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Autore: Stellalontana    07/09/2008    5 recensioni
________Postato l'ultimo capitolo_________ Siamo giunti alla fine.
-Capisco- replicò Briseide. [...]-Allora è meglio se per questa volta sono io ad occuparmi di te- ridacchiò lei, baciandogli la fronte -sei d’accordo?-
-Come potrei non esserlo?- chiese allora Will, cercando di non perdere la presa sulla realtà.
Ma poi, non riuscendoci, la lasciò andare, e scoprì che in quel momento non importava poi così tanto.
Genere: Azione, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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Salve a tutti! Qui di seguito trovate la mia prima fanficton originale.

Dopo molti giorni d'assensa passati tra l'esame di maturità e le vacanze ho deciso di sottoporvi questa piccola storia, senza nessuna pretesa.

Voglio chiedervi soltanto di essere clementi, perchè è la prima volta che scrivo una cosa del genere.

Spero che vi piaccia e che usiate le recensioni per farmelo sapere o per criticarmi e aiutarmi a migliorare.

Un bacio grande dalla vostra affezionata

Stellalontana




Capitolo Uno


L’alba dorata illuminò il bosco tingendo di giallo le foglie dei faggi. Will sospirò. L’aria andava riscaldandosi e una brezza ancora fresca contribuì ad asciugare le ultime chiazze bagnate sui suoi vestiti. Non aveva dormito quella notte. Non ne aveva bisogno. Eppure il suo corpo, teso come un elastico, reclamava il riposo che lui gli negava, ormai da giorni, ancor più della sua mente. Si alzò, spazzolandosi i calzoni pieni di foglie. Si avvicinò allo specchio d’acqua, dove la sera prima aveva rimediato la cena. Guardò la sua immagine. La ferita sul collo andava guarendo. Ben presto avrebbe avuto una lunga cicatrice bianca in quel punto. Gli era andata bene, la freccia lo aveva preso di striscio, ma per quanto ancora? Era pur sempre un fuggitivo. La guerra gli aveva indurito il carattere e zittito la coscienza. Quando era partito con l’esercito, aveva quindici anni e sarebbe dovuto rimanere sotto le armi per almeno altri venti, se non avesse disertato dopo quattro, per diventare un fuorilegge. Sorrise. Tutti i suoi sogni si erano infranti quando aveva sentito per la prima volta la spada urtare contro il petto di un uomo, la resistenza del costato che si frantumava e gli schizzi del sangue che gli avevano appannato la vista, con la loro disgustosa viscosità. Avrebbe dato qualsiasi cosa per poter riportare in vita tutti gli uomini che aveva ucciso durante quei quattro anni d’inferno. Ma la guerra non era ancora finita. Con un sospiro lavò la ferita, che gli bruciava ancora a tal punto da strappargli gemiti sordi e da fargli pulsare il sangue nelle tempie. Riempì le borracce e strigliò l’asino. Il suo vecchio amico era stanco per il lungo cammino cui lo aveva costretto il giorno prima, ma dovevano continuare a spostarsi, cercando di portarsi sempre più vicini alla costa. Controllò la bisaccia legata alla meno peggio sul suo dorso. Conteneva ancora un po’ del cibo che gli aveva regalato un mugnaio, dei pezzi di carta ingialliti, piume e inchiostro per scrivere. Si accertò che non fosse evaporato e che la carta fosse ancora asciutta abbastanza per scriverci sopra.  