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Autore: ale93    01/08/2014    1 recensioni
Erano ricercati in almeno sette stati e vivere da fuggiaschi non era semplice, ma Ray trovava tutto questo semplicemente divino.
Primo posto al 10 Songs Contest Reprise
Genere: Avventura, Azione, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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29 Dicembre 2006, Prigione statale di Shirley. 
 
«Ehilà. Sorpreso di sentirmi? Registro questo nastro dalla mia dimora attuale. Faccio una vita da nababbo, Biondo. Mi servono pasti extra lusso, sto a riposo tutto il giorno e quando mi va butto giù le mie mémoires per tramandare ai posteri le mie imprese da Lupin del ventunesimo secolo. Non male.
Quando tornerai da… dal Venezuela, o forse dall’ India, vecchio pazzo… beh, quando tornerai spero tu possa ricominciare daccapo come volevi. Lo so che ho detto così anche l’ultima volta e che è finita male. Però se ne parla ancora, di quello che abbiamo fatto. Rubare le fortune del Barone, John. Io e te insieme. Abbiamo fottuto quel porco, te lo dico io. Ti ricordi la fuga col Silverado rosso di terza o quarta mano, John?  Dio, quel pick up stava per esploderci sotto al culo per quanto andavamo veloci. Quella volta è stata davvero speciale, Biondo, un sogno.
Certo, mi hanno stanato, ma abbiamo fatto un bel lavoro. Siamo dei grandi.
Sono felice che tu te la sia svignata, comunque. Certo, mi sarebbe piaciuto da matti vederti ad uno di quei giorni di visite, Biondo, ma va bene così. D’altronde tu sei sempre stato furbo, non puoi farti incastrare per venirmi a trovare, no?
Comunque quest’anno sarà grandioso, festeggia come puoi senza di me, perché quando tornerai io sarò fuori di qui e ce la spasseremo. Però volevo farti lo stesso un regalo e il tuo compare trova sempre il modo per far girare bene le cose. Non so se sentire la mia voce sia proprio una bella cosa, a me comunque piacerebbe sentirti e così ho pensato che per te fosse lo stesso… Beh, in ogni caso è tutto qui. Buon compleanno, Biondo. Stammi bene».
Ray preme il bottone di stop del registratore e inspira.
«Avanti, Ray, basta così» gracchia Archie Boyle, l’avvocato che ha ingaggiato sua madre per lui. Un tizio pallido e defilato che non l’ha mai trattato come una specie di merdina schiacciata accidentalmente sotto la suola delle scarpe. Un brav’uomo, in fin dei conti.
«Guarda, Archie, io lo so che non puoi recapitarglielo – come potresti? Nessuno sa dove sia… però fai del tuo meglio, ok? Spedisci il nastro a Weymouth, a casa di sua sorella. Sono sicuro che lei lo farà avere a John».
Gli occhi di Archie sembrano spaventati come quelli di un ratto. Crede che sia diventato pazzo probabilmente, ma Ray non ci fa troppo caso.
«Va bene, Ray, sta’ tranquillo» sospira Archie afferrando il registratore. Fa un cenno alla guardia e se ne va, lasciandolo solo nella stanza colloqui.
 
 
 
 
Shoot the moon
 

Qualche mese prima. 
 
