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Autore: Yume Kourine    29/07/2014    3 recensioni
Allyson ha un lavoro perfetto, più di vent'anni e una storia da raccontare... ma non è la sua storia: quattro ragazzi sono entrati nelle sue giornate quotidiane e le hanno insegnato i valori della vita, i moti della passione e che, a volte, la semplicità non è un difetto.
[Dal Capitolo cinque]
“Ammettilo” dopo qualche minuto di silenzio fui io la prima a parlare, senza però voltarmi “Stai ricavando un sadico divertimento a tormentarmi non è vero?”
“Non potrei mai” rispose basito “Se devo essere sincero non so nemmeno io perché sia seduto qui vicino a te a indagare le persone”
Volsi il capo verso di lui: quella sua risposta mi aveva lasciata stupita e anche curiosa, non tanto per il fatto che fosse ignaro del motivo per cui mi avesse cercata ma più per il suo interesse nel voler “indagare le persone”.
“Sei proprio strano. Mi spieghi cosa trovi di interessante nelle persone sconosciute?”
Scoppiò a ridere: aveva una risata, come potrei dire... viva. Sì, viva. Perché era fresca, melodica e sincera.
(Storia rivisitata)
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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BΔSTILLE

QUESTO NOSTRO SANGUE MARCIO

 

 

Mi chiamo Allyson Haunt e vivo in Inghilterra; fin qui niente di strano anzi... sono una normalissima donna, con un lavoro che adoro e un fidanzato che amo. Tutto regolare.

Fino a poco tempo fa ero una ragazzina di diciotto anni che stava affrontando l'ultima fase dell'istruzione.

In quegli anni ero particolarmente egocentrica e testarda, volevo diventare una sceneggiatrice e regista: amavo scrivere ed ero piena di idee per storie.

Mi sentivo in grado di fare qualsiasi cosa, forse perché nella mia classe c'erano molti talenti: una ragazza era bravissima nel canto e infatti stava riscuotendo un particolare successo; un altro ancora amava la recitazione ed era presente in tutti gli spettacoli della città, altri invece portati nello studio o in altre attività...

Insomma non passavano inosservati. Così ho pensato, perché non provarci anche io?

Tutti in quella fottutissima classe avevano un talento e io volevo trovare il mio.

Da questa mia intenzione è cominciato tutto, comunque non sono qui per parlare di me... questa non è la mia storia. È la loro... la storia di quattro ragazzi che mi hanno sconvolto l'esistenza e la solita monotona quotidianità.

Non avrei pensato che le cose si sarebbero sviluppate in questo modo.

Cosa mi è successo? Beh, è una storia lunga...

 

 

 

 

 

CAPITOLO I

OBLIVION SEARCHES FOR YOUR NAME


 

Ricordo vagamente quel giorno...

Mi svegliai stravolta, probabilmente perché la sera precedente ero tornata da una festa in cui si aveva bevuto un po' troppo. Inoltre ero in ritardo di ben dieci minuti, cosa che comportò a saltare la colazione.

Bel modo per iniziare la giornata.

Lasciai casa di corsa e inizia a prendere scorciatoie su scorciatoie per accorciare il tragitto; quando mi trovai di fronte la scuola la campanella stava già suonando.

Fortunatamente la professoressa non era ancora arrivata e così raggiunsi il corridoio solo senza problemi, evitando problemi per quei due minuti di ritardo. Entrai in aula, non facendo caso alla confusione creatasi per l'assenza dell'insegnante: non era una stanza particolarmente comoda però non si stava male e con i miei compagni mi trovavo discretamente bene. Non voglio annoiarvi più di tanto riguardo alla classe, però vorrei parlarvi di Anne.

Anna era una delle ragazze più popolari e belle dell'istituto: non erano solo i suoi grandi occhi azzurri e le sue enormi tette ad attirare l'attenzione ma anche la sua voce passionale e sexy: molto spesso si esibiva nei locali di Londra e riusciva a “catturare” gli ascoltatori. Insomma, essere sua amica non ti faceva passare di certo inosservata.

Non ebbi neanche il tempo di sistemarmi nel banco che ritrovai un volto pallido e perfetto davanti al mio. Era quello di Anne.

“Ehi Fence! Questa sera mi esibisco al Pub 'Moonlight', sei con me vero?”

