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Autore: Selina    05/09/2008    2 recensioni
Era da te che scappavo, ma era da te che continuavo a tornare. [Riku/Sora/Kairi]
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Kairi, Riku, Sora
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Kingdom Hearts
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Nota legale:

Kingdom Hearts © Square Enix & Disney. Questa Fan Fiction è stata scritta per puro diletto, senza alcuno scopo di lucro. Nessuna violazione di © è dunque intesa.

Collocazione temporale:

Prima e durante Kingdom Hearts.



:: DOOR AFTER DOOR ::



After all, what were you really looking for?

And I wonder, when will I learn blue isn't red?

Everybody knows this.

And I wonder, when will I learn?



La serratura di ottone lucido. Le stelle cadenti. I graffiti sulle pareti. La spada di legno.

La forma rigonfia di un paopu, giallo e vivido come un disegno.

Il suo passato era fatto di simboli.

Il suo futuro era fatto di echi.

Il suo presente era fatto di porte.



Non ricordo il giorno in cui mi sono innamorato di te.



C’era stato un tempo in cui nessuna luce poteva accecarlo.

Era il tempo del sale e della sabbia appiccicati alla pelle, dell’isola gigantesca ai loro occhi ignari, delle spade intagliate nel legno lontano dallo sguardo vigile dei genitori, delle conchiglie rotte dolorosamente conficcate nella pelle e delle schegge nelle dita. Era il tempo in cui nulla era troppo grande per poter essere conquistato, e nulla troppo lontano per poter essere raggiunto.

Era il tempo in cui tutte le porte erano aperte. Forse era per questo che la più pericolosa restava chiusa.

Poteva ricordare quel tempo nell’odore nel mare e nelle grida dei gabbiani, forgiato nel sapore del sale e temprato nella sabbia ruvida scaldata dal sole. Era riassunto in quello che allora credeva fosse il cielo più vasto e luminoso mai esistito, e dopo tanti anni aveva conservato tutta la sua luce, anche se dopo aver visto tutto il buio del cuore dei mondi niente gli sembrava più così grande e senza fine.

E dopo aver visto il suo cuore, niente gli sembrava più così brillante.

C’era stato un tempo, lo ricordava bene, in cui avrebbe potuto guardarsi alle spalle e vedere il corso limpido della propria vita, senza salti e senza rapide. Non riusciva a scorgere la fonte, ma sapeva che c’era, e la sua acqua era ancora pura e trasparente mentre scendeva gioiosamente inconsapevole verso valle. Non esistevano tronchi o sassi ad ostacolarlo, ma era vicino il momento in cui il suo corso sarebbe diventato torbido ed avrebbe cominciato a raccogliere i detriti, e la terra scura avrebbe sporcato il suo fiume e rallentato la sua corsa mentre inciampando cercava di non essere lasciato indietro.

Ricordava la sensazione. Ricordava il panico indescrivibile.

Ricordava cosa significava aver dimenticato la strada, senza realizzare di essersi persi.

C’era stato un tempo in cui erano solo in due.

Ed ancora lo ricordava come la cosa più bella e più trasparente che avesse mai visto, come se fosse appartenuta ad un’altra persona, perché guardando come il suo cuore si era consumato con gli anni sembrava impossibile che qualcosa di così luminoso l’avesse toccato senza corrompersi.

C’era stato un tempo in cui era stato felice.

Il loro mondo rarefatto era troppo piccolo per poter contenere qualunque altra cosa. E quando arrivò l’invidia, la gelosia bruciante, si gonfiò come pelle sotto un calore insopportabile e cominciò ad esplodere.

Sarebbe stato troppo facile dire che era stata colpa sua. Forse fu per questo che all’inizio, quando ancora stringeva disperatamente i lembi spaccati del suo mondo ormai alla deriva, incolparla fu la prima cosa che gli riuscì.

Avevano dieci anni. L’isola era vivida come un disegno, nel suo verde smeraldo ed in tutte le sfumature del celeste e del cobalto per il cielo e per il mare, nel rosso del rubino per il sole al tramonto. I suoi colori erano così intensi che non sembravano neanche veri.

«Ascolta! Quel lamento proviene da lì.»

«È solo il vento. Il suono del vento che sembra la voce di un mostro.»

«Ah… tutto qui. Avrei voluto che fosse un mostro!»

C’era stato un tempo in cui non aveva paura di niente.

Insieme siamo invincibili.

