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Autore: Emera96    31/07/2014    8 recensioni
Come si spiega un bacio su cui ti sei soffermato a fantasticare così tante volte da non riuscire più a tenere il conto? Come descrivi il rumore dei tuoi pensieri che, come in tilt, non smettono di rimbalzare da un angolo all’altro della tua testa, piccole molle alticce perse in un respiro lieve?
Le labbra di Matteo, seppur addormentate e socchiuse in un piccolo cerchio perfetto, sembrano ricambiare l’errore che non sa fermarsi, un errore di cui potrò darmi la colpa e il merito finché la memoria me lo consentirà. Il fuoco che stava per spegnersi sembra bruciarci fino alla morte, quando il mio corpo si appoggia con leggerezza al suo, in un accostamento che va oltre al dormire col proprio amico, che assomiglia più a quello che, di solito, Matteo fa con Elena. Le mie labbra, avide di un piacere succoso, divorano con dolcezza la stanchezza alcolica di Matteo, la sua calma che non riesce a placare la mia insistenza. Il suo sonno che arriva solo a risvegliarmi.
Il nostro, il mio bacio dolce sancisce una promessa fatta a me stesso, una promessa che non sono mai stato capace di mantenere: niente più dolore.
Genere: Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
Capitoli:
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Capitolo 1

 

 

 

«Edoardo, svegliati.»

La voce sottile di mia madre mi scrolla, ricordandomi in un solo momento che giorno è oggi. Oggi inizia la scuola. Non per me, ovvio. Non puoi permetterti di sognare un futuro diverso da quello che hanno già deciso per te, se fai parte di questa famiglia. Non puoi minimamente pensare di apprendere quelle poche nozioni in più che ti farebbero spiccare il volo verso la vetta della tua personale montagna di sogni, quel monte voluminoso che ti è concesso solo guardare da lontano.

Per me scalare quella montagna e toccarne la cima sarebbe la realizzazione di tutte quelle parole che metto insieme, senza star attento all’ordine. Parole che raccolgo negli angoli del ripostiglio, nella polvere di una delle mie mensole stracolme di libri. Ma sono un lusso che non posso permettermi.

«Mamma, perché mi hai svegliato? Tanto a scuola non ci vado più.»

Ancora spossato dal sonno, vedo gli occhi verdi di mia madre che si alzano verso il soffitto, gesto che fa abitualmente quando è stufa di qualcosa. Gesto che, negli ultimi diciotto anni, ha ripetuto infinite e infinite volte.

«Ieri sera mi avevi detto di svegliarti, perché volevi accompagnare Matteo a scuola. Ma dove hai la testa? Fai come vuoi, io adesso devo andare a lavoro.»

Le sento sussurrare l’ultima frase, con quel tono spaventato e un po’ scocciato che nasconde un segreto. Un segreto che, se attraversasse la parete e arrivasse in cucina, potrebbe essere la causa dell’ennesima serata sbagliata.

Quelle ore in cui vorrei solo scavare un tunnel sotterraneo per andare in quella che tutti chiamano famiglia.  In una famiglia vera. Una famiglia senza angoli bui, senza segreti inconfessabili. Una famiglia dove non dovrei preoccuparmi di ogni respiro che faccio. Un altro sogno non concesso, tenuto stretto tra i denti per non farlo trapelare. Un’altra montagna da scalare in solitario, coperta dalla vergogna di doversi nascondere agli occhi della persona che hai promesso di amare.

«Ah, lo avevo dimenticato. Ci vediamo a pranzo.» dico, alzandomi e poggiando il peso su un gomito e stampandole un piccolo bacio sulla guancia.

Prima di andarsene mi regala un sorriso. Era da mesi che non la vedevo sorridere davvero.

La sveglia accanto a me, praticamente nuova, segna il mio ritardo con chiarezza. Veloce come mai prima, ma in ogni caso attento a non creare troppo scompiglio, prendo i vestiti del giorno prima, appoggiati sulla sedia in completo disordine. E perché agghindarsi? Oggi sono di troppo, oggi non dovrei nemmeno esserci. Maledetto Matteo e maledetta forza di volontà che viene sempre a mancare. Infilo i jeans sdruciti senza neanche provare a dar loro una piega decente, e in tutta fretta metto la maglietta bianca che l’anno scorso Matteo mi ha regalato per il compleanno. Consapevole che nemmeno un cartellone con scritto sopra quel che vorrei dire, che vorrei urlare, sarebbe capace di attirare la sua attenzione. Un fantasma al quale passerebbe attraverso, mano nella mano con Elena.