“Uno, non chiamarmi Fence”

Fence era il soprannome che mi aveva dato Anne e in poco tempo mezza città si ritrovò a chiamarmi così, ma non ne ho mai capito il motivo: forse perché sono come chiusa come un recinto. Non avevo un carattere molto socievole e il mio fisico minuto non aiutava di certo, molti mi etichettavano come timida ma, credetemi, sono tutto fuorché quello. Diciamo che preferisco la parola “indifferente”.

“Due” ripresi “Non posso, devo studiare. Ti devo ricordare che domani abbiamo il test di letteratura?”

La bella bionda aveva sorriso un po' ingenuamente.

“Ops, credo di essermene dimenticata!”

La nostra allegra conversazione venne interrotta dall'ingresso della Professoressa del corso “Media”, una sbadata quarantenne single che rovinava i pomeriggi degli studenti con i suoi compiti assurdi ma stranamente divertenti.

Cosa feci in quell'ora? Hum... proprio non ricordo, sarà che Media era la materia che più mi annoiava in quel periodo. Non che andassi male, solo che tra tutte era quella che mi stancava di più; oltre a media scelsi letteratura, arte e italiano. Sono sempre stata una grande amante dell'Italia e volevo approfondire la mia conoscenza culturale studiando le opere d'arte e i grandi dipinti. Il mio era un percorso umanistico.

E a sentire parlare di artisti immortali, di opere mai distrutte dal tempo e di successi che colmavano l'anima... beh, mi ero messa in testa di poter diventare qualcuno, di poter lasciare un segno in quel tempo che temevo mi stesse sfuggendo via.

In quell'ora di scuola fui convinta della mia scelta: mostrare che in quel mondo c'era anche Allyson Haunt.

Probabilmente queste assurde idee mi erano entrate in testa soprattutto per le persone che mi circondavano. Anne non era l'unica a essere popolare e dotata in qualcosa: c'era anche Nathan, il buono e bellissimo ragazzo dalle mille espressioni. Quel diciassettenne era un attore nato, riusciva ad entrare in qualsiasi personaggio che gli veniva affidato; era anche uno studente modello e un ragazzo dal buon cuore. Ammetto che avevo una cotta per lui alle medie, ma ero piccola e ancora non comprendevo il vero significato dell'amore.

Le ragazze del liceo ronzavano attorno a al bel biondo o a Jason, l'esatto opposto di Nathan: era ribelle, affascinante e “pericoloso”. Stranamente frequentava i miei stessi corsi cosa che mi portò a conoscerlo bene: è il classico studente vivace che ruba i compiti dai cassetti dei professori, che sta attaccato al cellulare nonostante sia nel banco attaccato alla cattedra, quello che fuma nei corridoi e amante della birra. Ma a pensarci bene, Jason era anche peggio.

Una sua abitudine che ricordo attentamente era disegnare, poco dopo le lezioni del corso di arte, strani schizzi alla lavagna, ma non ho mai prestato particolare attenzione ai suoi soggetti.

Fortunatamente quella mattinata scolastica si presentò meno faticosa del solito e, senza accorgermene, era arrivata la pausa pranzo. La mensa era sempre affollata così io, Anne e Lucy, una mia amica e compagna dei corsi di letteratura e arte, avevamo preso l'abitudine di mangiare all'esterno, nel cortile dell'istituto.

In quei minuti di pausa nascevano i discorsi più strani e quel giorno non era da meno:

“Ho sentito dire che vogliono costruire delle case fatte con le bottiglie di birra!” aveva detto Anne dopo aver bevuto un sorso della sua fedele lattina di Carling. Lucy rise mentre io sospirai pensando che Anne fosse già ubriaca mentre il pungente odore di birra mi invitava a farsi sfiorare dalle mie labbra screpolate e dalla mia gola secca.

“Ve lo giuro!”

“Una cantante professionista non dovrebbe dire queste scemenze” la schernì Lucy mentre si cacciò in bocca un biscotto.

Anne a quella risposta si alzò e intonò una canzone; in poco tempo ci ritrovammo circondate da molti studenti che ballavano e cantavano assieme alla bionda che abbracciava chiunque le si piombasse davanti.

Cercai di scappare da quella mandria di pazzi ballerini ma fu inutile, ero totalmente immersa in quel mare di persone che si sbracciava e si agitava.

Fu Lucy a salvarmi e a portarmi in un luogo isolato.

“Il mio istinto omicida si sta risvegliando “ dissi mentre fulminavo Anne a distanza.