Spuntò i giorni sul suo taccuino. Ne erano passati ben cento da quando era in fuga. Ormai si saranno scordati di me, si disse alzando le spalle. La speranza che lo lasciassero in pace era la sola cosa che gli era rimasta. Si tirò su a fatica, le gambe stanche che cedevano sotto il suo peso. Era snello, proporzionato, la guerra aveva forzato la crescita dei suoi muscoli, e adesso li sentiva tesi e affaticati. Si ricordò della notte in cui era fuggito. I suoi compagni lo avevano aiutato a fuggire, ma non potevano certo rimanere a bocca chiusa, altrimenti li avrebbero uccisi tutti. Era loro molto grato, ma il suo carattere duro e taciturno non lo faceva avvicinare tanto agli altri, e lo avevano sempre trattato come un conoscente, uno di cui ci si possa a malapena fidare. Non poteva dar torto a nessuno di loro. Non parlava molto, rideva meno e non sorrideva quasi mai. Scribacchiava sul suo taccuino e nessuno gli aveva mai chiesto che cosa pensasse. Un ghigno affiorò alle sue labbra, ricordando quando un ragazzetto appena in grado di reggere la spada, aveva tentato di rubargli la bisaccia al campo. Aveva preso così tante botte da non poter più camminare senza barcollare. Will si era pentito di quanto dolore avesse provocato a quel ragazzino, ma la sua bisaccia era la cosa più preziosa che aveva e a nessuno aveva mai dato il permesso anche solo di toccarla. Figuriamoci di rubarla. Uno scricchiolio dal folto lo fece voltare. Il collo gli pulsava e la ferita bruciava. Un altro movimento brusco e si sarebbe riaperta di sicuro. Dai cespugli spuntò uno scoiattolo. Will tirò un sospiro di sollievo. La foresta vicino alla città di Ponte Bruciato era meta non solo di fuorilegge, ma anche di soldati e ladri. Decise che sarebbe sceso in città per fare provviste. Cercò il borsellino sotto il mantello. Aveva ancora poche monete d’argento, ma sarebbero bastate per un letto e per qualche giorno di scorte. Prese le redini improvvisate dell’asino e lo fece muovere, facendo attenzione a non calpestare le tane delle formiche rosse e delle vespe, dure come calce. Uscito dalla foresta tirò su il cappuccio del mantello, nascondendo i folti capelli neri e gli occhi di un azzurro glaciale. Si chiuse il laccio al collo, provando una fitta di dolore quando la tela grezza sfiorò la ferita. Il sole era appena sorto e tingeva le nuvole, ancora grasse di pioggia, di rosa e arancione. Un tempo avrebbe trovato l’alba estremamente romantica. Adesso la trovava quasi fastidiosa. S’incamminò verso il fondo del villaggio. La caviglia rotta gli dava ancora qualche fitta di tanto in tanto, ma il cerusico l’aveva rimessa a posto senza fare troppe domande, e gli aveva raccomandato il riposo più assoluto. Will se n’era andato ridendo.
Nascosto dal mantello scrutò la gente che si affacciava dalle casupole. Uno straniero ammantato di nero era sempre qualcosa di imprevisto. Dei bambini gli saltellarono intorno. La gente di Ponte Bruciato era ospitale ma curiosa e lui odiava le lunghe occhiate che gli uomini gli lanciavano. Passò accanto alla fucina del fabbro appena aperta. L’uomo dalla pelle ustionata gli lanciò una lunga occhiata da sotto la zazzera bionda. Gli occhi color castagna lo seguirono anche quando fu lontano. Odiava esser guardato, odiava vedere la curiosità sui volti delle persone, e odiava ancora di più il fatto di essere diverso da loro. I suoi colori strani, i capelli neri e la pelle ambra, suscitavano timore nella gente di quella regione così distante dalla sua patria. Addirittura al di là del mare. Ma la cosa che temeva di più era l’espressione di sorpresa per i suoi occhi gelidi. La guerra aveva indurito il suo carattere, ghiacciato il fiume della sua coscienza e risvegliato lo spirito di sopravvivenza sopito.