«Quando saremo grandi ce ne andremo da quest’isola. Avremo avventure vere, non queste cose da bambini!»

«Certo, ma non c’è niente di divertente da fare ora?»

Insieme ovunque.

«Ehi, sai la ragazza nuova a casa del sindaco? È arrivata la notte della pioggia di comete!»

La grotta alle loro spalle faceva rimbombare le voci. Era riuscito a sentire l’eco di ogni parola, come se fossero state degne di essere ripetute per sempre, come se dovessero essere ricordate.

La porta incassata nella roccia come un sussurro. Come un invito.

Sora aveva incrociato le braccia dietro la testa ed aveva guardato in alto, mentre uscivano alla luce del sole. Stava pensando ad altro, e lui non poteva tollerarlo. «Sì, l’ho trovata io.»

Sente qualcosa chiudersi. Non sa bene cosa, e non ha ancora realizzato che il suo corso è cambiato per sempre.

«…cosa?»

Gli occhi di Sora erano lontanissimi, intollerabilmente distanti. Il bisogno di riportarlo indietro era frenetico, doloroso come uno spillo, ma lui non sapeva come fare. Non conosceva la frustrazione, allora, ed aveva pensato che fosse rabbia.

«Era sulla spiaggia.» Sora stava ricordando, e qualcuno che non era lui. All’improvviso era insopportabile. Avrebbe voluto picchiarlo, ed aveva stretto i pugni. «L’ho trovata ed ho chiamato mia madre. Neanche lei sa da dove viene.»

Insieme in eterno.

Non aveva visto l’ostacolo fino a quando non era arrivato troppo vicino per fermarsi. Era stato quello il suo errore. Ed il rumore delle sue ossa che si schiantavano contro la diga di pietra era stato assordante.

«…perché non me l’hai detto?»



Era il tuo primo segreto.

Fu anche la prima porta. Si chiuse pianissimo, senza neanche un cigolio, e la serratura scattò silenziosa.

Forse fu per questo che fui l’unico a sentirla.



L’aveva conosciuta all’alba.

Non avrebbe mai dimenticato la sua figura minuscola sotto le palme, con la cartella sulle spalle e la gonnellina a pieghe dell’uniforme scolastica che si agitava nel vento.

Era incredibile come una cosa così piccola gli fosse sembrata così minacciosa, mentre Sora correva verso di lei agitando una mano. Lui l’aveva seguito lentamente, vigile come di fronte ad un pericolo.

«Ehi, Kairi!»

Lei aveva sorriso. Riku aveva aggrottato la fronte.

Era per questa persona che era stato tradito?

«Lui è Riku» l’aveva presentato Sora, un po’ imbarazzato. Avrebbe realizzato presto che Sora sembrava sempre un po’ imbarazzato quando parlava con lei. Arrivando al punto di non sopportarlo, gli sarebbe mancato quando lo considerava semplicemente strano.

Kairi l’aveva guardato come se lo conoscesse. Riku aveva duramente ricambiato. Lei aveva occhi blu, sconvolgentemente limpidi, sconvolgentemente consapevoli. Non somigliavano per niente a quelli di Sora.

«So chi sei» gli aveva detto semplicemente, prima di sorridergli come per proporgli una tregua. Lui l’aveva guardata come se la odiasse. Solo dopo un po’ si era reso conto che la odiava davvero.

Era stato allora che aveva cominciato a scivolare, e le sue ossa in frantumi non erano riuscite a frenare la caduta.

«Andiamo, Sora» gli aveva ordinato, convinto di avere ancora il potere. Convinto che almeno quello sarebbe rimasto per sempre suo. «Facciamo a chi arriva prima?»

Qualcosa di nuovo si chiude, quando lui esita.

«E Kairi?»

Riku l’aveva guardato incredulo.

Loro correvano sempre per andare a scuola. Facevano a gara per qualunque cosa, e non c’era niente che prima lo avesse fermato, quando Riku gli aveva proposto una sfida. Niente.

L’aveva guardato per un po’, nella speranza che fosse una specie di rigurgito di quel poco di educazione che i suoi genitori erano riusciti ad inculcargli, qualcosa di così fragile che sarebbe bastato un altro colpetto per spezzare, ma Sora non aveva ricambiato lo sguardo.

Sora stava fissando Kairi.

Era stato escluso. Ed era stato brutale come un colpo di martello dritto sullo sterno, potente fino a spezzare la cassa toracica ed a sfondare il cuore.