“Che ci puoi fare, è fatta così” mi rispose Lucy sorridendo e volgendo lo sguardo verso Anne che stava saltando intonando una canzone del momento. Gli occhi erano tutti puntati su di lei e il suo sorriso era così brillante che quasi la invidiai.

“Beata lei che ha un talento” quelle parole mi uscirono all'improvviso dalla bocca senza che me ne accorgessi e, per mia sfortuna, Lucy le notò:

“Ma cosa dici Fence?”

“Niente! Sai...” quando le dissi quella frase avevo rivolto i miei occhi verso il cielo coperto da lievi nuvole grigie “Credo che oggi presenterò la mia sceneggiatura”

La mia amica si sistemò le ciocche color cioccolato e poi sorrise.

“Ma è fantastico! Quindi l'amico di tuo padre ha accettato?”

Annuì felice: mio padre, Michael Haunt, era un semplice gestore di un locale e quando gli dissi che volevo scrivere una sceneggiatura subito ne aveva parlato con un suo amico del liceo che era sceneggiatore e produttore.

Nonostante fossi molto fiduciosa mi sembrava di giocare sporco: insomma, Anne non aveva contattato un produttore ma era stata la sua voce a chiamarlo, mentre Nathan con tutti i suoi spettacoli si era fatto notare; io invece mi ero ridotta a elemosinare un vecchio conoscente di mio padre.

“Andrà tutto bene” Le parole di Lucy mi accarezzarono la mente, alleviando i miei pensieri e le mie preoccupazioni.

Fu in quel momento che Anne ritornò e dal suo colorito si capiva che stava per cadere nell'ubriachezza.

“Ragazze avete visto? Sono una vera cantante! Festeggiamo con altra birra!”

“Riprenditi “cantante”, che tra poco dovrai esibirti davanti al professore di Letteratura!” dissi colpendo la sua fronte con l'indice mentre Lucy rideva divertita.

Ormai eravamo abituate alle continue bevute di Anne prima delle lezioni pomeridiane; Lucy aveva tentato più volte di frenare Anne e il suo vizio del bere ma con scarsi risultati. E per sua fortuna non era mai entrata in classe ubriaca. Mai prima di quel giorno.

Anne rimase stordita per un bel po', dovetti coprirla più volte nelle ore successive per evitare che finisse nei casini. Quel giorno sembrava aver superato il limite.

“Johnson Anne! Le divertono molto i versi della Poesia?” Al vecchio e burbero professore Ratchet non sfuggiva mai nulla, figuratevi una ragazza dalle guance rosse bollenti e dalla risata facile. Mi chiedo ancora perché proprio quel giorno Anne dovette bere troppo.

“Professore, le chiedo il permesso di uscire per accompagnare Johnson ai servizi”

Non riesco a togliermi dalla mente lo sguardo che il vecchio mi fece dopo che gli proposi quella richiesta: di solito non temo le persone ma il professore Ratchet è l'unico uomo che mai abbia incusso timore e agitazione in me, in quel momento avrei tanto voluto tapparmi la bocca ma non potevo lasciare Anne nei guai.

Così mi ritrovai nel puzzolente bagno con Anne che vomitava l'anima e l'effetto della birra la costringeva a dire strane frasi come “Guarda un bagno!” o “Le scuole puzzano di libri!”

In quella confusione non mi accorsi che qualcuno era entrato nel bagno delle ragazze e così sentii una mano fredda cingermi la vita e mi ritrovai a respirare un forte odore di alcol. Anne sorrise e indicò l'individuo:

“J..Ja...”

Mi staccai istintivamente e senza voltarmi mi sciacquai le mani, poi mi rivolsi al nuovo arrivato.

“Jason, cosa ci fai qui?”

Il ragazzo sorrise e aiutò Anne a rialzarsi, poi diresse il suo sguardo color mare verso di me.

“Mi sembri agitata Haunt, hai paura di me?”

Odiavo quel suo comportamento: raramente ci parlavamo e quando accadeva era sempre lui a iniziare una discussione ma era sempre per un'idiozia.

“Paura? Ma per favore. Ti ho fatto quella domanda perché, sai com'è, i ragazzi non dovrebbero entrare nel bagno delle ragazze... O forse sei una donna?”

Lui rise divertito e si appoggiò alla parete mentre Anne si rintanò nel bagno e riprese a rimettere.