 
Quei pancakes erano la fine del mondo e Ray non poteva credere di aver vissuto fino a quel momento senza quell’incredibile salsa al cioccolato. Davvero, era sconvolto dalla sua stessa capacità di sopravvivenza.
John sbuffò e Ray riuscì ad immaginare la sua faccia scettica nascosta dietro il giornale che stava sfogliando rumorosamente.
Non era molto socievole, ma Ray poteva giustificarlo in fin dei conti. Erano in fuga da circa tre settimane, la polizia annusava le loro tracce, ma non era ancora una minaccia concreta.
Ray comunque non si lamentava: si erano fermati in parecchi posticini carini e lui si era divertito un mondo con la storia delle false identità. Per tre giorni circa si era finto italiano, anche se sapeva pronunciare solo “buongiorno, signorina”, “spaghetti”, “pizza” e “vaffanculo”. Era un’ottima base da cui partire. 
John continuava a chiamarlo George invece di Giorgio, per poco non era saltata la copertura, ma era stato uno spasso.
John non doveva trovarlo così esilarante, però. «Smetti per un attimo di ingozzarti con le frittelle e stammi a sentire».
Ray annuì senza sollevare il naso dal piatto.
«Siamo al centro del mirino».
«Adesso dimmi qualcosa che non so».
«Non sto parlando della polizia, Ray. Il Barone vuole le nostre… le tue palle. Ci sta col fiato sul collo».
Ray ingoiò l’ultimo boccone di quel meraviglioso pancake e puntò il suo sguardo negli occhi chiari di John. Gli sorrise mentre con una punta di soddisfazione rubava l’ennesima frittella dal suo piatto. «Frigna perché ha perso il giocattolino?» sghignazzò e continuò a masticare con gusto.
Il giocattolino era un diamante di circa trecento carati, bianco come la neve che cade dal cielo e grosso come un pugno. Si chiamava il Centenario[1]. L’aveva acquistato un pascià turco che si faceva chiamare il Barone, uno stronzo più ricco della Regina d’Inghilterra e con un giro d’affari praticamente immenso.
Era stata una goduria riuscire a fargliela sotto al naso.
Avevano iniziato la loro veneranda e rispettabilissima carriera con delle volgari rapine a mano armata ed erano finiti a farsi inseguire dall’Interpol e da un branco di criminali in doppiopetto che li avrebbe scuoiati con una certa eleganza.
Erano ricercati in almeno sette stati e vivere da fuggiaschi non era semplice, ma Ray trovava tutto questo semplicemente divino.
John alzò gli occhi al cielo in un gesto tipico che Ray conosceva alla perfezione. Nessuno sapeva far perdere le staffe a John come lui.
Si picchiettò il mento con l'indice per qualche secondo. «Biondo… pensi che riavremo mai Bezzi?»
Certo, perché di tutte le cose di cui Ray poteva preoccuparsi, ce n’era una di fondamentale importanza: il vecchio Silverado rosso con cui erano fuggiti dalla reggia del Barone. Era un signor pick up, un po’ vecchiotto, ma il suo motore ruggiva ancora alla dio comanda. La tappezzeria era impregnata dell’odore fottutamente erotico dell’erba. Ray amava quel Silverado in modo devoto e profondo. Una storia alla Jack e Rose. Per un attimo si chiese se il loro Titanic non fosse John. Chissà.
Il Biondo si schiarì la voce assicurandosi che nessuno nella caffetteria stesse prestando loro attenzione e si chinò verso di lui. «Potremmo essere decapitati da un momento all’altro con una scimitarra e tu…»
«Quanti Silverado possiamo permetterci in cambio del gingillo?»
John si lasciò sfuggire una risata.
 
