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Autore: Purrrkwood    31/07/2014    0 recensioni
Ma le rane erano tornate in vita e qualcuno aveva visto. E per un tocco di troppo era finita lì, in un laboratorio in un luogo che forse gli era stato detto, ma che ora non ricordava più. Era iniziata con parole rassicuranti, era continuata con l’inganno e sarebbe finita… chissà se sarebbe mai finita.
[AU | Ned centric | riferimenti ad esperimenti e suicidio]
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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L'unica nota che scriverò è: questo è ciò che succede quando sei una brutta persona.

Siate brutte persone anche voi e leggete <3 Poi fatemi causa.





The creaking door.






La porta cigolò. Fu un suono lento, strisciante, antico come quello di una vecchia casa in legno dove il tempo ha preso il sopravvento e ogni cosa stride al minimo passaggio di aria. Scricchiolò come un pianto, come il gemito impaurito di un animale ferito.

Era colpa dei cardini, erano vecchi e arrugginiti. Lo aveva detto ad una delle infermiere tempo prima. Lei aveva sorriso e aveva risposto che qualcuno li avrebbe sistemati, ma nessuno era mai venuto a farlo e la porta continuava a scricchiolare sotto la tortura di tutti quelli che entravano ed uscivano dalla sua stanza. Nessuno lo notava, come se quel suono fosse interamente nella sua testa.

Nel piccolo intervallo di tempo in cui la porta scricchiolava poteva succedere di tutto. Tra il momento in cui la maniglia iniziava a girare e quello in cui lo scorcio di corridoio appariva tra gli stipiti si svolgeva un mondo intero, fatto di pensieri e domande. Di aspettativa. E di paura. Quando la porta si apriva, il cuore accelerava, il respiro si accorciava e gli occhi si chiudevano come se ogni volta fosse la prima.

La porta cigolò e soffici passi sul pavimento bianco ne seguirono. I passi non avevano lo stesso suono: erano dolci, cauti e gentili come la donna che li produceva. Erano uno dei pochi suoni che non gli facevano paura. Quando il suo volto fece capolino dal corridoio, Ned sorrise.

“Ciao, Ned.”

“Chuck…”

Non era lei, non era la sua Charlotte. Non l’aveva più vista dal giorno del funerale, che nella sua mente sembrava appartenere ad un tempo lontanissimo, quasi non suo; ma non aveva importanza. Quella voce che parlava costantemente nella sua testa glie lo ripeteva di continuo: Chuck non era lì. La sua Charlotte aveva il viso tondo e le guance arrossate, gli occhi che splendevano nella luce del sole estivo e la risata simile al suono di mille campanelli. Questa Charlotte era diversa, era sbagliata: il suo volto era troppo affilato, il rossore sulle sua guance troppo finto, gli occhi freddi sotto le tristi lampade bianche e non una sola volta Ned l’aveva sentita ridere.

Lei non era Chuck, era solo una copia alla quale la sua mente e il suo corpo si aggrappavano con disperazione come ad un salvagente, quello che gli impediva di annegare nel mare di oscurità che riempiva la sua cella bianca come la neve. Lei lo sapeva. Loro lo sapevano. Loro avevano deciso tutto, perché sapevano che sarebbe impazzito in fretta senza un punto di riferimento. Così gli fornivano quella piccola bugia, così terribilmente falsa, così terribilmente importante. E le torture, le ferite, gli esperimenti sembravano meno terribili quando lei era al suo fianco. Era tutto calcolato, con una precisione millimetrica che lo spaventava. Ma non aveva importanza: aveva bisogno di lei. Non era nemmeno sicuro che Charlotte fosse davvero il suo nome, per quel che ne sapeva poteva esserselo inventato, poteva essere tutto parte del piano, ma non aveva importanza. Doveva credere che fosse vera, così come era vero lo scricchiolio della porta che nessuno sembrava sentire.

Chuck gli sorrise, mentre si chinava su di lui, accovacciato sul pavimento freddo con le gambe strette al petto. Le sue dita passarono piano fra i suoi capelli sporchi, districando con gentilezza le ciocche annodate, quasi si stesse occupando di un bambino. E in fondo lo era: era un bambino tra le sue mani, obbediente ed educato, docile come un agnellino. Loro sapevano anche questo, perciò la mandavano: perché non le avrebbe mai fatto del male. Non a Chuck, non alla sua amica del cuore. Mai.