«Non possiamo lasciarla sola» aveva continuato Sora, guardando a disagio per terra. Come se non fosse il tradimento peggiore. Come se non sarebbe stato odiato per questo.

Sora aveva preferito qualcun altro a lui. Deliberatamente e senza possibilità di appello. Era così umiliante, ma così umiliante che avrebbe voluto picchiarlo fino a farlo piangere, per condividere un po’ la vergogna terribile dell’essere appena stato considerato una seconda scelta.

Ma non poteva, non davanti a Kairi. Non poteva mostrarle il fianco ferito.

«Allora fai come ti pare!» aveva sbraitato, spostandosi la cartella sulla spalla e correndo via da solo. Aveva sentito Sora chiamarlo, una volta, due, tre, prima con sorpresa assoluta e poi con ansia, con rabbia, offeso come se a subire un torto irreparabile fosse stato lui.

Non si era mai voltato.

Era stato allora che aveva iniziato ad allontanarsi. Ma sarebbe passato molto tempo prima di realizzare che, nascondendo le proprie tracce per non essere seguito, aveva perso la strada di casa.



Era inevitabile che succedesse.

L’avevo odiata perché tu eri innamorato di lei.

Finii per amarla perché lei era innamorata di te.

In un mondo fatto di silenzi, era l’unica che potesse sentire la mia voce.



Era come se il tempo avesse cominciato a scorrere soltanto dopo la tempesta di meteoriti.

Aveva sentito l’infanzia senza dimensione lacerarsi sotto i suoi occhi blu profondo, oscenamente comprensivi, come se lei sapesse quanto dolorosamente si sentisse strappare e quanto sangue colasse da ogni ferita. Il loro tempo immobile era andato in pezzi come porcellana scagliata contro un muro, e solo nel tagliarsi le dita coi cocci aveva capito quanto fosse infinitamente fragile. Quanto fosse destinato a cambiare, prima o poi, perché era troppo minuscolo e troppo dipendente per poter sopravvivere senza adattarsi, senza lasciar entrare qualcosa e senza perdere qualcos’altro. Senza lasciarli respirare, almeno per un attimo, chiusi nella loro piccola tana dall’inizio del tempo e da prima ancora, prima che la porta venisse intagliata nel rifugio segreto e prima che l’isola vedesse i suoi primi abitanti.

Ed oltre i bordi aguzzi della loro infanzia spaccata, Riku era riuscito finalmente a vedere.

Sora si era fatto strada nel suo cuore a piccoli passi, e se guardava indietro riusciva a distinguere ogni impronta. Una stradina di calchi di piedi ancora troppo grandi, veloci e leggeri, e di segni più profondi dove quei piedi avevano finito per incidere la superficie e conficcarsi come pungiglioni.

Aveva cercato di liberarsi dalla sua rete, ma più si dibatteva, più attirava tutti e tre l’uno vicino all’altro, fino a togliere l’aria, fino a sgretolare qualunque muro e qualunque barriera, distruggendo lo spazio vitale che considerava necessario per sopravvivere. Fino a quando Kairi non aveva seguito la strada tracciata da Sora e si era infiltrata nel suo cuore intrattabile, mostrando i palmi disarmati e rassicurandolo senza parole che lei sapeva tutto quello che si era sforzato per anni di nascondere.

Ricordandogli che non c’era niente di cui avere paura.

Così aveva trovato un angolino dove respirare nella loro rete tesissima, e smettendo di dibattersi aveva permesso anche a loro di trovare la propria casa in quel claustrofobico nascondiglio. Perché era stato fatto per due persone, e Riku lo sapeva, Kairi lo sapeva che prima o poi qualcuno sarebbe stato rigettato oltre la rete ed abbandonato a se stesso, escluso dal suo branco perché se ne creasse uno proprio.

Quella non era la sua fiaba, e per questo aveva cercato una via di fuga, un luogo in cui evadere quando la loro piccola rete sarebbe diventata troppo stretta per respirare. Eppure, fino all’ultimo, Riku aveva pensato che non sarebbe stato lui ad essere respinto.

Ma quando aveva visto il paopu disegnato nella caverna, quando i Sora e Kairi incisi sulla pietra avevano smesso di guardarsi per cercare di raggiungersi, aveva capito che gli ultimi strascichi dell’infanzia che avevano gelosamente conservato si erano diluiti come una goccia di colore nel mare, e per quanto lui tendesse le mani e cercasse di catturarne gli ultimi riflessi non esistevano più da tanto, tantissimo tempo.