Preso dalla frenesia e dalla paura di far tardi, come mio solito, mi accorgo appena di qualcuno che, dall’altra parte della porta, sta bussando. Tre tocchi e un piccolo singhiozzo. Non ci sarebbe neanche bisogno di aprire la porta, ma lo faccio. Un metro o poco più, il dito in bocca come sua abitudine, una cascata di capelli biondissimi che le ricadono fin sotto alla schiena, lisci come spaghetti, con qualche piccolo ricciolo in fondo. Gli occhi, verdi chiari come quelli della madre, sono impregnati di lacrime, guardano da una parte all’altra senza fermarsi. Ha quell’aria dolcemente spaventata che, in cinque anni, ho imparato a riconoscere. Una serie irregolare di singulti le scuotono il corpo esile, una bambolina in miniatura: così fragile e delicata che, se la stringessi troppo, avrei paura di romperla.

«Edo, io paura.» le sento dire con voce flebile, il piccolo cuore che corre all’impazzata dopo un qualcosa che sembra averla spaventata a morte. O qualcuno.

«Piccolina, che è successo?» le chiedo. Mi inginocchio per vederla da vicino.

«Papà è arrabbiato, ha la faccia tutta rossa!» mi spiega velocemente, piangendo.

«E che ha fatto papà?» le domando con dolcezza, accarezzandole il viso umido.

 «Ha fatto male alla mamma… Edo, ho paura!»

«Tesoro, lo sai com’è papà, dopo gli passa tutto. Io adesso devo andare a scuola con Matteo, tu mi prometti che torni a dormire e non piangi più?»

Accompagno la mia richiesta con un buffetto sulla guancia, scherzoso. Alice annuisce con convinzione, scuotendo un po’ la testolina bionda.

«E fammi un sorriso, che le principesse sorridono sempre.» le sussurro piano all’orecchio, intento nel non svegliare l’energumeno accalorato e rabbioso sdraiato sul divano. Quell’uomo che, convenzionalmente, dovrei identificare come mio padre.

«Quando sarò grande come te, io sarò una principessa e tu un principe!» ribatte allegramente Alice, asciugandosi le lacrime con una mano.

Torna, sulla punta dei piedi per non fare rumore, nella cameretta, voltandosi appena prima di entrarci per mandarmi un bacio con la mano. E in quel momento la sola cosa che chiederei come ultimo desiderio ad un ipotetico genio della lampada, sarebbe vedere quel volto sorridente lontano dalla cattiveria e dalle mani pesanti di quell’uomo. In una famiglia vera, in cui i segreti sono piccoli e innocenti, in cui la sera è normale vedere la televisione tutti insieme o parlare della propria giornata, e non andarsi a nascondere per evitare la furia del suo componente principale. Ma sono troppo in ritardo per fantasticare.

Corro con passi piccoli e veloci verso la porta, concedendomi un’occhiata rapida alla cucina, per essere sicuro di una relativa pace fin quando non sarò tornato: il silenzio regna in ogni metro quadrato della casa. Unica eccezione è il respiro lento e pesante di mio padre che, sudato e rosso in volto per le troppe bottiglie scolate la sera precedente, dorme scompostamente sul divano, bizzarro in giacca e cravatta e con quell’odoraccio che ormai riconosco al volo cosparso su tutto il corpo grassoccio.

Sento il telefono vibrare nella tasca dei pantaloni, come a volermi ricordare il mio ritardo spropositato. Rispondo alla chiamata, pronto a sentire la voce di Matteo all’altro capo che sbraita per la mia perenne lentezza.

«Ma dove sei finito? Fra venti minuti chiudono i cancelli! Sei sempre il solito. Io fra cinque minuti parto con la macchina. Ah, c’è anche Elena. A dopo!» dice, tutto in un fiato, prima di riattaccarmi in faccia senza troppe spiegazioni. Come al solito.