“Non credevo fossi così spiritosa...”

Poi estrasse un pacchetto e me lo allungò sicuro che avrei accettato.

“No... non fumo”

“Perché devi essere così perfettina? Tutti fumano...”

“Non è vero”
“Quelli che non fumano sono dei santerellini o dei poveracci”
“Non credo che una stupida sigaretta stabilisca chi sia figo o meno.”

“Fumare è da artisti...”

Rimasi in silenzio e abbassai lo sguardo e nuovamente venni circondata da una sgradevole aria di alcol. Non so perché provai tanto disgusto, amavo l'odore della birra... ma in quel momento quell'aroma era come un pugno nello stomaco.

Sbuffai.

Sul volto del moro si dipinse un sorriso vittorioso e quale miglior modo per festeggiare se non quello di fumarsi una sigaretta nel bagno delle ragazze?

“Me ne ritorno in classe...” Dissi scocciata e Jason non mi volle trattenere. Fu così che abbandonai la mia amica a quel ragazzaccio e non mi pentii. Appena rientrata in classe ripresi la mia lezione sulla Poesia inglese.

Avevo perso già abbastanza tempo.

Le ore passarono lentamente ma alla fine giunse il fatidico suono della campanella che liberò noi poveri studenti stanchi e desiderosi di immergerci nel mondo esterno.

Fu nel giardino davanti alla scuola che Anne ci raggiunse, aveva il volto completamente rosso.

“Si può sapere che è successo in quel bagno?” chiese Lucy curiosa ma anche preoccupata mentre Anne si limitava a nascondere il viso dietro a una ciocca di capelli biondi.

“Niente... niente di speciale” disse divertita.

Per qualche metro rimanemmo a parlare e a scherzare, poi le nostre strade si divisero. Dopo aver salutato le mie due amiche, mi avviai verso quello che sarebbe stato il luogo della mia sicurezza o della mia sconfitta morale.

L'ansia stava salendo e il mio cuore batteva più forte ogni volta che l'edificio diventava più grande: avevo impiegato parecchio tempo per scrivere quella storia, ogni particolare del carattere dei personaggi, ogni singola caratteristica dei luoghi e ogni battuta.

Appena entrata venni cordialmente salutata dalla segretaria che mi invitò a prendere l'ascensore e a raggiungere il piano ventisette e così feci.

Appena varcai le porte del saliscendi rimasi incantata: c'era gente che correva da una parte all'altra e discuteva sui film prossimi a uscire nelle sale cinematografiche.

Sembravo una bambina entrata in un grande negozio di caramelle e confesso che speravo di incontrare qualche celebrità.

Poi raggiunsi la porta che portava al punto di incontro con il famoso produttore.

Mi fermai per qualche istante, chiusi gli occhi e posai le mani sul petto.

Puoi farcela, anche tu meriti di riuscirci.

Dopo un bel respiro, bussai e timidamente aprii la porta. Era una stanza quadrata e le finestre circondavano tutto il lato permettendo così alla luce di bagnare l'intero ufficio e dandogli un colore chiaro e per nulla fastidioso.

“Oh, e così sei tu la famosa Allyson. Piacere, sono Derek” l'uomo, che direi avesse superato i quarantacinque anni, mi strinse con gentilezza la mano.

Dopo mi piegai in un timido inchino, presi il fatidico documento e dopo qualche ripensamento glielo consegnai. Avevo le mani sudate e mi mancava il fiato, cosa che l'occhio solerte di mio padre notò; mi mise una mano sulla spalla e mi sorrise, quel gesto mi tranquillizzò.

Avevo fiducia nelle mie capacità, in quel momento, inoltre, pensai ai “big” della scuola: Anne era una cantante famosa, Nathan era uno degli attori più richiesti della città e Jason... mi doleva ammetterlo ma anche lui aveva un talento che spiccava su tutti gli altri, era un calciatore provetto e giravano voci che avess ricevuto l'offerta di entrar a far parte della squadra regionale.

Derek leggeva attentamente ma non riuscivo a comprendere cosa stessero dicendo i suoi occhi; mai nella mia vita sentii il peso dei minuti e mai le parole mi fecero paura.

Ed ecco che arrivò la decisione, la risposta che avrebbe sciolto i miei dubbi o le mie incertezze.