Solo allora aveva compreso. Alla fine di tutto, sarebbe stato lui ad essere rifiutato.

L’ennesima porta che si chiude suona come un lamento.

Sora gli aveva tagliato tutte le vie d’uscita.

Lui ne aveva cercata un’altra.



Ero stanco di porte sprangate che solo io riuscivo a vedere.

Così, pensai che uno schianto sarebbe stato sentito.



"Time to race" she said, "race the downhill."



L’aveva cercato in quella sua maniera claustrofobica, che gli stringeva la gola e gli toglieva il respiro.

L’aveva cercato come se non fosse stato davvero necessario. L’aveva cercato come se non fosse mai andato via.

Lui l’aveva guardata dal basso, il suo profilo che si delineava scheletrico sulla porta, illuminato dalla luce del corridoio. C’era buio nella sua stanza. Il buio gli ricordava che aveva fatto una scelta, e che adesso era troppo tardi per tornare indietro.

Con il buio era più facile credere di aver perso la strada, invece di averla abbandonata.

«Voglio tornare a Traverse Town» le aveva detto, attento ad ogni sfumatura della sua voce. «Forse è arrivato.»

Era stato deliberato il suo tono di comando. Aveva la sensazione che fosse l’unico modo con cui colmare l’inconcepibile distanza che li separava, perché in un mondo di adulti impotenti ed incapaci di capire quello che si nascondeva dentro il suo cuore ingestibile, lei era l’unica che considerasse veramente tale.

Solo con lei si sentiva debole, immaturo, inadeguato. Solo con lei si sentiva piccolo.

Maleficent si era appoggiata un po’ di più al suo bastone, il globo luminoso sulla sommità che dava al suo viso già grigiastro una sfumatura malsana. L’aveva fulminata con lo sguardo, quando lei aveva sorriso.

«Non credo che lo troverai.»

Odiava quando lo contraddiceva. Era insopportabile il suono familiare e condiscendente che prendeva la sua voce disturbante.

«Hai detto che quasi tutti quelli che perdono il proprio mondo finiscono lì. Ci sarà anche Sora.»

Probabilmente solo. Probabilmente spaventato. Ricordava la faccia che aveva fatto quando l’oscurità l’aveva inghiottito, il terrore paralizzante che aveva letto nei suoi occhi sbarrati.

Ricordava anche che nonostante il panico aveva tentato di raggiungerlo. Come se ancora una volta la sua mano tesa fosse stata l’unica cosa ad avere importanza.

Lei aveva scrollato leggermente le spalle. Nel suo vestito troppo stretto, sembrava un sacco pieno d’ossa.

«A meno che non abbia perso il proprio cuore e non sia diventato un Heartless.»

Odiava il colore innaturale della sua pelle, le sue mani sottili come artigli, i suoi zigomi sporgenti. Odiava il modo in cui piegava la sua schiena magrissima quando si chinava a bisbigliargli all’orecchio. Odiava i suoi occhi, la sua bocca, la sua voce. Ma più di tutto, odiava il modo in cui gli parlava. Come se potesse fare qualunque cosa, e contemporaneamente come se avesse commesso un delitto così orribile da non poter essere perdonato.

Era colpevole, ma non responsabile. Non ai suoi occhi, ed era vergognoso il sollievo che questo gli dava.

«Non essere stupida. Sora non può perdere il proprio cuore.» Non poteva aver fatto anche questo. «Voglio andare.»

Doveva liberarsi di almeno un peso. Era già abbastanza sporco, ed ogni volta che lei lo toccava, ogni volta che lei gli parlava, era sempre più corrotto.

Aveva cancellato le isole. I suoi genitori, la gente che conosceva, erano tutti andati. Ed anche se allora l’aveva ritenuto necessario, anche se aveva pensato che non importava quale sarebbe stato il prezzo, pur di liberarsi dalla gabbia in cui era stato confinato per quei quindici anni senza fine, non voleva pensare di aver distrutto anche i suoi amici.

Non Sora.

«Non credo dovresti.»

Era soffocante il modo in cui continuava a tenerlo stretto a sé, vicino e dipendente, l’ostinazione con cui si rifiutava di lasciarlo andare. E più lui cercava di allontanarsi, più le sue dita sottili si conficcavano nella sua pelle.