Ormai abituato alla sua fretta e alla mia lentezza che, ai due poli opposti, invece di completarsi a vicenda finiscono spesso per scontrarsi, inizio a correre. È buffo come la maggior parte del tempo, in vita mia, io mi sia ritrovato a correre: correvo da piccolo, dopo qualche mese appena che avevo imparato a reggermi in piedi. Correvo via da mia madre che, al culmine della felicità quando la casa era libera ed eravamo soli, mi inseguiva in giro senza stancarsi mai. Non c’erano “se”, non c’erano le scuse ricorrenti della stanchezza, del poco tempo, della poca voglia o del dovere morale di far silenzio. C’erano un bambino e una giovane donna, nella loro personale fiaba. Nessun mostro sotto il letto o sul divano. Correvo qualche anno dopo, quando i mostri avevano iniziato a venire fuori e ad essere una presenza fissa in casa nostra, insieme a Matteo, nel giardino di casa sua. E adesso corro incessantemente, ma non dietro alle persone, al cane dei vicini che non la smette di abbaiare, non dietro ad una sorella piccola che vorrebbe giocare con me tutto il giorno: corro dietro alle occasioni in bilico, alle persone che stanno appese ad un filo sottile, ai ricordi che non saresti in grado di replicare.

Corro dietro a cosa non c’è, a cosa c’è stato e non tornerà più indietro.

Corro dietro all’astratto, a ciò che non puoi toccare, sentire, gustare. A cose o persone che non staranno ad aspettarti in eterno, che devi essere abbastanza svelto da acchiappare. C’è chi rincorre i treni in ritardo, chi l’amore e chi un sogno.

Io rincorro quel tipo di occasione che non ti darà una seconda possibilità. E so che se non mi sbrigo, una persona non aspetterà certo me per iniziare l’ultimo anno di liceo. A maggior ragione se in dolce, dolcissima compagnia.

Non posso dire di odiare Elena. L’odio è qualcosa di enorme, che ti spinge alle azioni più sconsiderate e spregevoli senza che tu te ne possa accorgere. Io sono più un tipo che disprezza: sono capace di fingere un sorriso, magari parlando con la persona interessata per qualche minuto, ma di covare dentro tutto il male che mi passa per la mente. È un sentimento aspro, che finisce per incenerire quel briciolo di bontà che ancora ti rimane e che si accende nel momento esatto in cui incroci lo sguardo della persona scatenante il sapore dell’amaro in bocca. La cura? La sopportazione.

Ma come sopportare la vista di quel visino irritabile che si avvicina con pathos, e che si butta sul volto che fino ad un giorno fa era tuo?

Come sopportare le loro mani intrecciate? Le mani di Matteo nei capelli di Elena? Il momento in cui lui la solleva di qualche centimetro da terra?

L’apice è quando lei lo bacia davanti a me, come a sottolineare a chi appartiene chi. Come se non lo sapessi già abbastanza bene da solo e senza il suo contributo.

«Alla buon ora!»

La voce squillante di Elena mi scuote dai miei pensieri fitti.

E quel trillare fastidioso, incredibilmente simile al rumore di un paio d’unghie lunghe che graffiano una lavagna, mi ricorda perché non ho ancora capito cosa Matteo ci trovi in lei. Un bel culo? Un bel corpo? I bei capelli? Gli occhi grandi e celesti? Le gambe slanciate, le braccia esili? La solita lista della spesa. Le caratteristiche di una vecchia barbie, passato da un pezzo di moda. Una barbie che, personalmente, butterei nel primo cestino disponibile.

«Scusate, a casa c’era il solito casino e ho fatto tardi.» cerco di giustificarmi con Matteo, ignorando volutamente lo sguardo impertinente e scocciato di Elena che mi squadra da capo a piedi senza alcun ritegno. Salgo in macchina e cedo con finta galanteria il posto dietro ad Elena, che è così costretta ad allontanarsi da Matteo. Le rivolgo un sorriso forzato, e mi volto verso Matteo che, nervoso e a tutta velocità, tiene le mani ferme sul volante in una corsa folle contro il tempo e il traffico del lunedì mattina. Senza dire una parola mi guarda facendomi capire, senza doverlo dire esplicitamente, che sarebbe bello se almeno provassi a non essere così apertamente odioso nei confronti di Elena. Senza aprire bocca a mia volta, alzo gli occhi al cielo com’è solita fare mia madre quando dico la cosa sbagliata al momento sbagliato, facendo intendere il mio rifiuto alla sua proposta silenziosa. Ed è proprio Elena ad interrompere quel taciturno scambio d’opinioni.

«Che è ‘sto silenzio? Avete litigato?» squittisce lei, da una parte speranzosa nell’intonazione della domanda, dall’altra mostrandosi interessata, fingendo.

«Ma no, è una cosa che facciamo sempre. Non puoi capire.» rispondo sbrigativo io.