 
Fregare il Barone fu un lavoretto non troppo complesso. Avevamo un contatto nel suo giro: Liam Coughan, noto affarista nel campo delle opere false. Quadri, sculture, piccoli monumenti dal valore di migliaia di dollari, era tutto nelle sue mani. Organizzava aste ed eventi a nome del Barone, era una delle sue marionette. Riuscimmo ad intrufolarci ad un torneo di poker. Una volta ottenuta la sua fiducia, mettemmo le mani sul Centenario. 
La parte difficile arrivò quando il Barone ci lanciò contro i suoi mastini… non facemmo altro che viaggiare da uno stato all’altro. 
I quotidiani parlavano di noi, ci chiamavano i ‘Selvaggi’. Giornalisti, presentatori di talk show e addirittura qualche carica pubblica raccontavano del nostro furto alla Lupin III. Il tono degli articoli e delle trasmissioni era sempre sottilmente ironico, nessuno riusciva davvero a prendersela con due pazzi che rubavano un brillocco ad uno stronzo mediorientale baffuto. 
Mi sentivo una star, un’icona… il simbolo di ribellione e libertà. I’m a wild one an’ I like wild fun2, capite?
Eravamo due ragazzini poco più che ventenni con un solo desiderio in testa: fottere tutti. Fare un grosso scherzo al mondo, così come il mondo aveva preso per il culo noi.
Ricordo ogni cosa con uno spillo di malinconia del petto. Eravamo innocenti quando ci mettemmo in testa di far girare le cose a modo nostro. Innocenti e sognatori.
John aveva perso i suoi genitori all’età di dodici anni in un incidente stradale e da quel momento in poi aveva vissuto con sua sorella Lydia. Ci conoscemmo allora, siamo amici da una vita intera.
Abbiamo collezionato un mucchio di bei momenti insieme: le partite a football improvvisate nel viale che divideva le nostre case, la torta di mele che sua sorella ci preparava a merenda, la sua espulsione da scuola per una rissa in cui l’avevano messo in mezzo, quella volta che mio padre se ne andò di casa dicendo che io e mia madre gli stavamo succhiando via la voglia di vivere… In ogni caso eravamo insieme a raccogliere i pezzi, a riderci su come potevamo. In ogni caso io avevo lui e lui aveva me.
Ricordo che una volta mi disse: «Ci prenderemo il nostro riscatto, Ray, e sarà come sparare un colpo in bocca alla luna».
Bastava quella promessa. Almeno per un bel po’ fu così.
 
 
Separarsi sarebbe stato mille volte più saggio, senza contare che sarebbero riusciti a depistare tutti gli stronzi molto più in fretta, ma non a Ray non piacevano le strade facilmente percorribili. Dove stava il divertimento? E poi con John la fuga sarebbe stata decisamente più sicura.
Ray non aveva nessuna paura dell’Interpol: erano così lenti, dio. Chi li avrebbe potuti stanare davvero era il gruppo di caccia del Barone.
Era quasi certo che li avrebbero cercati all’estero e fu per quello che decisero invece di rintanarsi in un villaggio piccolo, non segnalato nelle carte geografiche e probabilmente sconosciuto ai suoi stessi abitanti.
Earnwood. Posto del cazzo. C’erano quattro case in croce e poi solo campagna. Lunghe, smisurate, grossolane distese di sterpaglia.
Affittarono –anonimamente, in contanti e arrivederci- una villetta non troppo maltrattata dal tempo.
«E’ la cosa più… orribile che abbia mai visto in vita mia» ululò Ray dal piano di sopra, guardando con scetticismo un vecchio materasso impolverato.
«Sicuro? Dev’esserci uno specchio da qualche parte… prova a guardare lì».
Ray rise di gusto tornando di sotto. Era raro che John facesse dell’ironia, doveva stranamente essere di buon umore. E difatti lo trovò nella cucina con la testa infilata in una dispensa, sicuramente in cerca del “rinforzo”. Era così che chiamava l’alcol da ragazzino, quando non voleva farsi beccare da sua sorella. Certe abitudini erano dure a morire.
Quando individuò una grossa bottiglia di whiskey sollevò due dita in segno di vittoria e tirò fuori dalla sua borsa dei bicchieri di plastica bianca. Bevve un sorso lasciando correre lo sguardo in giro per la catapecchia. «Siamo al sicuro».
Ray ghignò e si accomodò al tavolo traballante con i pugni puntati sotto al mento. «Forse… o forse no,» strizzò l’occhio «il bello è tutto qui».
John evitò il suo sguardo per qualche minuto.
 
