Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: Amethyst10    23/07/2014    2 recensioni
Ophelia all’ amore non ci pensa, non ha tempo, fra lavori part-time, una famiglia da mantenere, l’unica cosa che ricerca è l’equilibrio e si sa che l’amore comporta problemi.
La sua vera passione è la pittura, con cui dipinge i propri dolori e le minuscole gioie, come se già, non fossero indelebili sulla sua pelle.
Ma ora ha solo 24h, per trovare un modo convincente per far cadere la finta confessione, ricevuta da parte di un cyber – bullo, davanti a tutta la classe.
Dal capitolo 3:

- Okay -
Mi accigliai un attimo.
- Come scusa? - domandai.
- Ho detto okay, accetto i tuoi sentimenti -
Sentivo mille occhi trafiggermi, da ogni direzione.
- No - pronunciai solo.
Ero nella più totale confusione. Aveva appena, seriamente accettato la mia dichiarazione? E io avevo appena risolto un problema per ficcarmi in uno più grande, come avevo ben capito?
- Non puoi accettare i miei sentimenti - continuai imperterrita - devi rifiutarmi come hai fatto con le altre. -
Ora era lui a guardarmi con un’espressione aggrottata in fronte.
- Soffri di una doppia personalità o sei semplicemente masochista? - chiese cauto.
- Non ho nessun problema psicologico! - esclamai indignata.
- Davvero? Perché giurerei averti sentito dire che ti piaccio. -
Genere: Romantico, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

~~Capitolo 4

Forse era normale. Talmente normale, da apparire sfacciatamente irrazionale.
Per Cole Beckett il mondo si era distratto.
Come il cielo reggeva sopra di noi l’unica bellezza che potesse considerarsi eterna, alla vista del nostro breve ciclo vitale; le stelle avevano fatto nascere un secondo, dalla loro essenza celestiale, un attimo di ostentazione, panico, confusione, che per queste era un semplice dono, per me un puro miracolo illogico.
Cole era entrato con semplicità disarmante, ascoltando musica, nella nostra classe.
O almeno questo era quello che avrebbe visto una ragazza aderente al suo fan club, per poi massimizzare il tutto con frasi del tipo: la classe è stata improvvisamente illuminata da un’entità divina discesa in Terra, il risveglio dal sonno mentale è arrivato, il Sole che ci ha onoratoti qualche suo raggio nella tempesta eccetera.
Insomma un sacco di cose del genere sarebbero state scritte nell’ edizione del giorno dopo, del volantino della scuola, insieme all’ esatte parole pronunciate dall’ idolo dell’Istituto.
In un secondo una ventina, se non di più, di ragazze, lo circondarono. I ragazzi lo raggiunsero, per parlargli delle nuove partite di calcio, che si prospettavano imminenti con il nuovo torneo interscolastico.
Persino Andersen, si voltò nella sua direzione, bloccandosi.
Fu come se il mio cuore fosse venuto in contatto con un defibrillatore.
Una carica elettrica attraversò il mio corpo, risvegliando dai ricordi del passato.
Avevo ancora la vista al quanto offuscata, la testa leggera, ma volevo agire.
Era come se un turbine iroso stesse prendendo forma, generandosi da quella speranza assopita dai modi meschini, che parevano guidare tutti gli uomini che avevano osato sfiorarmi, toccarmi, senza il mio consenso.
Dovetti fare uno sforzo disumano, per trovare un minimo di lucidità.
Focalizzai lo scompiglio, la stanza, la luce che filtrava, i pochi banchi vuoti, l’orologio, che pareva dirmi di sbrigarmi, il viso del mio aggressore, che ancora non prestava attenzione nei miei riguardi e infine la mia posizione.