Inciampò in una buca della strada e la spada gli picchiò sul fianco. Imprecò a bassa voce, cercando di nascondere il sibilo della sua lingua madre. Tastò la pietra incastonata nell’elsa, un piccolo ma prezioso, diamante, trovato un giorno da suo padre. Probabilmente caduto dalla borsa di un ricco mercante. L’aveva fatto incastonare nell’elsa, ma un buon fabbro avrebbe potuto toglierla. Quando gliel’aveva data gli aveva fatto giurare che non si sarebbe fatto scrupoli, e che, per quanto quella spada senza il diamante non avrebbe avuto nessun valore, avrebbe venduto la pietra se si fosse trovato nei guai. Per il momento non aveva avuto bisogno di venderla. E non l’avrebbe fatto, a costo di morire di fame. Era l’unica cosa che ancora lo legava alla sua terra, al di là del mare.
La guerra lo aveva fatto diventare sospettoso e irrequieto e da tempo non dormiva come si doveva, perciò aveva bisogno di almeno un giorno di tranquillità. Alla fine della città trovò una locanda a basso costo, anche se questo la diceva lunga sulle condizioni delle camere. Legò l’asino dentro la stalla, lasciando una moneta d’argento al ragazzino che si occupava dei cavalli, ed entrò nella locanda. Lo colpì il puzzo di marcio delle assi, l’odore prepotente della birra stantia e un olezzo di fogna a cielo aperto. Peggio di così, pensò. Gli venne l’idea di andarsene subito, ma aveva bisogno di dormire un paio d’ore e non aveva altra scelta. Si avvicinò al bancone. Il locandiere lo squadrò.
-Che cosa vuoi straniero?- chiese. Will non alzò la testa, ma parlò con voce forte, così che tutti potessero distinguere il suo accento marcato.
-Una camera. E un bicchiere di acquavite- posò sul bancone quattro monete d’argento, sentendo il borsellino alleggerirsi. Il locandiere guardò le monete, poi lo servì. Aprì un registro e gli diede penna e calamaio.
-Il tuo nome straniero- intimò. Will finì con calma il bicchiere, poi intinse la penna nel calamaio e scrisse un nome non suo sul registro. Il locandiere lesse con stupore il nome svolazzante. -Dove hai imparato a scrivere così?- chiese. Will alzò le spalle da sotto il mantello, asciugandosi le labbra con il dorso della mano guantata.
-Da solo- rispose. Poggiò il bicchiere sul bancone. -Dove sono le camere?-
-Sali le scale e gira a destra. La numero otto è libera- sogghignò -Sei stato fortunato. È l’ultima che mi è rimasta-
-Io non direi tanto fortunato- Will sentì una sedia muoversi. Il proprietario della voce gli toccò la spalla. Si voltò e lo guardò da sotto il mantello. Non era molto più alto di lui, forse un paio di dita, ma era robusto e sicuramente senza ferite quasi riaperte. Portava un coltellino alla cintura. Will passò la mano guantata sopra l’elsa della spalla. Non doveva combattere. Non doveva mostrare a tutti la sua eccezionale abilità con la spada. Non doveva. Cercò di calmarsi. Il collo gli doleva e voleva stendersi in un posto asciutto. L’uomo non poteva avere più di vent’anni. Gli occhi nocciola erano cattivi e i capelli rossicci erano appiccicati sulla fronte come la criniera bagnata di uno stallone.
-Che cosa vuoi?- chiese a bassa voce. L’altro lo guardò inclinando la testa.
-Da dove vieni? Non sei di queste parti, vero?- chiese -Da dove arrivi?-
-Da un posto che non conosci- non riuscì a dissimulare il sibilo della lingua fra i denti. La sua lingua natale aveva suoni sibilanti e dolci, non come quella lingua tagliente e gelida.
-Questo posto deve essere molto lontano dal modo in cui parli- osservò il rosso. Will trattenne a stento un gemito. La presa sulla sua spalla si era fatta una morsa e il collo gli bruciava sempre di più.