«Ah, certo, io non posso mai capire.» ribatte Elena offesa, mettendo su il broncio come mia sorella, che è almeno giustificata dalla sua tenera età per i suoi capricci, e rintanandosi nel sedile dietro, a braccia conserte.

I capelli, originariamente castano scuro, diventati biondo chiaro qualche settimana fa in contrasto, almeno secondo me, con la sua carnagione olivastra, sono legati in una treccia lunghissima, che le arriva fino a metà schiena e ondeggia lievemente da una parte all’altra. Come se il nervosismo le passasse direttamente nei capelli lunghi, che si trasformano in milioni di fili elettrici pronti a fulminarmi da un momento all’altro. Pronti ad eliminare l’unico ostacolo tra lei e Matteo, l’unica persona che non si limita a guardarli sognante, invidiando chi lui e chi lei. L’unico a non averla mai davvero apprezzata.

«Veramente io…»

«Quello che Edoardo intendeva, è che spesso ci capiamo senza parlare. Magari ti può sembrare strano. Era questo che volevi dire, vero, Edo?» mi interrompe bruscamente Matteo, cercando di non creare l’ennesimo litigio e dandomi un’occasione per rimediare.

«Sì, è più o meno come hai detto tu.» rispondo meccanicamente io.

C’è una lunga pausa, un silenzio imbarazzante ogni tanto interrotto da un melodrammatico sospiro proveniente dal sedile posteriore, o dalla musica particolarmente alta di una macchina truccata che ci sfreccia accanto nel traffico.

«Ieri pomeriggio ho fatto un sogno stranissimo, sapete?» inizia a dire Matteo.

«Che hai sognato?» chiedo subito io, incuriosito dalla precisazione di Matteo.

Ieri pomeriggio? Ma intende il momento in cui stava dormendo a casa mia? Il momento in cui mi ha fatto amare la sua incapacità di reggere l’alcool?

«È stato quando mi sono addormentato a casa tua, Edo. Non so se sia stato l’effetto dell’alcool, o la stanchezza assurda che avevo addosso. Non lo so proprio. Ma era strano, non so neanche descriverlo bene a parole.» inizia lui, a stento.

«In ogni caso, ero in una stanza bianca, senza niente sui muri, sul pavimento, niente di niente. Ero disteso su un letto e anche nel sogno dormivo.»

Il racconto di Matteo è bruscamente interrotto.

«Che vuol dire anche nel sogno? Dove stavi dormendo, scusa?»

Il tono che Elena usa per porgere la sua domanda è tutto fuorché comprensivo. Il tono di una donna che vuole il suo uomo tutto per sé.

«Ero a casa di Edo, avevo bevuto un po’ troppo. In ogni caso… dormivo, ma ero cosciente di quello che stava succedendo intorno a me, però non riuscivo ad aprire gli occhi per controllare la situazione. Mi sentivo in trappola, come se qualcuno mi stesse tenendo prigioniero chissà dove.»

«Come quando hai un incubo e non vedi l’ora di svegliarti.» aggiungo io.

«Sì, esatto. Ad un certo punto, sento un rumore di passi. Ed era così reale che mi sembrava di sentire davvero tutto. Improvvisamente, sento una mano fare pressione sul mio braccio, come se mi stesse accarezzando. E in quel momento apro gli occhi. Nel sogno, non in realtà. E cosa vedo? Una figura senza volto, con lineamenti confusi.» continua a raccontare Matteo, mantenendo gli occhi sulla strada. «E questa figura si avvicinava sempre di più, sempre con un fare dolce e gentile, e all’improvviso mi bacia. Così, dal nulla. Ma non mi sentivo strano, o in trappola come quando avevo gli occhi obbligatoriamente chiusi. Mi sentivo a casa. Come quando capisci qualcosa dopo tanto tempo e ti senti più leggero. Non so spiegarlo. So solo che quando mi sono svegliato sorridevo.» conclude.

Nel momento esatto in cui Matteo finisce di raccontare, mi accorgo che sto sorridendo anche io, di uno di quei sorrisi che sembrano tirarti la faccia fino ad allargarla in ogni direzione. Quei sorrisi che ti si attaccano e non riesci più a mandare via, che ti fanno vedere un mondo storpiato, ma nel verso giusto. Cerco di tornare serio per non attirare una delle domande stupide di Elena.

«Voi sapete che può significare?» chiede curioso Matteo.