Derek pronunciò il suo giudizio. E mi ritrovai persa in quelle lettere che non riuscivo a collegare insieme, dovetti ripeterle per ben cinque volte nella mia testa prima che quella frase assumesse un suono concreto e rilevante.

“È banale e prevedibile”

In quel momento non riuscii più a comprendere nulla: poteva dirmi di tutto, che fosse povera, che fosse troppo romantica, che fosse anche scritta con un linguaggio troppo semplice ma non quello... non prevedibile.

“C-come?” chiesi, ancora un po' scossa.

“Sì, insomma... Mi arrivano tutti i giorni sceneggiature come la tua. Non ci trovo niente di speciale. Scusa se te lo dico con questa franchezza ma questo testo è incompleto e non credo che questo sia il mestiere adatto a te.”

Sorrisi. Ma lo feci per trattenere le lacrime.

“Ho capito... Lo sapevo, sono una buona a nulla”

Ingoia a forza quelle parole, poi uscii dalla stanza lentamente e mentre socchiusi la porta le mie orecchie ascoltarono la voce di mio padre che mi difendeva e quella di Derek che mi criticava:

“È ancora giovane e non si è mai specializzata in questo campo! Possibile che questa storia non abbia qualcosa di positivo? Si è sforzata tanto!”
“Harry non lo dico come tuo amico, lo dico come esperto sceneggiatore e produttore. Ne abbiamo viste tante di storie come la sua. E poi ho fatto bene. È una sciocca ragazzina che crede di poter sfondare nel mondo delle celebrità per farsi notare. Ne abbiamo abbastanza di gente come lei.”

Quelle parole accesero un moto nel mio corpo che mi spinse correre, ero furiosa e scioccata. Non aveva capito niente di me, questa era la verità. Se fosse stato un bravo sceneggiatore avrebbe dovuto percepire la mia passione e quanto tenessi a quel lavoro e invece...

Ero talmente presa dai miei pensieri e dalle emozioni che mi accorsi solo dopo di aver le scale, quindi mi toccò percorrere una ventina di piani: tutte le persone che salivano o scendevano mi guardavano storti ma a me non importava, l'unico ripensamento è stato quello di non essermi scusata con un ragazzo con cui mi ero letteralmente scontrata e me ne ero andata senza dirgli niente.

Appena uscita dall'edificio, iniziai a correre più veloce, volevo raggiungere casa mia ma la velocità e il calore della tristezza mi accecarono la ragione facendomi muovere senza rendermi conto di dove stessi andando.

Fu in un istante che mi scontrai contro qualcuno e la mia folle fuga venne temporaneamente fermata.

“Che cazz..”
“Ehi! Mi sembri agitata, angioletto”

Tra tutte le persone che avrei potuto incontrare mi capitò lui, Jason Jenkins.

“Non sono dell'umore adatto per parlare, specialmente con te”

“Sai cosa faccio quando sono incazzato?”

Roteai gli occhi e cercai di superarlo ma lui, prendendomi la mano, sorrise e mi mostrò il suo inseparabile pacchetto di sigarette. Me lo cacciò letteralmente in mano.

Per un attimo rimasi in silenzio poi di scatto strinsi il pacchetto, estrassi una sigaretta e lo invitai ad accendere. Non mi importava più nulla, ero talmente persa in un continuo mescolarsi di emozioni che anche l'idea di fumare mi sembrava ragionevole.

Lui nuovamente sorrise e mi accese la ciospa.

“Aspira intensamente...”

Fece come mi suggerì Jason ma mi sentì mancare il fiato, così iniziai a tossire come una disperata.

“Novellina” borbottò lui pensando che non lo avessi sentito.

Poi aspirai nuovamente e buttai fuori l'aria: questa volta il fumo uscì dalla bocca, ripresi a farlo più volte e lui sorrideva compiaciuto.

“Una novellina che impara in fretta. Dato che hai superato la prova ti regalo l'intero pacchetto”

“Scherzi?” chiesi io, stupita dal suo intento.

“No! Serve più a te che a me, per ringraziarmi mi offrirai la tua compagnia in futuro.”

Lo guardai perplessa e lui si allontanò.

“Ciao diavoletta”

Sbuffai, ero stanca di tutti quei soprannomi. Però mentre vedevo Jason sparire tra la folla pensai al suo comportamento. Sembrava diverso dal ragazzo che vagava per i corridoi della scuola e che urtava le macchinette con violenza.