-E con questo?- si limitò a borbottare. L’altro lo lasciò. Gli scappò un sospiro di sollievo. Non avrebbe potuto affrontare uno scontro. Doveva evitare di innervosire l’avversario e doveva stendersi. Non ce la faceva più. Il suo corpo reclamava il riposo e i suoi occhi bruciavano. Cominciava a sentire la stanchezza scorrergli nelle vene fino ad appannargli il cervello. Deglutì. Doveva calmarsi e respirare come gli avevano insegnato i soldati, prima di affrontare una battaglia.
-Gli stranieri non sono i benvenuti a Ponte Bruciato- lo sentì dire -E di solito qui le persone si guardano negli occhi quando gli si parla- Will si scansò, ma l’altro riuscì ad afferrare il cappuccio. I capelli ancora lunghi gli piovvero sul volto, accecandolo per un attimo. Se li scostò con la mano guantata e sollevò lo sguardo sull’altro. Il volto del rosso trasfigurò. La sorpresa e lo spavento si mescolavano nei suoi occhi nocciola. Will gli rivolse uno sguardo di compatimento. Si appoggiò al bancone.
-Adesso che mi hai visto... posso andare?- chiese ansimando -Ho bisogno di riposo. Ho fatto un lungo viaggio-
Il locandiere prese infine le sue difese. -Sei solo un ragazzo. Che cosa ci fai qui?-
-Affari miei, oste. Scusate se non sono si compagnia-
-Da dove vieni?- chiese prima che sparisse su per le scale. Will tornò indietro.
-Da un posto che tu non conosci- rispose malinconico. Sentiva così tanta nostalgia della sua terra che sentiva il cuore duro come il ferro di cui era forgiata la sua spada.
-Vieni dal mare vero?- chiese il locandiere -Dove ti sei fatto quella brutta ferita?-
Will non rispose. L’oste gli diede un bricco sbeccato e un bacile di coccio. -Lavala e mettici della tela- gli porse un pezzo di tela che gli parve abbastanza pulita -Mia figlia Contessa verrà a fasciarla tra poco-
-Non ho bisogno di compassione, oste- ribatté glaciale Will.
-La mia non è compassione, ragazzo. Mio figlio è morto in guerra, e tu sembri uno dei pochi sopravvissuti. Mio figlio aveva la tua età. Forse tu sei ancora più giovane di come appari- alzò le spalle strette -Curati quella ferita, e non fare movimenti bruschi altrimenti si riaprirà e s’infetterà- aprì una porta dietro il bancone e chiamò la figlia. Will salì le scale, la stanchezza accumulata lo faceva barcollare. Entrò in camera e poggiò il bacile e la brocca a terra. Si tolse il mantello, i guanti, la spada, il piccolo tascapane e buona parte dei vestiti. Si sdraiò sotto il lenzuolo. La camera era piccola, ma sembrava in buone condizioni. Il materasso scricchiolava, ma non c’erano pulci o scarafaggi. Appoggiò la testa sul cuscino. La ferita pulsava terribilmente e lui si lasciò scappare un gemito di dolore. Non seppe se era scivolato nell’incoscienza per via del dolore o per la stanchezza, fatto sta che quando qualcuno bussò alla porta ebbe appena la forza di dire “avanti!”. Una ragazzina dai capelli biondo cenere legati in una lunga treccia che oscillava sulla sua schiena eretta, avanzò fino al suo letto. Lo osservò a lungo con i grandi occhi ambra chiara. Will non la guardò negli occhi. Aveva paura di leggere compassione e pietà dentro il suo sguardo curioso. Doveva avere più o meno quattordici o quindici anni. Grande abbastanza per sposarsi e avere dei figli. Lei affondò le mani nel bacile, che aveva riempito d’acqua, e ci tuffò dentro delle pezze di quella che sembrava seta poco lavorata. Aveva una voce stridula, forse per una malattia alla gola non guarita bene. Parlò poco, ma Will non rispose mai. Gli pulì la ferita e la fasciò alla bell’e meglio, passandogli la fascia intinta nell’acqua oleata, sotto i capelli neri. Quando uscì, Will era di nuovo scivolato nell’incoscienza.