«L’ho cercato su Google mentre raccontavi. Qui c’è scritto che sognare qualcuno senza volto o con lineamenti poco chiari è molto ricorrente, e rappresenta qualche elemento della nostra realtà che ci sfugge e che sarebbe bene invece conoscere. Possono essere anche persone esistenti a cui dovremmo dare più attenzione, o almeno così c’è scritto in questo sito. Non è che mi nascondi qualcosa?» chiede sospettosa Elena, rimettendo bruscamente il cellulare in tasca.

«Ma che stai dicendo? Dai, Ele, ma scherzi?» risponde al volo Matteo, visibilmente irritato dai sospetti, apparentemente infondati, della sua ragazza.

Che sia la volta buona? La volta in cui capirà davvero accanto a chi si è messo? La volta in cui un bel culo e una risatina acuta non basteranno ad incantarlo?

«Vorresti negare che passi più tempo con lui che con me? Dai, siete peggio di una coppia sposata: dove va uno, va anche l’altro. Se uno sta male, va a casa dell’altro che gli sta dietro finché non torna in piedi sulle proprie gambe. Vivete in simbiosi. E io starei dicendo cose strane? Non prendermi in giro. Lo hanno già fatto in tanti, prima di te. Io non devo essere seconda a nessuno.»

Il tono di voce, non più lezioso e provocante bensì scocciato e quasi ferito, dà al discorso fondamentalmente stupido di Elena un peso maggiore di quello che anche lei stessa avrebbe potuto immaginare. Non siamo due ragazze, che vanno pure in bagno insieme. Eppure, per chi ci vede dall’esterno, questa vicinanza rasenta i limiti dell’ossessione, di quella cosa di cui mi vergogno e che continuo a tenermi dentro, per non far scoppiare una bomba appena innescata da Elena. È davvero così strano avere un migliore amico del tuo stesso sesso? Ed è davvero così assurdo passarci così tanto tempo insieme? Nessuno risponde, nessuno controbatte, nessuno osa contraddire questa tesi.

«Ele, puoi scendere un attimo dalla macchina? Vorrei parlare con Edoardo. Da soli, se non ti dispiace.» chiede stordito Matteo, invitando Elena ad uscire con un gesto della mano. Elena, senza scomporsi e senza azzardare ulteriori domande, lascia la borsetta sul sedile ed esce dalla macchina di Matteo con tutta calma.

Ora sì che i nodi vengono al pettine.

«Le credi, non è così?» inizio immediatamente io, per non lasciare spazi vuoti.

«Non è così semplice, Edo. Non è mai stato semplice, lo sai.»

«Non pensavo sarebbe andata a finire in questo modo.»

«E chi ti dice che sta finendo?»

Un sorriso incerto si apre sul volto di Matteo, gli occhi brillano di quella complicità che non vedevo da mesi, ormai. Quel qualcosa che solo io e lui sappiamo e sapremo.

«Scusami, ma proprio non ti seguo.»

«È semplice. Elena non ti sopporta, tu non la sopporti.»

«Fin qui ci arrivavo anch’io.» sentenzio sarcastico.

«Lei è gelosa, perché a suo dire quando siamo tutti e tre insieme, lei diventa il terzo incomodo, e tu sai che dovrebbe essere il contrario. D’altra parte, ti conosco da quando ne ho memoria, è inevitabile che con te basti un’occhiata per capire quel che vorresti dirmi. Io amo Elena. La amo davvero, e so che non riesci a capirne il perché, ma è così. Ma non ho intenzione di scegliere tra te e lei.» spiega Matteo, paziente.

«Arriva al punto, prima che alla tua ragazza crescano i capelli bianchi.»

«La soluzione è semplice. Tu adesso rimani con noi, io e lei andiamo a scuola, e tu ritorni a casa. Da domani, quando io sono con te, lei non ci sarà, e viceversa. Non sopporto più questi litigi e questi dubbi inutili.»

La naturalezza della sua spiegazione, così chiara e lineare, mi lascia senza parole. Come ho potuto avere anche solo il minimo dubbio su di lui?

«Posso farti un paio di domande, prima di farla risalire?» chiedo, curioso.

«Certo. Ma sbrigati, non voglio far tardi il primo giorno.» risponde lui, di corsa.

«Perché proprio lei? Insomma, di tutte le ragazze carine che hai in classe. Perché Elena e non qualcun altro?» domando, esprimendo un dubbio lungo sei mesi.