Rimettemmo a nuovo la casa. Fu John a dirigere i lavori, era straordinariamente organizzato. Mi faceva quasi paura nella sua versione "casalinga".
In ogni caso non doveva piacergli molto quel posto. Il buio pesto, il troppo silenzio e i peluche di polvere che ci facevano compagnia dovevano riportargli alla mente brutti ricordi. Girava per casa con delle occhiaie spaventose e delle borse sotto gli occhi in cui avrei potuto infilare una mano. Ed era più irritabile del solito, il che la dice lunga sulla mia voglia di mettere un punto alla questione.
Cercai di risolvere il problema strisciando nella sua camera, una notte. Lo trovai seduto al centro del materasso con le ginocchia strette tra le braccia e la testa china. Sembrava un bambino.
«Che fai qui dentro, Ray?»
«Il mio letto è scomodo e tu non sai usare il tuo appropriatamente».
Dopo questo breve scambio non parlammo affatto. Rimasi semplicemente steso a guardare la schiena di John. 
Ci vollero tre giorni perché riuscisse a dormire. Sei perché capissi da me che sognava ancora dell’incidente, di sua sorella, dei suoi nipoti che aveva visto quando avevano solo pochi mesi. La maggior parte delle volte sognava della nostra prima rapina.
Non parlava mai molto, se ne stava con lo sguardo fisso a combattere silenziosamente qualche mostro. 
No, non ho cercato di andare a letto con lui in quello strano periodo. Ad attrarmi era l’idea di capire cosa ci fosse sotto quella massa di capelli biondi e crespi, dietro quel sorriso algido, cosa ci fosse davvero oltre a quello che di lui avevo imparato… dio, mi mandava fuori di testa.
Questo spiega molte cose, in effetti. Avevo una sorta di dipendenza patologica da quell’enorme puzzle contorto ch’era John Anderson. Era schivo, diffidente, si prendeva cura di me in quella maniera un po' rude e burbera così tipica di lui. 
È un’ipotesi plausibile che ci aggrappassimo l’uno all’altro perché avevamo solo terra bruciata attorno, ma non credo sia del tutto corretta. 
Penso che non sia mai stato tutto lì.
 
 
«Se la finiamo qui, John, sarà tutto ok. Sparirai per un po’ di tempo, fino a quando le acque non si saranno calmate. Poi t’inventerai una storia, mi hai capito? Un alibi bello grosso, senza troppi dettagli –non essere puntiglioso come al solito, conosci la regola: troppi dettagli fanno drizzare le antenne. Tornerai da tua sorella, dai tuoi nipoti. Ti troverai una donna da scopare e passerai la tua vita in santa pace».
«E tu? Tu sarai mai capace di dimenticarti di tutto questo? Te lo dico io: no. Hai bisogno di adrenalina. Sei una testa di cazzo incapace di “passare la vita in santa pace”» gli fece il verso, accigliandosi.
E Ray rise di cuore, guardandolo dritto in faccia. «Mi accontenterò».
«Non ci riuscirai mai, ti conosco».
«Che stai cercando di fare, Biondo? Vuoi tornare dalla tua famiglia oppure no?»
«Non posso, coglione».
«Ti mancherei, eh?»
Lo sguardo di John si fece indeciso.
 