Quando si svegliò dal torpore era ormai sera. Non capì se lo avesse svegliato il dolore al collo o il brontolio dello stomaco. Si alzò temendo un capogiro, che però lo risparmiò. Si vestì, la fascia che gli pizzicava la nuca, si rimise i guanti e la spada alla cintura, ma lasciò il mantello accasciato al letto. Prese lo specchio che era su una piccola madia e lo appoggiò al letto. S’inginocchiò, estrasse un coltellino di corno dalla fodera del mantello e cominciò a tagliare i capelli, ormai troppo lunghi, che gli incorniciavano il volto e scendevano sulla nuca. Quando si ritenne soddisfatto rimise tutto in ordine e uscì dalla stanza. Ormai tutti sapevano che uno straniero dagli strani colori e il corpo temprato dalla guerra era arrivato in città. Sebbene avesse paura dei soldati del re, non poteva vivere per sempre nascosto, perciò si fece coraggio e scese le scale. Il sonno gli aveva fatto bene e i suoi occhi non bruciavano più. Solo la ferita gli faceva vedere le stelle. La locanda era più affollata di quando era arrivato. Gli avventori si erano riuniti al bancone e attorno ai tavoli. Si sentiva l’odore di uno stufato, forse non particolarmente buono, ma che fece brontolare ulteriormente lo stomaco di Will. Si sedette ad un tavolo. Contessa, la figlia dell’oste si avvicinò.
-Vi posso portare qualcosa?- chiese. Will annuì. -C’è dello stufato. Posso portarvi anche del pane nero e la birra di mio padre-
-Va bene- le mise in mano una moneta d’argento e lei lo guardò con gratitudine. Forse suo padre non le aveva mai dato dei soldi da spendere in ciò che voleva. La vide far scivolare la moneta nell’incavo dei seni. Quel gesto gli ricordò sua madre, che usava nascondere uno spillo tra le pieghe del corpetto.  Sua madre era bellissima, da lei aveva ereditato gli occhi azzurri, e molti usavano corteggiarla. Contessa gli portò una dose generosa di stufato e un tozzo di pane abbastanza morbido. Appoggiò al tavolo il boccale. -Se ne volete ancora chiamatemi- gli sussurrò all’orecchio. Will non ribatté, ma cercò di sorridere. Lo sguardo della ragazzina era sincero e lui la guardò andare via. Suo padre le chiese qualcosa e lei chinò il capo, scuotendolo lievemente. Lui guardò verso Will, che fece finta di niente, intingendo il cucchiaio nello stufato, poi si rivolse di nuovo a Contessa. La voce era stizzita e Will ci ritrovò a concentrarsi per carpire cose le diceva. -Sei proprio una sciocca-
-Mi dispiace papà- sentì la flebile risposta di Contessa.
-Vedi di dargli questo. Se sarai brava ti darà un’altra moneta- la voce di Tiberio era suadente. Will lasciò cadere l’attenzione e guardò Contessa che rispondeva e che, il volto rosso e gli occhi bassi, tornava in cucina.
Era il primo pasto vero da ben sessanta giorni, si ricordò Will, annotando una lettera nella sua lingua sotto il segno del giorno. Si asciugò le labbra con il dorso della mano guantata. Non vide sopraggiungere il rosso, ma lo sentì sedersi. Alzò lo sguardo dal piatto. -Oggi non mi sono presentato- disse -Mi chiamo Karen, ma tutti mi chiamano Spirito, e tu?-
Will grugnì. Perché in quella città dovevano essere tutti così curiosi? -Lyon- rispose. Era il nome di un soldato che aveva ucciso durante la guerra. Gli era rimasto impresso per la dolcezza della pronuncia.
-Lyon e poi?- chiese ancora Spirito.