«Non so spiegarlo, Edo. È come quel bacio così strano e assurdo nel sogno di ieri: era strano, non era da me e non so dargli una spiegazione, ma aveva quel senso illogico capace di farmi impazzire. Elena mi dà alla testa. Tu la vedi come una smorfiosa, come una bambola, ma c’è di più: c’è una ragazza che è stata presa in giro da chiunque e che ha paura di iniziare una storia nuova. È una ragazza piena di sfaccettature, da una parte provocante, dall’altra impaurita, mai del tutto sicura di quello che cerco di dimostrarle, tanto che si ritrova ad essere intimidita dal mio rapporto con te, che sei solo mio amico. È il mio opposto, ma le sue mancanze si incastrano coi miei punti forti.»

Solo adesso capisco quanto le parole, pur nella loro bellezza, possano far male. Come una domanda voluta proprio da me sia in grado di spezzarmi. Come una coltellata alle spalle, ben piantata in mezzo alla schiena, sarebbe stata capace di scalfirmi in minor misura. Me la sono cercata, ma non mi sarei aspettato certo una risposta così a cuore aperto. La ama. La ama davvero. Non è la storiella di qualche mese, di cui ricordi le prodezze con gli amici, sminuendola a rendendola una semplice avventura, una “ragazzata”, come direbbe mia madre, ricordandone i suoi momenti goliardici. Ha trovato quella giusta per lui. Quella che, ho paura, non farà che allontanarmi ulteriormente da Matteo. Quella che non saprò combattere con un’uscita fuori e un boccale di birra chiara. Quella che mi spaventa e che non fa che aumentare il ricordo di quel bacio rubato.

«Che altro volevi chiedermi?»

«Volevo sapere di più di quel sogno che hai fatto.»

«E perché scusa? Ho detto qualcosa mentre stavo dormendo?»

«No, non è per quello.»

«Tu mi stai nascondendo qualcosa, vero?»

Adesso sono ad un bivio: cadere da quel filo invisibile che per anni ha tenuto in equilibrio il nostro rapporto, spiattellando tutto a Matteo, o continuare la mia camminata su quel filo sottile, fingendo e raccontando l’ennesima balla? Rischiare e fallire o mentire ancora? Amore, o quel che sarebbe, o amicizia.

«No, ero solo curioso. Che dovrei nasconderti?» dico io, sulla difensiva.

Prima che Matteo possa replicare, mandando all’aria una delle mie scuse patetiche, sentiamo Elena bussare al finestrino della macchina, come a voler attirare l’attenzione. Matteo, in tutta risposta, abbassa il finestrino.

«Che c’è? Successo qualcosa?» chiede Matteo, ancora assorto nella nostra conversazione di appena un minuto fa. Per una volta almeno, Elena ha interrotto un discorso al momento giusto. La ringrazio silenziosamente, consapevole della sua fretta di arrivare a scuola per far sfoggio di qualche bacio davanti a tutti.

«No, nulla, ma tra dieci minuti suona la campanella e sai che non voglio arrivare tardi proprio oggi. Già i prof non mi sopportano, se arrivo anche in ritardo il primo giorno…» insiste Elena, col tono petulante di chi non ammette repliche a ciò che dice. Matteo, arrendevole quanto stupito da come il tempo sia passato in fretta, la fa salire e ingrana subito la terza, a tutta velocità.

Fin da quando eravamo piccoli, due minuscoli bambolotti di poco meno di un metro che giocavano insieme con le macchinine, era sempre stato lui quello attento. Lui, quello più bravo a scuola. Lui, quello più negato negli sport per la troppa pigrizia, nonostante il fisico atletico e i muscoli scolpiti che le ragazze si perdevano ad ammirare nell’ora di educazione fisica. Lui era sempre stato quello che saltava all’occhio, nonostante facesse di tutto per starsene per conto proprio. Ma non ci riusciva, e non ci riesce tuttora. È qualcosa che va oltre lui stesso. Era quel tipo di ragazzo che, per un motivo o per l’altro, diventava l’esempio per qualche ragazzino disastrato che in lui vedeva un modello da imitare. E Matteo, nonostante la perenne stanchezza che si porta addosso da sempre, trovava sempre un minuto, che spesso diventava un pomeriggio intero, da dedicare a quel ragazzino.

Probabilmente per ingannare l’attesa, Elena spezza quel breve silenzio col sottofondo di una vecchia canzone appena trasmessa in radio, con una delle sue domande.

«Ma voi come vi siete conosciuti?»

Decido di rispondere io, visto quante volte Matteo ha dovuto raccontarlo.