Avevo i polsi bloccati, le gambe avevano smesso di scalciare, la mano di quell’ individuo era ridiscesa al mio ventre e tutto il mio peso poggiava al banco.
Il mio.
Quello era il mio posto.
Il libro di geometria era lì appoggiato in malo modo contro il calorifero.
Era questione di attimo.
Un attimo che mi era stato concesso, un attimo per attuare un desiderio sinistro, che sempre più spazio pareva occupare nel mio cuore, con un semplice nome: Vendetta.
Vendetta per aver riaperto ferite che avevo impiegato anni a nascondere, per avermi fatto sentire impotente sotto i suoi sguardi e le sue mani, per avermi indirizzato a queste azioni.
L’ elemento di disturbo era ancora in atto, ma sarebbe durato ancora poco.
Troppo poco, per permettersi di pensare ad altro, per esitare.
Lo presi in contro piede, liberando un polso, dalla sua stretta, non dandogli neppure il tempo di girarsi e prontamente reagire.
Afferrai il libro e lo brandì come arma, rivolgendo a lui le pagine, nelle quali i nostri compagni avevano applicato sottili lame taglienti.
Mi morsi un labbro e con un gesto fluido traccia una linea netta sul suo volto.
Lui rimase perplesso, aprì la bocca per emetter parola, ma nulla si udì da lui, dato che una copiosa scia di sangue era discesa sulla sua guancia, da quelli che dovevano essere almeno una decina o più tagli sottili.
Si toccò il volto.
Io corsi alla porta, tenendo ancora in mano il libro come scudo e arma allo stesso tempo.
Sussurrò qualcosa.
Poi iniziò a tremare, era l’odio che scaturiva da ogni poro del suo corpo, che emergeva nei miei confronti, come un fiume di lava.
Strisciava lento e inesorabile verso di me, cercando d’ insidiare il germe della paura, del panico irrazionale e folle.
Raddrizzò la schiena, rivolgendomi uno sguardo furente.
<< Come ti sei permessa? >> urlò.
Sentì le orecchie ronzare, la testa leggera in un’apnea più totale, le mani gelate, la gola secca.
Sapevo che se mi avesse attaccata di nuovo non avrei resistito. Avrei voluto appoggiarmi al muro dietro di me, ma non avrei fatto altro che sottolineare la mia debolezza. Così chiesi un ultimo sforzo al mio corpo.
Alzai la testa. Non avrei ceduto, non avrei staccato lo sguardo da lui.
Non mi sarei arresa.
<< Stai lontano da me >> l’avvertì con tutto il fiato che mi era rimasto.
Dovevo vincere questa battaglia, o non mi sarei mai liberata di lui.
I suoi passi lenti e strascicanti si avvicinavano a me.
Notai su quello sfondo che stava prendendo tonalità sempre più innaturali li sguardi che già da prima bramavo, sguardi che testimoniavano quello che stava accadendo.
Ma era tardi, non riuscivo più a mettere a fuoco nulla.
I suoni, le immagini, li odori, si confondevano, inebriandomi e cullandomi verso l’oblio che tanto agognavo di poter tracciare su una tela, ma che stavo ricalcando su me stessa.
<< …tu non sei nessuno , tu… >>
Si avvicinava.
<< Non sono tua… >> dissi.
Era vicino, vicino, troppo vicino.
Altre parole che non riuscii a cogliere.
<< Non sono tua >> ripetei.
Come una coltre di nebbia che ridiscende da una montagna l’oscurità mi stava coprendo come un manto, che impossibile da sfilare, maneggiare.
Le mie ciglia infine andarono a ricongiungersi alle amate lacrime, che avevano iniziato a ridiscendere, portando un sapore salato alle mie labbra.
Infine permisi al buio di abbracciarmi e portarmi lontano con se.