-Lyon e basta- rispose spazientito Will. Fece un gesto a Contessa, che sparì in cucina e tornò con un altro piatto di stufato. Portò via quello vuoto. Will affondò il cucchiaio nello stufato, sperando che quel gesto facesse capire a Spirito che la conversazione era finita. Ma lui era di un altro avviso.
-Come ti sei fatto quella ferita?- chiese curioso. Will alzò la testa e lo guardò negli occhi. Sapeva che il loro colore incuteva, in quasi tutti gli uomini, una sorta di malcelata inquietudine nei suoi confronti, ma la curiosità di Spirito non si acquietò.
-A caccia- rispose laconico. Non poteva certo dire che la preda era proprio lui.
-Che cosa ci fai a Ponte Bruciato?- chiese ancora Spirito, appoggiandosi alla sedia e incrociando le braccia. Will spezzò il tozzo di pane con le mani guantate. -E perché quei guanti?-
-Affari miei- rispose. Il sibilo della sua lingua probabilmente fece venire i brividi a Spirito, che lo guardò quasi impaurito.
-È strano il modo in cui parli, Lyon- osservò. Will si scostò i capelli dalla fronte con un gesto seccato.
-La mia lingua è molto più antica della tua- commentò distaccato. Aveva fatto fatica ad imparare la lingua di quella regione e a volte faticava ancora a tradurre i propri pensieri.
Spirito sembrò soddisfatto della risposta. Non si alzò subito, ma aspettò che lui avesse finito il boccale della birra. Will lo guardò di nuovo, solo allora Spirito si alzò.
-Beh, stammi bene, Lyon- balbettò. Will non rispose. Sapeva che anche se era grosso e alto più di lui, Spirito aveva paura di lui. Uno straniero scuro di capelli, con una spada e un strano accento incuteva timore reverenziale in quella gente semplice. Perfino l’oste aveva paura di lui, anche se gli ricordava suo figlio. Chiamò di nuovo Contessa.
-Come si chiama tuo padre?- le chiese mentre sparecchiava.
-Tiberio- rispose lei. Will notò che lasciò cadere sulla tavola un foglio spiegazzato e con su una calligrafia storta. Non poteva essere quella della ragazzina, perché ricordava che mentre gli fasciava la ferita gli aveva detto che sapeva a malapena scrivere il suo nome. Perciò quella doveva essere la grafia del padre. Will spiegò il foglietto, facendo in modo che Contessa lo vedesse e lo riferisse a Tiberio. Un ghigno gli affiorò alle labbra. Se hai bisogno di qualcosa, mia figlia provvederà. La parola “qualcosa” era sottolineata due volte. La scrittura sghemba era a malapena decifrabile, ma Will ebbe la sensazione che l’oste non si facesse scrupoli quando si trattava di sua figlia. Aveva scoperto la moneta che Will le aveva dato. Si infilò il foglio in tasca e si alzò. Il collo gli pulsava, ma gli faceva meno male ed era una buona cosa. Salì le scale e tornò in camera. Si tolse la cintura, e appoggiò la spada alla testata del letto. Pochi minuti dopo sentì bussare alla porta. Sapeva chi era dietro la porta. Aprì e si ritrovò davanti Contessa. Si spostò e la fece entrare. Non indossava più il grembiule sudicio. Il vestito grigio non le donava e non rendeva giustizia al suo corpicino già ben formato. -Che cosa c’è?- chiese Will, anche se già sapeva la risposta.
