradivo da solo e gettavo un’occhiata nel vialetto accanto sperando che Chloe fosse ancora li. E c’era, intenta a scaricare delle cose simili a buste della spesa.
Seguì il mio sguardo e sorrise. « Si, certo, confuso con la bionda della casa accanto. » Mi spinse di lato e si fece un piccolo spioncino allontanandosi le foglie dal viso con le mani. La luce lo colpì in piena faccia, facendo brillare il pircing che portava al naso. Sobbalzammo, e prima di pensare ad altro ci buttammo a terra.
Se Chloe avesse visto il luccichio, avrebbe capito che qualcuno la stava guardando e saremmo finiti in una situazione di merda. Letteralmente.
Sebastian si sporse verso la siepe, allargandola un pochino le fronde per vedere meglio il vialetto accanto. Il septum gli pendeva dal naso, ancora illuminato da qualche raggio di sole traditore.
« Maledetto il tuo pircing! Allora, ci ha visti? » Il ragazzo scosse la testa, e qualche goccia d’acqua si staccò dai suoi capelli per cadermi in faccia. Sbuffai, asciugandomi velocemente il viso. Sebstian scosse il capo e si alzò, seguito da me.
Quando ci voltammo, il sole ci abbagliò per qualche istante rivelando subito dopo la figura snella di una ragazza che se ne stava davanti a noi, con le braccia incrociate al petto e un piede che batteva sulle mattonelle del vialetto. Merda.
« Beccati. » Chloe sorrise, e pur facendolo mi sembrò restare seria. Il sangue si gelò nelle mie vene, mi girò la testa. « Che stavate facendo? »
« Ti abbiamo sentita arrivare e poi vista con le buste della spesa. Stavamo pensando di aiutarti. » Rispose velocemente Sebastian, senza darmi il tempo di ragionare una scusa migliore. Mi morsi l’interno della guancia per non urlargli contro.
« Volevate aiutarmi nascondendovi dietro una siepe? » Ecco un altro sorriso micidiale. Mi piaceva l’aria che quella ragazza si portava dietro, così dura ma al tempo stesso quasi infantile. Ma allora, se aveva quest’aria infantile come pensavo, perché non riuscivo a conquistarla?
« Beh… diciamo che. » La lingua di Sebastian stava per combinare un disastro, perciò intervenni con disinvoltura, facendo qualche passo in avanti per raggiungerla.
Lei mi osservò stranita e, sebbene i suoi occhi erano freddi, riuscii a notare che lo sguardo le era caduto sul mio fisico. « Pensavamo che ti saresti spaventata vedendo i nostri fisici, così abbiamo pensato di rimetterci le maglie prima di venire da te. » Non ne ero sicuro, ma mi sembrò di sentire Seb alle mie spalle sospirare.
Di sicuro Chloe lo fece e alzò persino gli occhi al cielo. « Dio, come sei stupido. » Mi posò una mano sul petto per spostarmi e rabbrividii: era fredda e mi sembrò che centinaia di aghi sottili mi trapassassero la pelle.  « Comunque grazie per il pensiero… come ti chiami? » La bionda mi ignorò completamente, rivolgendosi al mio amico che si era tenuto in disparte dai nostri punzecchiamenti.
« Sebastian. Ci siamo visti al bar di Wes, se non sbaglio. » Le sorrise, prima che lei si congedasse dicendoci che la spesa non si scaricava da sola.
Questa volta fui io ad alzare gli occhi al cielo, quando Sebastian si propose realmente di aiutarla. Non potevo lasciare che ci provasse con lei, la scommessa con Keaton dovevo vincerla io.  Sebastian nemmeno l’aveva fatta quella scommessa! Perciò, corsi dietro di loro e mi fiondai accanto a Chloe che stava per passare al ragazzo una busta. Gliela rubai di mano come un bambino viziato e mi diressi verso casa sua.
Quando entrai l’aria fresca che si aggirava fra le mura mi colpì, abbassò la mia temperatura corporea e mi sentii sollevato. Avanzai incerto in quell’ingresso ampio e marmoreo, mentre mi osservavo attorno. Inquietante, questa è la parola che avrei potuto usare per descriverlo.
« Oddio, ma sei reale? » Una ragazzina dai capelli castani stava scendendo l’ampia scalinata che avevo davanti. Probabilmente non si era accorta di averlo chiesto ad alta voce, così decisi di sorriderle e basta. Aveva due profondi occhi azzurri e la pelle abbronzata che risaltava contro il bianco della stoffa del suo vestito. La riconobbi poco dopo, quando ormai mi era davanti con un sorriso stampato in viso. Era la sorella di Chloe, quella che ieri sera eravamo andati a recuperare in spiaggia. Di giorno sembrava più carina di quanto fosse ieri sera, senza tutto il trucco colato per il pianto, il viso rosso e il buio.
« Si, è reale e non fa per te. » Intervenne Chloe, comparsa dal nulla. « Evapora, Leigh. »
 
Il profumo d’arance che aleggiava attorno a Chloe era una cosa incredibile. Ti ipnotizzava e costringeva a volerne di più, sempre di più. Avrei persino potuto divorare quella ragazza perla curiosità di sapere se aveva lo stesso sapore, ma era troppo carina. Adesso, si aggirava per la cucina con tranquillità mentre io mi rigiravo fra le dita il telefono. Sebastian se n’era dovuto andare prima, problemi famigliari, e così ero rimasto solo ad aiutarla con la spesa. Poco male, per me. Per lei non credo, sembrava gradire poco la mia presenza. Come se fossi una specie di zecca attaccata al suo gatto senza pelo. Tzé.
« Grazie per l’aiuto. » La voce le uscì flebile dalla gola, evidentemente non era abituata a scusarsi.
« Cosa? » Le sorrisi strafottente, ricevendo in cambio un’occhiataccia feroce.
« Grazie per l’aiuto. » Ripeté per la seconda volta, con la voce un po’ più alta. Fece per andare dietro al bancone ma le bloccai la strada. Senza tacchi mi arrivava alla spalla.
« E’? Non penso di aver capito bene… »
« Cavati dal cazzo Drew. Non lo ripeterò più. » Ok, me l’ero meritata quella risposta. A scherzare col fuoco ci si brucia e io mi ero ustionato. Risi leggermente per smascherare il mio imbarazzo momentaneo e mi diressi verso l’uscita della cucina.
Da li, quando mi voltai, riuscii a distinguere le varie tonalità chiare che assumevano i capelli di Chloe quando erano contro sole. Sembravano una cascata di onde bionde e lucenti perfetti.
« Beh, te ne vai già? » Una voce mi fece voltare, e i miei occhi si scontrarono contro due ghiacciai.  Fu come ricevere un secchio d’acqua ghiacciata dopo aver nuotato nel cioccolato tiepido e profumato.
Sbattei le palpebre e sorrisi alla ragazzina, che sembrava più interessata a me della sorella. « Si. » Mi limitai a rispondere. Con uno sguardo fuggente riuscii a scorgere Chloe che ci osservava alzando gli occhi al cielo. Mi ritrovai a sorridere. « Sai, tua sorella si rifiuta di dirmi “grazie, per l’aiuto” così levo le tende. »
« Oh, sta zitto Drew. » Risi divertito quando la bionda si avvicinò a me e cominciò a spingermi vero l’uscita di casa. Sua sorella che ancora ci osservava stranita.
 
  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Emblem3 / Vai alla pagina dell'autore: Alex Wolf