Ma la sua immagine svanì dal centro dei miei pensieri e cambiai subito argomento.

Non so perché decisi di fumare, forse perché volevo dimostrarmi forte. Inizialmente pensai di buttare il pacchetto ma poi qualcosa mi spinse a conservarlo e così mi ritrovai dieci sigarette nella borsa.

Ripresi il mio cammino verso casa ma poi cambiai idea. All'improvviso mi era venuta una grande voglia di bere, probabilmente avevo ancora in gola l'amaro di quelle parole che avevo ripetuto costantemente.

Mi fermai al bar più vicino, un piccolo locale che si trovava all'incrocio, in una traversa della grande via, non vi ero mai entrata ma il nome prometteva bene: “Faults”.

E per una volta il mio sesto senso aveva ragione: le pareti di legno illuminate dalla lieve luce delle lampade, il bancone circolare pieno di liquori e di alcolici e quell'atmosfera fredda e silenziosa davano un tocco di classe e allo stesso tempo un'aura di mistero. Mi ero innamorata già al primo respiro.

Fortunatamente non era affollato e così decisi di approfittarne e mi sedetti al bancone per ordinare. Un uomo robusto e dallo sguardo glaciale mi servì una limonata con ghiaccio, il mio elisir del tardi pomeriggio. La prendevo sempre, tutti i giorni, era diventato un rito per me.

Lasciai che la mia gola entrasse in contatto con il freddo liquido e per un attimo i miei sensi si persero nel piacere di quel amarognolo sapore.

“Non è possibile... Allyson sei tu?”

Una voce maschile distolse la mia attenzione dalla mia bevanda e in un attimo sentii crescere una forte emozione di gioia.

“Chris?”

Sul mio viso si formò un sorriso a trentadue denti e il ragazzo si avvicinò a me.

“È da tanto che non ci si vede”
“Tanto? Sono passati anni!”

Chris Wood, che si faceva chiamare Woody, era un mio vecchio amico, anzi direi compagno di giochi della mia infanzia. Anche se era più grande di me, mi piaceva stare in sua compagnia: era spiritoso, sempre pieno di idee e diverso dai bambini della mia età, forse era per questo che mi trovavo bene con lui. Giocavamo sempre al parco insieme, era il nostro punto di ritrovo.

“Ti sei fatta grande...”disse lui scrutandomi dalla testa ai piedi. “Troppo grande... sei sempre stata così alta?” chiese lui notando che ero leggermente più alta di lui.

Scoppiai a ridere e ordinai una birra per lui.

“Cosa ci fai qui? Credevo ti fossi trasferito” chiesi mentre lo guardavo con attenzione. Accidenti se era cresciuto, non assomigliava per niente al tondo bambino di dieci anni prima.
“Beh, sono tornato per romperti le scatole! Ho concluso gli studi l'anno scorso e adesso dedico il mio tempo e la mia conoscenza qua a Londra”

Mi accorsi che aveva la borsa piena di fogli e curiosa attirai la sua attenzione indicandoli

“Cosa sono?”

“Volantini... ”
“Per cosa?”

“Sono in cerca di studenti! Sono insegnante di percussioni”

Sorrisi: sin da piccolo Woody era un casinista e si ritrovava sempre a colpire qualsiasi cosa trovasse davanti. Una volta aveva fatto un piccolo concerto suonando le catene dell'altalena.

“Me l'aspettavo. Ti è sempre piaciuta la batteria. Hai trovato qualche allievo?”
“No... Ma chi può biasimarli? Sono giovane e ho poca esperienza. Non penso che si fidino”

“La gente è proprio idiota! Pensa che essere giovani sia un difetto per le professioni, non si rendono conto che la passione gioca un ruolo importante! Perché se sei giovane e non hai mai fatto un lavoro non sei in grado di fare nulla!”

Woody si accorse del mio cambiamento di voce e così si preoccupò:

“Va tutto bene?”
“Non proprio...” Lo guardai e per un attimo preferii non dire nulla; ma in quegli occhi chiari rividi quella luce sincera e brillante che mi ricordò la lealtà e la riservatezza di Woody: “Diciamo che avevo scritto una sceneggiatura e l'avevo presentata ad un esperto, ma questo mi ha detto che era banale e che io sono una sciocca ragazzina che cerca fama e ricchezze. Mi sento una merda”.