«Le nostre madri andavano al liceo insieme. Ma dopo la maturità si persero di vista, perché mia madre iniziò subito a lavorare, mentre la sua frequentò l’università più vicina. A quei tempi non c’erano telefoni, e se due persone smettevano di vedersi era difficile poi rintracciarle. Per caso, si sono rincontrate. E sai dove? In sala parto.»

«In sala parto?» chiede sbigottita Elena.

«Io e Matteo siamo nati nella stessa clinica, lo stesso giorno. Si misero a parlare, e anche se in un primo momento non avevano capito chi avevano di fronte, poi compresero di essersi ritrovate. E da quel momento, hanno fatto sempre stare me e Matteo insieme, fin da piccolissimi. Io però dall’anno scorso ho smesso di andare a scuola, ma come puoi vedere continuiamo a vederci fin quando possiamo.»

«Oddio, sembra la storia di un film, quella delle vostre madri. Matteo non me ne aveva mai parlato. Ma quindi loro sono ancora amiche?» chiede Elena, affascinata da quella storia così simile a quella di un banalissimo romanzo rosa.

«Sì, però non si vedono più tanto spesso. Sono entrambe molto impegnate, e non riescono a trovare del tempo per loro molto facilmente. Infatti sono contente di vedere me e Matteo così amici, perché ricorda loro quel che erano al liceo. È come se si rivedessero in noi. È strano, non saprei come spiegarlo.»

L’attenzione di Elena si sposta rapidamente sull’ingresso della scuola, zeppo di studenti di tutti le età. Seppure sia un modo cinico di vedere le persone, ogni anno, il primo giorno di scuola, il cortile sembra trasformarsi in una vetrina dello zoo. Sarà l’invidia, perché non potendo più andare a scuola non so che darei per stare al posto di uno di quelli che si lamentano perché ci sono obbligati. Come in uno zoo, adesso in cortile ci sono persone di tutte le specie, alle quali si aggiungono con nonchalance anche Matteo ed Elena che se ne vanno mano nella mano, rivolgendomi a malapena un saluto, poiché troppo impegnati a dar sfoggio di quel che sono: la nuova coppia dell’ultimo anno da invidiare a tutti i costi.

Ci sono quelli del primo anno, che come dei cagnolini scodinzolano a quelli più grandi, per non essere sbattuti subito in un angolo ed essere additati come sfigati. Ci sono le ragazze popolari, che siano di prima o di quinta, le cosiddette “oche”: così come l’animale dal quale prendono il nome, sono particolarmente stupide, camminano dondolando, o meglio sculettando, e spesso hanno quella voce particolarmente irritante e stridula, che assomiglia in modo impressionante a quando le oche starnazzano. Ovviamente, considero anche Elena parte della categoria. Poi ci sono i corrispettivi delle oche, ovvero i “galli”: di questa parte dello zoo fanno parte tutti quei ragazzi pieni di gel, che spesso si vantano di quanto siano lenti a scegliere i propri vestiti la mattina, surclassando anche le famigerate oche. Da una parte, nell’angolo più buio, ci sono gli “orsi”: così chiamo quei ragazzi, e quelle ragazze a volte, che se ne stanno in disparte semplicemente per pigrizia, con lo sguardo perso nel vuoto, spesso con una sigaretta consumata in mano. Poi la specie che ho sempre disprezzato di più: i “vermi”. A questa categoria può appartenere chiunque, e spesso riesce a ingannare le altre specie. Sono quegli individui infimi, inaffidabili, viscidi e arrendevoli quanto cattivi. Sai che potresti schiacciarli ma non lo fai mai. Perché? Perché questo gruppo vive solo grazie ad un fattore, che sta alla base della loro vita: la pietà. Queste persone campano letteralmente grazie alla pietà di tutti gli altri, professori e preside compresi. Basta un accenno alla loro vita personale, un finto svenimento o qualche lacrima, e chiunque si ritrova piegato al loro volere. Se c’è qualcosa che decisamente non mi manca della scuola, è quest’insieme di persone. Riuscivano a disgustarmi semplicemente battendo ciglio. Un vero e proprio talento, devo dire.