-Mi ha mandato mio padre- rispose lei con la solita voce stridula -Come va la ferita?-
-Passerà- commentò laconico lui. -Vattene Contessa-
La ragazzina lo guardò dal basso in alto, cercando di capire che cosa volesse da lei. Visto che non se ne andava Will glielo ripeté. -Vattene. Non ho bisogno di nulla-
-Mio padre credeva che...-
-Non m’interessa un accidente di che cosa pensava tuo padre. Non mi diverto con delle ragazzine- al sibilo della sua lingua fra i denti vide Contessa rabbrividire istintivamente. -Tieni- le mise in mano una moneta di bronzo. -Dì a tuo padre quello che ti pare, basta che mi lasci in pace-
-Grazie- mormorò lei -Posso farvi una domanda?- chiese impacciata. Will annuì, mentre si sfilava gli stivali, seduto sul letto. -Perché portate quei guanti?-
Will alzò gli occhi su di lei. Teneva la mano che stringeva la moneta stretta al petto prospero. -Lo vuoi sapere davvero?- chiese. Lei annuì senza quasi respirare. Lui ridacchiò senza allegria. Si tolse un guanto e allungò la mano verso di lei. Le cicatrici biancastre sul dorso e il palmo tremarono come fossero vive alla luce fioca delle tre candele.
-Come ve le siete fatte?- chiese Contessa, piena di stupore. Will si guardò le dita, lunghe e affusolate.
-È una lunga storia, Contessa. Forse se passerò di nuovo da qui te la racconterò- rispose -Adesso vai. Sei stata abbastanza- la congedò gelido. Contessa si voltò. Poi sembrò ripensarci. Tornò da lui e si chinò, schioccandogli un bacio sulla guancia. -Nessuno era mai stato gentile con me, vi ringrazio dal profondo del mio cuore- disse al suo orecchio. Will la guardò andare via, la lunga treccia che oscillava sulla sua schiena. Si toccò la guancia con le dita. Sorrise senza allegria. L’ultima volta che aveva ricevuto un bacio era stato quando era partito da casa. Si ricordava ancora il profumo di farina di sua madre, mentre lo abbracciava, le lacrime che le rigavano il bel volto, dalla pelle bianca come i bucaneve. Si sdraiò, sfilandosi anche l’altro guanto. Si guardò le dita affusolate. Le mosse, intrecciandole. Le sue mani grondavano sangue, e quelle cicatrici erano solo uno dei tanti ricordi della guerra. Passò le mani sotto la testa. Il collo pizzicava, ma cercò di non pensarci e poco dopo si addormentò.

Il vascello rollava e il vento spazzava il ponte di comando. L’acqua salmastra gli riempiva le orecchie e gli faceva bruciare come fuoco gli occhi stanchi. I vestiti erano appiccicati al corpo, il freddo e la paura gli attanagliavano lo stomaco come una morsa di ferro. Mentre scivolava, portato via da un’onda, la sua mano afferrò una cima che si srotolò finché non s’incastrò in una tavola malmessa. Si aggrappò alla cima con tutta la forza della disperazione. Il vascello si piegò vertiginosamente e lui sentì le urla del capitano e dei marinai. Lui e gli altri soldati se ne stavano aggrappati, angosciati dalla paura, mentre il mare precipitava e saliva tutto intorno a loro. Le onde altissime sballottavano la nave come fosse un guscio di noce. Urla di terrore gli affollavano la gola, ma era incapace anche si parlare, la sorda paura di morire si era impossessata di lui e non sentiva altro che il mare che urlava intorno a lui. Quando il vento smise per un solo momento di soffiare, sentì un dolore atroce alle mani. Cercò di aprire gli occhi, ma l’acqua salmastra bruciava e non riuscì a vedere nulla, attraverso la patina di lacrime, vento e paura. Sentì la presenza di un altro uomo accanto a lui. Si sentì afferrare per la vita. Gridò. Un urlo che gli fece dolere le corde vocali. Sentì le sue mani scorrere lungo la cima. Un dolore immane s’impossessò di lui. Altre mani sopra le sue lo staccarono dalla cima. Sarebbe morto. La Dama con la falce era venuto a prenderlo e non avrebbe mai più rivisto casa sua. Tutto intorno era paura, nebbia, vento, urla. Il dolore gli abbuiò la ragione. Urlò. Ancora, ancora e ancora, finché non ebbe più fiato e finché l’incoscienza non sopraggiunse a lenire la sofferenza.