 

***
 


Avevo freddo.
La testa mi doleva cercai di toccarla, rannicchiandomi su di un lato.
Cosa…
Dov’ ero? Come ero scampata a quella situazione?
Non volevo aprire gli occhi. Non volevo sapere.
Ma era inevitabile.
Avvertì le mie palpebre alzarsi. Era tutto bianco intorno a me, ci misi qualche secondo a capire che ero in un letto, sotto un lenzuolo.
Mi misi a sedere, calcolando ogni movimento.
Era tutto bianco.
Le pareti, i mobili, le finestre. L’ odore di disinfettante arrivò all’ improvviso, stordendomi un poco.
Ero in un ospedale.
Ero in una stanza singola di un ospedale, avevo almeno tre flebo collegati al mio braccio sinistro, e indossavo una maglia bianca a maniche corte, che mi faceva da vestito.
Chi avrebbe pagato le spese sanitarie?
Non era il tempo né il luogo si pensarci dissi a me stessa.
Trovai il mio cellulare e i miei occhiali sul comodino affianco a me.
Sbiancai nel vedere che ore fossero.
Le tre e un quarto.
Era pieno pomeriggio, e io dovevo andare a prendere James a scuola fra un’ora e mezza, circa, dato che Cristopher era a un servizio fotografico, senza neppure sapere in che parte della città mi trovassi.
Di certo mi trovavo ancora vicino alla scuola, di solito non ti trasportano lontano se non per determinate operazioni.
Decisi di alzarmi e andai a guardare alla finestra. Riconobbi i centri commerciali che si trovavano dall’ altra parte della città.
Se prima avevo perso un po’ di colore adesso dovevo apparire proprio un cencio.
Calma, dovevo riprendermi e pensare.
Prima di tutto mi vesti, meno davo l’idea di essere malata, dato che non lo ero, meglio era.
Infilai velocemente la tuta, per poi leggere cosa riportava la mia cartella clinica, che era stata appesa alle sbarre del letto.
Nome, cognome, feci scorrere lo sguardo finché non arrivai alla parola prognosi.
Impiegai cinque minuti solo per capire, che quel che c’era scritto era solo un giro di parole per affermare che avevo subito uno shock e un maltrattamento fisico che aveva comportato dei lividi sulle mie braccia.
Feci un respiro profondo, seguito da un altro, per poi andare in bagno a rinfrescarmi viso ed idee.
Quello che era successo mi aveva in parte sconvolto, nell’ attimo in cui l’azione si era ripercossa su di me in modo troppo veloce, imprevedibile e violento.
Ma ora era finita, ed ero pronta ad archiviare il tutto, dato che non era successo nulla d’ irreparabile.
Certo se Mr. Andersen avesse anche solo provato a rivolgermi la parola, gli avrei prima lasciato un segno a cinque dita sul viso, per poi passare dalla presidenza a riferire l’accaduto, che non sarebbe stato insabbiato, grazie che qualche anima pia, decisamente troppo pia, mi aveva portato sino a qui, col consenso della scuola, e se non fosse bastato avrei denunciato il tutto.
Certo se avessi avuto una famiglia alle spalle, o un minimo di soldi in più non ci avrei pensato due volte a metterci di mezzo un avvocato, ma al momento era da escludersi.
Uscì dal bagno e non feci in tempo a riflettere sulla mia prossima decisione, che mi ritrovai tra le braccia di qualcuno.
Cole.
Cole mi aveva avvolto con un braccio la vita, stringendomi a sé, e con l’altro, aveva portato il mio viso all’ incavo della sua spalla, dato che si era inchinato su di me.
Sentì il mio cuore perdere un battito per poi accelerare.
<< Mi dispiace, mi dispiace, io non mi sono accorto di nulla sino all’ ultimo, mi dispiace, io… >>
Un tocco di legno sarebbe stato più mobile di me in quel momento.
Poi percepì una scia di lacrime bagnare il mio collo. Stava piangendo.
<< Cole? >> domandai titubante.
Nulla, solo altre lacrime. Doveva davvero essersi preoccupato e in più si sentiva in colpa.
<< Cole. Va tutto bene, io sto bene, senza contare che tu non centri nulla con ciò che è successo. >>
Lo vidi alzare lo sguardo verso di me.
Appena quattro centimetri ci separavano.
I suoi occhi erano di un intenso blu, sembrava di specchiarsi nell’ oceano.
Senza distogliere lo sguardo iniziai ad asciugargli il volto, con la manica della felpa.
Ad un tratto lui blocco la mia mano.
<< Perché non mi hai detto nulla? >> volle sapere.
Mi accigliai.
<< E con che pretesto avrei potuto farlo? Noi non ci conosciamo, sei venuto a conoscenza della mia esistenza solo qualche ora fa, e sei tanto sconvolto appunto per questo. Una delle tante ragazze che a te si è dichiarata, ma allo stesso tempo non ha voluto iniziare una relazione con te, perché non trovava convincenti le tue motivazioni. Sei scombussolato perché tu eri in quella stanza, e sei stato inconsciamente testimone di quello che accadeva. >>
Lo stavo accusando, vidi i suoi occhi offuscarsi, e diventare sempre più tristi, ma non mi diedi per vinta ed andai avanti, << ti trovavi solo nel posto sbagliato al momento sbagliato, tu non hai colpe. Anzi se non fosse stato per te non voglio neppure immaginare quello che mi sarebbe successo, >> sorrisi, cercando di fargli capire quanto gli fossi grata << hai distratto tutti compreso Andersen, dandomi il tempo di allontanarlo >>