Non so come, ma in quel momento mi sentii libera di dire ciò che mi passasse per la testa, sentivo che Woody sarebbe riuscito ad aiutarmi.

“Prendila come una sfida: dimostragli che hai talento, fagli vedere la vera Allyson. A volte i giudizi della gente possono abbatterci ma è proprio questo che ci spinge a dare il meglio di noi. Dovresti...

Woody non riuscì a concludere la frase poiché mi ero alzata di scatto: erano già le sei di sera e la mia famiglia mi stava aspettando. È sempre così, quando si sta bene e si parla serenamente il tempo passa troppo in fretta.

“Scusa ma adesso devo andare. Grazie per le parole. E mi ha fatto piacere rivederti!”

“Anche a me. Comunque non sarà l'ultima!”

Gli sorrisi e mi avviai verso la porta. Poi, prima di uscire, mi venne in mente un'idea

“Mi potresti dare un volantino?”

Woody mi guardò curioso e un po' sbigottito.

“So come aiutarti a far circolare la tua richiesta. Fidati di me”

Dopo essermi fatta dare un foglio lo salutai e raggiunsi la porta. Nello stesso istante Woody ricevette una telefonata da parte di qualcuno.

“Pronto? Sì, sono io... Mi vuole incontrare? Va bene, posso sapere il suo nome?”

Dopo aver superato la porta non riuscì più a sentire ma in quel momento mi importava poco: il mio unico pensiero era arrivare a casa per finire quel lavoro.

Dopo una lunga camminata raggiunse la periferia dove si trovava il mio appartamento: era isolato e circondato sempre da un dolce silenzio e da aiuole ricche e colorate, per questo lo adoravo.

Appena entrai in casa venni accolta dal mio gattino Jin e dalla sua buffa chiazza color caffè sulla parte sinistra del muso, in seguito dagli scherni di mio fratello maggiore Leonard.

In quel momento però non avevo voglia di parlare, sia perché ero ancora abbattuta per la sceneggiatura sia perché dovevo completare il mio “progetto”.

Così mi precipitai in camera e ripresi il documento che avevo lasciato incompiuto.

Amavo la sceneggiatura ma non era il solo stile che sapevo trattare, anzi, primeggiavo particolarmente nel testo argomentativo e giornalistico: fu così che trovai un posto da giornalista di una rivista, ma nessuno lo sapeva, né i miei “colleghi”, né le mie amiche e neppure la mia famiglia. Solo il direttore ne era a conoscenza. Aveva indetto un contest il cui premio era un posto nella redazione e uno spazio da usare nel blog e nella rivista e io, per diletto e per curiosità, provai e riuscii a vincerlo. Preferii però evitare di espormi troppo così chiesi al direttore di non rivelare il mio nome e lui stranamente accettò.

Era un segreto che custodivo gelosamente.

Senza che gli altri se ne accorgessero raccoglievo informazioni, silenziosa e attenta: ero sempre presente alle assemblee e agli eventi importanti così da poter trovare una notizia interessante da condividere con i ragazzi.


 

Il mio nome d'arte era Ice, poiché nel giorno del mio compleanno cadde una grande quantità di neve e fu uno dei giorni più freddi della storia. Non so, lo trovavo perfetto.

Mi piaceva tanto scrivere: avevo costruito molti articoli ed erano tutti differenti. Principalmente mi occupavo di gossip, di musica e di consigli dai cosmetici alla cucina.

Insomma mi ero creata un personaggio da condividere con gli altri; a volte ricevevo delle email di ringraziamento e molti consigli su come migliorare e la cosa mi faceva stare bene.

Ice era diventata reale.

Mentre concludevo l'articolo sul Museo della Città e ritoccavo la ricetta di un piatto, creai un piccolo spazio per il volantino di Woody, così che tutti potessero vederlo e, chissà, magari qualcuno si sarebbe interessato.

Mia madre bussò più volte ma ero così concentrata che non la sentii. Quando scrivevo entravo come in trance e per questo chiudevo a chiave la stanza in modo che nessuno mi disturbasse. I miei non si preoccupavano: c'era sempre un rumore di dita che pigiavano con rapidità i tasti e dei borbotti che uscivano dalla mia bocca senza che me ne accorgessi quando lavoravo, perciò sapevano sempre cosa stessi facendo.