Le mani di lei si fermarono e Ned capì perché era venuta. La siringa era ancora nella tasca del suo camice, ma l’avrebbe tirata fuori di lì a poco e lui l’avrebbe lasciata fare. Perché era così; perché aveva smesso di opporsi in un giorno ignoto di molto tempo prima. Non sapeva quanto tempo, era solo molto. Ricordava solo vagamente i frammenti di una vita diversa da quella, una vita fuori da quelle quattro mura bianche fatta di colori, profumi e sapori e a volte, durante la notte, le immagini di quella vita scorrevano nella sua mente: un salotto, una cucina, l’odore dolce e avvolgente delle torte appena sfornate e le risate di due bambini che giocavano. Ma più il tempo passava, più quelle immagini sembravano proprio questo: solo dei sogni; delle invenzioni. La verità era che lui il sapore delle torte non lo ricordava più, se mai era esistito, e nemmeno ricordava il profumo delle spezie o dell’erba tagliata. La verità era che lui era una persona bianca in una stanza bianca. Era sempre stato così e sarebbe stato così.

L’ago entrò e uscì dalla sua pelle quasi impercettibile. Non vi badava più. Era così che andava. Chuck ripose la siringa vuota nella tasca. Il suo sorriso era di circostanza.

“Il dottore verrà a prenderti fra poco. Vogliono solo fare dei controlli, niente di più. Andrà tutto bene.” Il suo tono di voce era quello di chi recita una parte; quelle parole Ned le aveva sentite infinite volte, come un vecchio nastro inceppato che trasmetteva a ripetizione lo stesso stralcio di canzone. Andrà tutto bene, era questa la loro canzone e l’aveva imparata a memoria.

Andrà tutto bene, perché andrà come al solito, e come dovrebbe andare? Piccolo, dolce topo da laboratorio, sei nostro. È questa la tua vita, mia bellissima cavia, mio splendido abominio.

Ned rabbrividì. All’improvviso sentì i muscoli farsi più pesanti, sentì i riflessi indebolirsi e la vista annebbiarsi. Di nuovo, come era stato tante altre volte e come sarebbe continuato ad essere ogni giorno a venire. E nel petto il suo cuore accelerò a quel pensiero, mentre il respiro si accorciò. La testa iniziò a girare, ma non era l’effetto del medicinale.

Oh, il panico. Era sorprendente come fosse ancora in grado di avvinghiarsi a lui e di strisciare sotto la sua pelle come un gelido serpente invisibile. Le sue visite erano ancora più terribili di quelle dei dottori: erano improvvise, erano immotivate, erano nere e soffocanti; eppure erano l’unica cosa che gli ricordasse di essere umano, qualcosa di più di un cadavere da analizzare. I cadaveri non conoscono la paura. E nonostante Ned non sapesse di cosa aveva paura, ne sentiva i morsi e le urla.

“Chuck…” sibilò, le dita che stringevano convulsamente l’aria cercando di aggrapparsi a qualcosa. Ma lei era lontana e non si faceva toccare.

“Chuck!” questa volta fu un grido e la sua voce si spezzò sull’ultima lettera. Lei lo guardò. I suoi occhi lo fissavano con pietà, ma era la pietà di chi guarda un animale soffrire senza fare nulla.

“Andrà tutto bene, Ned.”

“Chuck, no…!”

“Tutto bene.”

E poi fu il bianco. Il bianco delle pareti, della luce, della divisa di un medico che camminava verso di lui.

In fondo, era così che andava.

 

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Sognò le rane.

Era una storia curiosa, quella delle rane: era la dimostrazione che per rovesciare una vita e per fare prendere una piega inaspettata non serve necessariamente qualcosa di grande, ma che al contrario sono spesso le piccole cose a determinare l’esito finale. Come delle rane, per esempio. Perché mai delle rane dovrebbero essere mai considerate qualcosa di importante?

Eppure lo erano state. Abbastanza importanti da catturare l’attenzione della persona sbagliata durante l’ora di biologia. Ned sapeva anche allora che non era una buona idea, ma il richiamo delle malefatte aveva avuto la meglio su di lui e le urla terrorizzate dei suoi compagni alla vista dei grossi anfibi che iniziavano dal nulla a dimenarsi erano state epiche. Si chiedeva se forse, se quel giorno avesse deciso di ingoiare l’umiliazione invece di cercare vendetta, non sarebbe riuscito a cavarsela.

Ma le rane erano tornate in vita e qualcuno aveva visto. E per un tocco di troppo era finita lì, in un laboratorio in un luogo che forse gli era stato detto, ma che ora non ricordava più. Era iniziata con parole rassicuranti, era continuata con l’inganno e sarebbe finita… chissà se sarebbe mai finita.

Lo svegliò il dolore. Si mosse, sentendo sotto di sé il materasso della sua branda e il suo braccio mandò una sorda fitta che lo fece gemere. Aprì gli occhi e se non fosse stato per l’ago infilato nell’incavo del suo gomito avrebbe pensato che anche ciò che era successo prima fosse stato un sogno. In ogni caso, era solo una flebo. Charlotte non aveva mentito. Non questa volta, almeno.