Will si svegliò di soprassalto, sudato e con il fiatone. Si alzò a sedere sul materasso scricchiolante. Ancora... pensò, passandosi la mano sul volto. La luce dell’alba filtrò fra le tende accostate. Aveva dormito tutta la notte. Si guardò le mani. Al ricordo le ferite rimarginate pulsavano ancora. Ricordava il dolore cocente delle erbe dei cerusici. Le ferite c’avevano messo sei mesi per cicatrizzarsi. E intanto lui doveva brandire la spada. E ogni volta le mani gli facevano male, un dolore bruciante che risaliva per le braccia e gli offuscava i sensi. Aveva imparato ad escluderlo, concentrandosi solo sul peso enorme della spada contro le sue braccia ancora deboli. Suo padre era mugnaio, ma aveva voluto che lui studiasse e che lavorasse con lui soltanto alcuni giorni a settimana, per imparare il mestiere se non avesse trovato di meglio. Ma quando era giunta la notizia della guerra in quella terra lontana, di cui Will conosceva a malapena l’esistenza suo padre aveva cominciato a tenerlo in casa e lui aveva smesso di uscire per conto suo. Usciva di notte e il chiarore della luna rendeva la sua pelle ancora più bianca, nella luce lattiginosa. Poi lo avevano arruolato e tutto era finito. Aveva dovuto apprendere come difendersi, come uccidere, come saccheggiare. Per un anno era stato una recluta, ma mano a mano che cresceva il suo corpo imparava a sopportare il dolore e la mancanza di riposo. La guerra l’aveva temprato con un fabbro fa con il ferro caldo, dandogli la forma che ritiene più adeguata. La forma che Will aveva preso era quella di un soldato, la coscienza seppellita sotto il senso del dovere, il cuore ridotto ad un seme di papavero, gli occhi duri e la lingua tagliente.
Si alzò, si rivestì e si allacciò il mantello al collo. Trasalì sentendo la fasciatura premere sulla ferita. Scese dabbasso. Trovò Contessa e suo padre che parlavano. La ragazzina lo guardò.
-Partite?- chiese. Lui annuì.
-Quanto ti devo?- chiese a Tiberio. L’oste scosse la testa.
-Hai pagato ieri sera. Tieni- gli porse un fagotto di tela non troppo pulita. -Dentro c’è un po’ di cibo e qualcosa che potrà tornarti utile finché rimani nei paraggi delle città- indicò i suoi guanti sdruciti -E un nuovo paio di guanti- si chinò sul bancone -Quelle ferite non devi farle vedere in giro. Molti sanno che la guerra non è ancora finita e quelle... beh, sono molto strane- alzò le spalle e tacque, eloquente. Will non ribatté, ma fece un cenno all’oste e si allontanò, il mantello che lo seguiva come la sua ombra. Si calò il cappuccio del mantello sul volto e riprese l’asino dalla stalla. Lo portò di nuovo in direzione della foresta e quando furono abbastanza lontani dalla città, si sedette su un tronco marcio a lato della strada e sfece il fagotto. Trovò del pane nero, del formaggio e della carne essiccata. Dentro un pacchetto in carta lucida c’erano i guanti di cui gli aveva parlato l’oste. Non erano nuovi, ma erano in pelle, cuciti con maestria a filo doppio. Si tolse i suoi e se li infilò. Con quelli aveva più libertà di movimento, poteva muovere le dita senza che le cuciture gli torturassero le vene e le cicatrici. La pelle rimarginata, con il freddo dell’autunno in arrivo, si faceva ogni giorno più sensibile e lui ogni giorno più nervoso. Si rimise in cammino. La strada per la costa era ancora lunga, e lui non aveva nessuna intenzione di girovagare ancora. Voleva tornare a casa. Forse sarebbe morto prima di arrivarci, ma non gli importava. Sarebbe arrivato alla costa, avrebbe preso una nave e sarebbe tornato a casa. Vivo o morto.






   
 
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