“Per questo motivo vi consiglio di fare un salto domani al Museum of London e di osservare con particolare voglia la mostra di foto degli anni '60/'70. Non vi sale l'euforia a pensare di immergervi nel passato e di percepire i volti, i fatti e le strabilianti mode di allora? A me tanto!

Gli orari li troverete di seguito.

Mi raccomando fateci sapere la vostra opinione.

A presto,

la vostra Ice”


 

Bastò un click e in un attimo il mio articolo sarebbe stato aggiunto online sul giornale locale.

Fu in quel momento che abbandonai la mia stanza per prendermi il caffè post-lavoro ma, come una sciocca, mi dimenticai che in quel modo avrei avuto contatti con qualcuno, cosa che avrei preferito evitare.

E invece le cose non andarono come speravo. Incontrai mio padre proprio davanti alla mia stanza. Il suo sguardo severo non prometteva niente di buono.

“Hai idea di che ore sono?”

“Sono solo le dieci, papà. Non puoi farti sempre dei problemi per me, faccio quello che voglio”

“Sono le tre e quaranta di notte...”

Cazzo...

Non era la prima volta che restavo sveglia fino a quell'ora, anzi era diventata ormai un'abitudine, la cosa che mi spaventava era che non me ne rendessi conto.

“Si può sapere cosa fai chiusa in quella stanza?”
“Niente di importante...” disis a bassa voce.
“Allyson!”

“Niente di importante! Ormai quello che faccio non è importante! Perché sono prevedibile e banale! Perché sono un'egoista!” gettai le parole fuori come se fossero delle bombe d'aria, non riuscivo più a trattenere quello che pensavo.
“Smettila di fare la bambina... ha detto così perché è il suo lavoro”
“Poteva almeno risparmiarsi quei termini!”

“Non tutto va sempre per il verso giusto, Allyson. Devi capire che ci sono le volte in cui si esce sconfitti.”
“Io sono sempre sconfitta!”

Non avevo mai urlato così. Eppure volevo sfogarmi, volevo gridare quello che stavo provando e niente mi poteva fermare.

“Secondo te i grandi sono partiti con la strada già asfaltata? No! Tutti la prima volta falliscono! Hanno dovuto percorrere un tratto in salita e pieno di ostacoli, solo dopo aver mostrato il loro vero valore hanno trovato la strada liscia e percorribile! Non puoi abbatterti per uno stupido commento!”

Ancora oggi mi vergogno di quella patetica scena: mi ero comportata come una bambina egoista e viziata. Avevo fatto una figura terribile davanti a un uomo straordinario.

Mio padre usava sempre il paragone della strada, sembrava trovarci gusto a dirmelo.

“Lo so bene, non c'è bisogno di fare i filosofi papà. Tranquillo, adesso la smetto di fare la stolta.”

Mio padre sorrise capendo che il mio orgoglio mi impediva di dirgli 'Grazie' o di mostrare qualsiasi tipo di debolezza come un abbraccio o un bacio.

“Buona notte, Harry” dissi io mentre ritornai in camera.

Non so cosa fece in seguito mio padre, ma lo sentii allontanarsi dal corridoio.

Mi accasciai sul letto e in un attimo venni circondata dal forte calore del piumone mentre all'esterno il vento cavalcava tra i rami degli alberi creando un suono profondo e tetro.

Mi abbandonai al sonno tormentato da strani sogni e anche presentimenti insoliti.

Una strana forza mi spingeva a pensare che sarebbe accaduto qualcosa.

Ancora non sapevo che le mie giornate si sarebbero movimentate...


 


 


 


 


 


 


 

La tana del sogno

Salve Fandom dei Bastille, sono tornata.

So di aver già scritto questo storia però ho voluto postarla nuovamente perché volevo cimentarmi in questo progetto (e anche perché una mia amica l'ha richiesta);

ho modificato alcune parti e anche la storia prenderà una piega diversa, quindi i Bastille arriveranno prima del previsto ;)

Eccomi con il primo capitolo che fa anche da prologo. Ora conosciamo gli amici e la vita di Allyson, studentessa e 'giornalista' di una piccola rivista e del giornale scolastico.

Ed è entrato in scena il nostro amato Woody!

Dato che sono una tipa che fa sempre degli errori, vi sarei grata se me li faceste notare.

Spero che sia stata una piacevole lettura! Grazie a chi passa!

Buona settimana a tutti

Y.K


 

"Con questa mia storia non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di questa persona, nè offenderla in alcun modo"
   
 
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