Avevano iniziato a sedarlo durante gli esami diversi anni prima, dopo l’ennesima crisi isterica, quella che aveva segnato il limite di sopportazione sia suo che dello staff. Quella volta non si era trattato solo di urla, di pianti e di spintoni; era stata una lotta ed era finita nel peggiore dei modi. Non che lui fosse stato davvero intenzionato a fare quel che aveva fatto: aveva reagito in preda alla paura e non era colpa sua se uno degli infermieri nuovi aveva ritenuto saggio tenere un bisturi nel taschino; non era colpa sua se lo strumento era caduto a terra nella foga del momento; e non era colpa sua se aveva afferrato di riflesso il primo oggetto a portata di mano e aveva attaccato per difendersi. Ma la conseguenza non cambiava e il povero sventurato era stato trasportato via con urgenza, mentre sul pavimento si allargava una pozza di sangue proveniente senza alcun dubbio da un’arteria femorale recisa. E lui era stato confinato in una cella piccola e stretta, con le braccia legate da una camicia di forza come un pazzo. Forse in quel momento lo era stato. Ma era del tutto sicuro che, se fosse stato più lucido, avrebbe comunque usato quel bisturi e forse avrebbe cercato di provocare una ferita più grave. Avrebbe mirato alla gola e non ci sarebbe stato alcun modo di salvare l’infermiere idiota che aveva tenuto una lama a meno di un metro da un paziente mentalmente instabile.

Quell’incidente aveva reso evidente l’intollerabilità della situazione. E per evitare che qualcuno ci rimettesse davvero la pelle, i medici avevano deciso che non era poi necessario tenerlo sveglio durante gli esami. Non tutti, almeno. Aveva funzionato, era diventato considerevolmente più docile da allora: l’idea di poter dormire e di non essere costretto e a vedere quelle cose, ad entrare cosciente in quelle stanze, lo aveva rassicurato. Ora era tutto molto più lontano e della consistenza di un sogno; poteva fare finta che si trattasse solo di un frutto della sua mente.

Anche se non lo era, anche se poi si svegliava e le ferite che pulsavano gli ricordavano che ogni secondo era reale e non parte di un incubo. E a nulla servivano le lacrime, o le grida, o le suppliche: dalla realtà non ci si può svegliare.

Le dita si chiusero attorno alla flebo. Uno strappo e l’ago fuoriuscì dalla sua carne in un unico movimento. Urlò, mentre le lacrime fuoriuscivano e un dolore acuto e penetrante si spandeva dal suo braccio e attaccava il suo cervello come una lama affilata.

E accolse il dolore come un amico, perché i cadaveri non provano dolore. L’adrenalina inondò le sue vene,facendolo sentire più vivo che mai e l’odore del suo stesso sangue gli sembrò il più soave dei profumi. Era così, era così che andava. Cullava l’idea della morte, perché i cadaveri non muoiono.

L’ago scintillò fra le sue dita, catturando la luce della lampada. Una goccia di sangue fuoriuscì dal suo indice. Il colore era come quello delle fragole che vedeva nei suoi sogni, ma il sapore strideva contro la dolcezza di quel ricordo.

Fissò per qualche secondo quella sottile linea di metallo. I cadaveri non morivano, ma in fondo, secondo la gente comune, nemmeno potevano tornare in vita.  Eppure, lui stesso aveva dimostrato quanto fosse errata quella convinzione. E allora perché non contestare anche l’altra? Ma era ora o mai più. Ora, finché aveva ancora la convinzione!

Fuori dalla porta nessuno passava. Non un rumore echeggiava  in quell’ala della struttura. Ned sollevò la mano, portando la punta metallica dell’ago a sfiorare la pelle del collo. Sentì il battito del cuore accelerare all’idea di affondare quel piccolo oggetto, di penetrare la carotide. Sarebbe bastato un niente, poteva farlo, era semplice come bere un bicchier d’acqua. Ed era terribilmente eccitante.

Quanto deve essere disperato un essere umano se l’unico momento in cui si sente vivo è quello in cui si trova faccia a faccia con l’idea di morire?

Il dolore al braccio ora era sordo e distante. Un singhiozzo scappò dalle sue labbra livide e un’altra lacrima abbandonò i suoi occhi, ma non era dolore fisico quello che lo scuoteva ora. No. Oh, no!

Ma non lo farai, vero mia piccola cavia? Non lo hai fatto prima d’ora, perché farlo adesso?

No, no, non così!

Andrà tutto bene.

Con lentezza, la mano che tremava ormai priva della determinazione di pochi secondi prima, Ned lasciò la presa sull’ago, che tintinnò appena quando toccò il pavimento. E il singhiozzo divenne un grido, prima ancora che lui stesso se ne rendesse conto.

Qualcuno entrò, delle mani lo afferrarono, delle voci parlarono tra di loro, ma lui non le sentì. Non che avesse importanza. Nelle sue orecchie echeggiò una risata e una voce coprì le sue urla disperate:

Tu sei nostro.

In fondo, era così che andava.

   
 
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