«Quello che tu credi è del tutto irrilevante per me.»

Lei aveva sospirato, come una madre paziente. Come se avesse sempre saputo dove la sua testarda ossessione l’avrebbe portato.

Come se avesse sempre saputo che Sora l’avrebbe spinto a perdersi del tutto.

«Sei così facile da tradire, Riku…»

L’aveva fissata, attento ed ostile. «Che vuoi dire?»

Lei aveva alzato una mano ossuta, accarezzando il globo luminescente.

«Tu pretendi sempre così tanto…» Gli occhi gialli scintillavano al buio, fosforescenti come qualcosa di tossico. «È facile deluderti.»

Aveva stretto i denti, sforzandosi di ignorare il modo in cui le sue parole erano scese a fondo nel suo cuore, pizzicando corde che Maleficent non doveva permettersi di toccare.

Quella cosa nera ed orribile che si dimenava da qualche parte, sepolta a fondo dentro di lui, era solo sua. Non importava che in tutto l’universo Maleficent fosse l’unica che non l’avrebbe trovata raccapricciante a prescindere, l’unica che l’avrebbe giustificata, perché dividerla con lei sarebbe stato come dividere anche Sora, e non era ad un rifiuto dell’oscurità come quello che Sora apparteneva.

«Sora non mi deluderà.» Non un’altra volta. «Non mi tradirà.» Non di nuovo. «Lo so.»

Era stato allora che lei aveva sorriso. Un sorriso appuntito, sbocciato come un fiore velenoso sulla bocca rossissima, i denti aguzzi dietro le labbra sottili come linee.

Aveva sorriso come se avesse ottenuto esattamente quello che voleva.

«Andiamo, allora. Il tuo amico ti starà cercando disperatamente quanto te.»

Un brivido sulla schiena, la sensazione odiosa di essere stato toccato da qualcosa di profondamente marcio, putrefatto fino alla radice.

Si era alzato lentamente, cauto come di fronte ad una iena.

«Ne sono sicuro.»

Ed allora, in quell’attimo in cui l’aveva seguita fuori dalla sua stanza e lungo i corridoi di Hollow Bastion, lo era stato davvero.

Questa volta, lo schianto ha il rumore di qualcosa che si è rotto per sempre.

Forse non era ancora andato così lontano, dopotutto.

Non abbastanza.



Maleficent era come avevo sempre saputo di poter essere.

Nel mondo d’ombra di Maleficent, non c’era niente di giusto o sbagliato.

Nel mondo d’ombra di Maleficent, non c’era niente che non potessi volere.

Forse fu per questo che, alla fine, la sua voce fu l’unica che ascoltai.



Avevano cominciato ad andare nella caverna sempre più spesso, dopo che il mostro minaccioso si era rivelato soltanto il sibilo del vento.

Aveva impiegato pochissimo a diventare il loro luogo segreto.

Non dicevano a nessuno dove andavano; prendevano le barche ed approdavano al piccolo molo dell’isola dei bambini, e poi sparivano tra la fitta vegetazione che copriva l’ingresso. I cespugli si erano ben presto ridotti ad un ammasso informe e calpestato, ma per fortuna Wakka non brillava esattamente per le proprie capacità deduttive, e Tidus e Selphie non avevano ancora il permesso di spingersi così lontano.

Non facevano niente di particolare lì dentro -giocavano con le spade, lottavano e si rotolavano sulla terra durissima, sporcandosi da capo a piedi, tutte cose che potevano fare benissimo fuori. Ma quel posto era loro, e lì nessuno poteva vederli, nessuno poteva sentirli, nessuno poteva interferire quando litigavano e si picchiavano così forte da sanguinare. Lì erano nascosti, e Riku trovava incredibilmente consolante l’idea che il mondo si fosse accartocciato su se stesso come un riccio e si fosse ridotto a quelle quattro mura di pietra che gli si chiudevano addosso.

C’erano solo loro, lì. Ed era devastante il senso di appartenenza che questo pensiero gli dava, come se per quanto si fosse allontanato sarebbe potuto tornare in quel luogo sempre e sempre, e trovarlo immutato. Intoccato dagli anni ed incorruttibile, come la loro infanzia senza fine, immune al tempo ed invulnerabile allo scorrere delle stagioni.