Lui continuava a fissarmi, probabilmente cercando una qualche risposta da darmi alla confusione che le miei parole dovevano apparentemente aver creato in lui.
Sospirai.
<< Non provare pena per me >>
Fu come se gli avessi dato il colpo di grazia.
Si allontanò da me di qualche passo, per poi scuotere la testa.
In quel momento pensai realmente che si sarebbe girato per poi voltarsi e non tornare più indietro.
Ma quando incrociai nuovamente il suo sguardo, mi sembrò di osservare quasi un’altra persona.
<< Non so cosa provo per te al momento >> chiarì risoluto, << ma senza dubbio non è pena >>
Si passò una mano trai capelli, scompigliandoli maggiormente. Pareva in imbarazzo.
<< Oggi ero venuto nella tua classe per parlare con te. Volevo chiederti di darmi basta l’opportunità di provare a conoscerti. >>
Mise le mani in tasca e poi sospirò a sua volta.
<< Forse a questo punto è troppo >> constatò.
Feci per protestare ma non me diede il tempo.
<< Non so cosa mi porti a comportarmi in questo modo nei tuoi confronti, e tengo a precisare che non penso si tratti solo del tuo nome, ma voglio davvero interessarmi di più a te, se non come ragazza al momento, anche se non pensare che mi darò per vinto facilmente, almeno come amica. >>
Forse mi ero alzata un minuto troppo tardi, avevo calpestato col piede sbagliato una pozzanghera, alzato gli occhi al cielo quando non era stato il caso e rivolto parole che al mio ascoltatore erano risultate vane, perché avevo scelto quelle sbagliate, quelle che non erano riuscite a fare breccia in lui.
Insomma qualcosa era indubbiamente andato storto.
Perché ora non riuscivo a resistere a quello sguardo, all’ offerta che avanzava?
Perché in fondo da qualche parte, la bambina di undici anni quella dall’ aria spensierata, che sembra vestire solo di argento vivo, ancora persisteva.
Esisteva e rinasceva in ogni pennellata, che andava a ricreare quei desideri che in segreto, per sino a me stessa tacevo.
Così mi ritrovai a cercare di pronunciare quelle parole, che non avrebbero fatto altro che far capitolare solitudine scolastica, dato che a quanto sembrava avevo appena trovato un amico, se non qualcosa di più a dire di qualcuno.
Scrollai quindi le spalle con distacco, << fai come vuoi, ma non venirti poi a lamentarti con me se mi trovi noiosa e scopri di aver sprecato tempo >>
Al che distolsi lo sguardo, per non fargli notare il rossore che si stava espandendo sulle mie guance, feci però in tempo a notare che le sue labbra si erano increspate in un sorriso.
<< Accetto la sfida, ma che succederebbe se mi incuriosissi a te più del dovuto? >> chiese con fare malizioso.
Okay, non sarei mai riuscita a gestire tutto questo. Pensieri che evaporavano, farfalle che spiccavano il volo e un cuore che era partito direttamente per un’altra orbita, tutto per una sola banale domanda.
<< Credo inizierei a dubitare delle tue facoltà mentali come tu hai fatto con me sta mani >>
Se avessi ricevuto più attenzioni in questi ultimi tempi, mi sarei sentita decisamente più preparata a tutto questo.
E poi eccola la mia fidata alleata, che veniva a bussare proprio nell’ attimo giusto.
Indifferenza. E compostezza, non potevo rischiare di fargli capire quanto mi stesse scombussolando, perché non ero io per prima pronta ad ammetterlo.
Il suono di una sirena rimbombò nell’ aria, riscuotendomi completamente.
<< Devo uscire da questo posto, puoi aiutarmi? >>
Lui sembrò d’ improvviso impacciato.
<< è solo che devo svolgere delle commissioni urgenti e non ho nulla che davvero possa legarmi a questo posto >> mi ritrovai a precisare, come se dovessi dare una spiegazione.
<< Non puoi andartene >>
<< perché? >>
Ero confusa, cosa stava dicendo.
<< Non puoi e basta >>
Non mi guardava più, ma il suo viso era divenuto serio.
<< cos’ è che non mi stai dicendo? >>
<< Ophelia sul serio resta qui. Qualsiasi cosa tu debba fare rimandala, rimani qui almeno una notte in osservazione. >>
Mi avvicinai a lui e constatai che il suo corpo mi sbarrava la strada per la porta.
<< Sto bene, davvero, non ce n’è bisogno >>
<< Non lasciare l’ospedale, non oggi, non ora. >>
Mi stavo innervosendo, dovevo andare, o James sarebbe rimasto là ad aspettare da solo, dato che le maestre non davano il consenso, giustamente, ai bambini di andare a casa da soli.
<< Senti, io devo andare… >>
Cercai di avvicinarmi all’ uscita, ma lui mi afferrò.
<< Cole cosa non vuoi dirmi maledizione? >>
Prima si sentiva in colpa, poi mi chiedeva di diventare suo amico e ora questo.
Cosa mi stava nascondendo?
Come a rispondere alla mia domanda, la sua testa si inclinò, fin ché la sua fronte non tocco la mia spalla.
<< è successo un casino. Andersen è morto. >>


Autrice space

Vorrei ringraziare tutti quelli che seguono leggono e hanno fino ad ora recensito la storia : )
Grazie a Leana, aurorab96 e soulscript per il sostegno.
Spero di riuscire a pubblicare presto il prossimo capitolo (settimana prossima), e non quasi a un mese di distanza, come questo…scusate…
A presto,
A.

   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Amethyst10