Prima di andarmene sul primo autobus, vedo Matteo ed Elena che, prima di varcare il grande portone del liceo, si concedono uno dei loro momenti di grande spettacolo: Elena, leggera e spumeggiante nel suo vestitino a fiori, che le copre a malapena le ginocchia, lasciando ben poco all’immaginazione, che viene sollevata per qualche istante dalle braccia possenti di Matteo, facendole compiere una piccola giravolta in aria. Nelle sue mani, Elena sembra solo una ragazzina bisognosa di tanto amore, nelle mani di un uomo che la ama davvero. E queste continue smancerie forse sono solo il risultato di anni e anni in cui nessun uomo ha mai fatto lo sforzo di darle attenzione. Compreso il padre che, anni e anni fa, è sparito dalla circolazione, tra le braccia di una ventenne. Un brutto colpo che l’ha fatta passare da un ragazzo all’altro senza criterio, che le ha fatto credere che l’unico modo per far tornare suo padre da lei fosse quello di gettarsi tra le braccia del primo che capita. Mostrarsi facile era diventata l’unica arma per difendersi. Non avere cuore, né sentimenti o legami, l’unico modo per sembrare forte.

Senza indugiare ancora sulla soglia del cortile, mentre i più ritardatari entrano correndo a scuola, mi incammino verso la fermata dell’autobus, che arriva dopo qualche minuto d’attesa sotto il sole pallido di settembre.

L’autobus è talmente affollato e caldo da sembrare una scatoletta di metallo che, dopo una giornata passata sotto il sole, ha trattenuto troppo calore. Mi ritrovo stipato in un angolo, quasi incastrato tra una vecchia signora che a malapena si regge in piedi, e un signore in giacca e cravatta che mi ricorda in modo inquietante mio padre. Per alleggerire un viaggio che so che, tra il traffico e la mia solita sfortuna, durerà una quarantina di minuti, tiro fuori le cuffie e le collego al telefono.

È incredibile come la musica riesca ad essere il filo conduttore di giornate intere in modo del tutto casuale, totalmente inconsapevole di quanto riesca a far riflettere le persone. Una canzone, i cosiddetti “brani casuali”, e quello che ti è successo prende una sfumatura e una direzione diversa: diventa più insignificante o più emozionante, più triste o più allegro, ma in ogni caso diventerà più qualcosa. Acquisterà un briciolo di luce in più, per sembrare più vivido e più reale, ma allo stesso tempo così lontano da non apparire neanche più come un tuo ricordo. È questo il potere della musica: può fermarsi al ruolo di colonna sonora, come un simpatico sottofondo di ogni tuo gesto, o può ampliarsi, fino a diventare protagonista.

Approfittando di un posto a sedere, liberatosi quasi per miracolo, mi siedo e, cercando di svuotare la testa, mi concedo una bella canzone a occhi chiusi e cuore aperto. La mente? Spalancata ad ogni tipo di pensiero.

 

“I was left to my own devices,

many days fell away with nothing to show.”

 

Non sono mai stato una cima in inglese, ma almeno di queste due frasi qualcosa ho capito. L’ultima parte: “nothing to show”, “niente da mostrare”. Sono io, giusto? Non mostrare mai quello che pensi, quello che vorresti, quello in cui credi. Nascondere, nascondere a ancora nascondere, fino ad eclissarsi del tutto, a creare un piccolo buco nero in cui ti perdi e non sai più ritrovarti. Non riesci nemmeno più a ricordare quale parte di te è quella autentica e quale sta recitando.

 

“But if you close your eyes,

does it almost feel like nothing changed at all?”

 

Questa frase l’ho tradotta tempo fa, perché mi incuriosiva. Insomma, se una frase fosse priva di senso non la ripeterebbero tanto spesso in una canzone, giusto?

“Ma se chiudi gli occhi, non ti senti come se nulla è cambiato?” Sono io.

Se chiudo gli occhi, se ripenso a ieri, a quel bacio, se chiudo gli occhi e ripenso a Matteo, al discorsetto su Elena, ai vecchi tempi senza nessuno tra di noi, mi accorgo che davvero non è mai cambiato nulla. Tra alti e bassi, tra litigi e periodi relativamente tranquilli, io sono sempre io e lui è sempre lui. Da sempre.

Nonostante gli anni che passavano, nonostante le persone nuove che abbiamo conosciuto, come gruppo di amici o singolarmente, nonostante le ragazze, i mille impegni, gli scontri che sembravano sancire la fine di tutto, non è cambiato mai nulla.

E quel bacio? Se solo lo avesse saputo, se si fosse svegliato, avrebbe cambiato le cose in modo radicale? Quel confine che ci eravamo posti, sarebbe stato spazzato via.

Un milione di domande e nemmeno una risposta soddisfacente.

E se, e se, e se. E se la smettessi di pensare e facessi qualcosa di concreto?

Maledetta musica e maledetti dubbi portati da lei.

 

 

 

 

   
 
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