Era stato Sora il primo a scarabocchiare sulla pietra grezza della caverna. Lui aveva guardato con sospetto il risultato, come faceva con qualunque idea che non fosse sua, e quando aveva chiesto piuttosto perplesso cosa fosse quella roba si era guadagnato uno sguardo indignato.

«Ma come, sono io!» era scattato Sora, indicando lo sgorbio inciso sulla parete come se fosse assolutamente impensabile non riconoscerlo. «I capelli! La spada! Sono il guerriero più forte di tutte le isole, anzi, di tutto il mondo!»

Lui aveva sbuffato, dandogli uno spintone che l’aveva quasi fatto franare contro la parete e rubandogli il sasso. Poi si era messo a scalpellare sul muro opposto, con Sora che tentava di scalare la sua schiena come una scimmia e gli strillava nell’orecchio che era un indegno copione, era stata sua l’idea.

«Ecco» aveva detto alla fine, allontanandosi abbastanza da far vedere anche a lui la sua suprema opera d’arte. «Questo sono io.»

«Con una corona in testa?»

«Ovviamente» aveva sbuffato, di fronte alla sua offensiva incredulità. «Se tu sei un guerriero - aveva evitato di proposito di menzionare la questione del più forte del mondo, che sciocchezza, nessuno era più forte di lui - allora io sono un re.»

«Perché devi sempre prenderti le parti migliori?» aveva piagnucolato Sora, prima di strappargli la pietra di mano e scarabocchiare un mostriciattolo informe vicino al suo disegno.

«Ehi, che fai?» aveva protestato. Sora non l’aveva neanche ascoltato.

«Se tu puoi essere un re, allora lo sono anch’io. Ecco. Questo sono io!»

«…non hai nemmeno i capelli» gli aveva fatto notare, dubbioso. Sora aveva sbuffato e gli aveva picchiato la pietra in testa, facendogli un male tremendo.

«A te non va mai bene niente» aveva brontolato Sora, prima che lui lo spedisse per terra e cercasse di dargli un pugno in faccia per vendicare l’affronto subito.

Erano rimasti a lottare nella polvere per un sacco di tempo, rotolandosi e litigando su quale dei due fosse il re più forte e più potente del mondo, fino a quando non erano crollati.

Avevano guardato il soffitto, esausti, nel punto in cui le radici dell’albero avevano spaccato la roccia ed avevano creato un piccolo lucernario naturale. Il punto da cui entrava il vento, facendo muggire il mostro inesistente.

«Comunque il nostro regno è questo» aveva commentato alla fine Sora, respirando affannosamente.

Lui si era rilassato, per la prima volta da quando avevano scoperto la caverna.

«Sì. Nostro e basta.»

È incredibile come siano stati loro a creare ogni porta che piano si chiude.

Non fu davvero sorpreso, il giorno in cui vide la faccia di Kairi incisa sulla parete della grotta.

Era più facile fingere di essere un re, piuttosto che continuare a credere di avere il potere.



Potevo contare sulle dita tutte le promesse che avevi rotto per lei, ma era il solo impegno che non avevi mai preso a voce alta che non ti perdonavo di aver tradito.

Essere l’unico. Per sempre.



«…perché non me l’hai detto?»

Qualcosa si spezza, con il cigolio di una serratura arrugginita, e va alla deriva lentamente.

Sora l’aveva guardato con quei suoi occhi trasparenti, senza capire. Perplesso in una maniera quasi comica.

«Te lo sto dicendo adesso» aveva risposto, confuso. «Ha importanza?»

L’aveva sempre avuta. Dal momento in cui era successo, ed era successo senza di lui.

Non poteva tollerare che Sora si allontanasse tanto, non mentre era girato, non quando era così certo della sua forza. Non quando era sicuro di essere avanti abbastanza da non essere lasciato indietro.

«…no. Cosa vuoi che mi importi di quella?» aveva ringhiato, prima di indicargli le barche e sfidarlo a chi arrivava prima, senza dargli il tempo di capire quanto fosse davvero arrabbiato. Quanto profondamente avesse inciso, e quanto a lungo sarebbero rimaste le cicatrici.

Anni dopo, con la luce calda del crepuscolo che si rifletteva sull’acqua e la schiena appoggiata al tronco del paopu intiepidito dal sole, l’avrebbe finalmente detto ad alta voce.

Se non fosse stato per Kairi, sarebbero rimasti per sempre sulla loro isola. Ottusamente, beatamente inconsapevoli.

C’era stato un tempo in cui non credeva che ce ne sarebbero stati altri.

Poi, quel tempo era finito.



Solo in seguito, quando realizzai tutta la strada che avevo fatto senza allontanarmi dai tuoi occhi, capii che in realtà non ero mai partito.

Era da te che scappavo, ma era da te che continuavo a tornare.



After all, what was I really looking for?

And I wonder, when will I learn?

Maybe my wish knew better than I did.

And I wonder, when will I learn?



Stavano guardando il tramonto insieme, quando gliel’aveva chiesto.

«Se dovessi andarmene, un giorno, mi seguiresti?»

Era stato pochi giorni prima di costruire la zattera, quando l’idea di partire era soltanto un abbozzo un po’ approssimativo nelle loro menti. Quando l’idea di restare iniziava a diventare dolorosa.

Quando aveva capito, con ineffabile certezza, che presto Sora si sarebbe reso ridicolo come tutti i loro coetanei, arrampicandosi sul paopu per cogliere un frutto da dividere con Kairi.

Che essere escluso non era più una remota possibilità, ma una certezza.

Che non era più questione di se, solo di quando.

Sora aveva abbassato la testa per guardarlo, seduto com’era sul paopu, con le mani piantate sul tronco e le gambe ciondoloni.

«Certo» aveva riso, come se avesse detto qualcosa di troppo assurdo per poter essere preso seriamente in considerazione. «E ti raggiungerei.»

«Potresti non riuscirci» gli aveva risposto, per il puro gusto di contraddirlo.

Non avrebbe mai ammesso che, in fondo, stava solo cercando di stabilire quanto forte fosse la sua risoluzione. Quanto valore gli dava, e quanto a lungo, soprattutto, l’avrebbe cercato.

Sora aveva smesso di sorridere, ma aveva continuato tranquillo a guardarlo.

«Consumerei sette paia di scarpe di ferro, come nella favola. E ti troverei.»

Sembrava incredibilmente serio. Riku non sapeva se lo fosse davvero, ma la prese come una promessa.

E Sora, dopo aver consumato sette paia di scarpe di ferro, lo trovò.



Fu allora che riaprii tutte le porte che mi ero chiuso alle spalle.

Sperando, dietro all’ultima, di trovare te.



«Andremo insieme.»



And you said, and you did,

and you said you would find me here.



__________________________________________



Note dell’autrice:

…e questo sarà il rapporto più stretto tra Riku e Kairi che scriverò in vita mia XD Amo il RiSoKai, ma ho un’idea ben precisa di quale sia la relazione tra Riku e Kairi.

Comunque! Non riesco a credere di averla finita XD Questa storia l’ho pensata almeno sei mesi fa, prima ancora di Once Upon a Time, ma continuavo a rimandare la stesura a quando avrei rigiocato a KH. Sono pigra, non avevo voglia di riguardarmi le sequenze che mi servivano XD Però adesso che ho ripreso KH mi sto liberando di un po’ di oneshot canon che aspettavano da tempo di essere scritte, e questa era la seconda sulla lista. Niente panico, le prossime sono pr0n.

Questa tra l’altro è la mia prima RiSoKai canon, anche se è spudoratamente RiSo XD Ed all’inizio doveva essere RiSo, poi ha preso questa piega ed ho deciso di lasciarla così.

Scrivere questa fic è stata una fatica immensa x_x Un po’ perché nell’ultimo mese mi sembra di non riuscire a mettere due parole in fila (anche se sembro in via di guarigione), un po’ perché era la prima volta che scrivevo di Maleficent e quella parte l’ho rifatta tre volte XD Però mi è piaciuto tanto scrivere di lei e Riku, quindi sono soddisfatta<3 In questo delirio angst è la parte che preferisco. Voi prendetela un po’ come viene, che io non ho la minima intenzione di riscriverla, riprenderla o qualunque altra cosa *_*;

Durante tutta la stesura della fic ho ascoltato ossessivamente lo Scarlet’s Walk di Tori, ed in particolare i pezzi citati sono rispettivamente di Strange, Carbon, ancora Strange e I Can’t See New York.

Nonostante questa storia sia stata concepita prima di Once Upon a Time, Caska (a cui manca ancora la fine ;_; torna ;_;) mi ha fatto notare che sembra il suo seguito XD Prendetelo pure come tale, in effetti ci sta. E se l’ho pubblicata ringraziate Azure, che mi ha convinto a non buttarla nello scarico XD

A presto<3

Seli



  
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