 
Durante una delle primissime rapine in una banale cittadina che neppure ricordo, un povero cristo ci lasciò la pelle.
Arrivammo sul posto con la magica Bezzi e una calzamaglia calata sulla testa. Eravamo in tre, un amico di John ci faceva da palo. 
Facemmo un gran casino, ma eravamo già abbastanza efficienti e precisi. Peccato che il nostro compare non fu capace di avvisarci per tempo dell’arrivo della polizia. Povero fesso.
Ci fu uno scontro a fuoco e uno dei clienti della banca ci si trovò in mezzo. Fu colpito al petto. Al telegiornale, pochi giorni dopo, dissero che una delle pallottole gli aveva forato un polmone. 
John non si perse un attimo di quella benedetta morte. Continuava a girarsi per fissare il sangue di quel tipo, non riusciva a distogliere lo sguardo come se fosse attratto e insieme spaventato da quel particolare evento.
Con un po’ di sfacciata fortuna riuscimmo a scappare e a correre più veloci degli spari che fendevano l’aria. Le pallottole rimbalzavano sui muri dietro cui tentammo di nasconderci, colpivano i bidoni di latta e facevano un gran casino. Gettammo via buona parte della refurtiva.
Ero affannato e stanco, ma drogato di tutto quel pericolo, del fiato corto, dell’odore della paura e di quella tensione sottile che mi faceva accapponare la pelle. Mi voltai a cercare il consenso di John… lui aveva lo sguardo perso da qualche parte, spento. 
Nel bagno di un motel un po’ squallido si mise a medicare una ferita che mi ero procurato accidentalmente alla spalla sinistra durante la fuga. 
«Cazzo» sibilò quando la fasciatura che stava cercando di farmi si allentò appena.
Gli misi una mano sul braccio, guardandolo dal basso. «Va bene, Biondo. Sono a posto».
Lo osservai mentre annuiva lentamente: era strano, come se fosse improvvisamente diventato una cosina tremante e inutile. Quella fu l’ultima volta che lo vidi andare in pezzi, fu un momento prezioso, non so spiegare bene il perché.
«Non deve capitare più».
Liquidò in quel modo l’intera questione, risistemando meticolosamente la garza intorno alla mia spalla. Cercai i suoi occhi nello specchio e non li trovai.
Non doveva capitare più di dover respirare la puzza dell’agonia, non doveva capitare più di dover gettare via quel poco che riuscivamo ad accaparrarci, non dovevamo più affidarci a terzi che avrebbero potuto mandare a puttane i piani che John studiava come libri di storia.
Da quel momento in poi ci saremmo stati solo noi, avremmo fatto affidamento esclusivamente l’uno sull’altro. Avevamo perso un bel botto di dollari e sentivamo la morte di quel tizio che ci pesava sulla coscienza, ma avevamo entrambi guadagnato l’unico compagno degno di essere chiamato tale. 
Ci trattavamo come soci alla pari, mi sembrava che cercassimo l’uno nell’altro quell’elemento che potesse spingerci un po’ più in là, che potesse renderci perfetti.  
 
Il più delle volte John era freddo. Glaciale. Eppure, solo a guardarlo, Ray sentiva un bel calore nel petto.
Era un tepore su cui non rifletteva mai con troppo sforzo, non c’era molto da capire, però lo avvertiva ogni santa volta. E c’era sempre quella certezza martellante che solo con John avrebbe potuto vivere quella vita, solo John avrebbe controbilanciato perfettamente la sua saccenza e la sua arroganza con quell’espressione ferma e solo un pizzico di divertimento negli occhi.
John non era quello che poteva sembrare. Certo, era riflessivo, distaccato, riservato come uno struzzo con la testa sotto la sabbia… ma c’era energia in lui.
E Ray ne aveva bisogno, più di quanto avesse bisogno del brivido del rischio per campare, per sentirsi concreto, attaccato alla vita.
A volte questo pensiero lo aveva spaventato. Cosa diavolo c’era oltre John?
«Non dobbiamo per forza…»
Ray sollevò le sopracciglia con aria sarcastica. «Cosa? Dividerci? Non vederci più?»
John non apriva mai bocca per darle aria e se c’era una cosa che Ray apprezzava di lui più di tutte le altre era che John il Biondo Anderson non diceva mai cazzate, neppure se preso in contropiede. Fu per quello che non riuscì a completare la sua stessa richiesta.
Alla fine di quella corsa non ci sarebbe stata una bifamiliare e una società pulita a nome di entrambi. Forse John si sarebbe sistemato, avrebbe avuto un figlio, ma Ray no.
Sarebbe finita sul serio, senza possibilità di ritorno.
«Perché adesso, Ray? Quest’ultimo colpo in grande stile… la fuga da cartone animato… perché
«Pensavo ne avessimo già parlato abbastanza».
«Non ne abbiamo parlato affatto».
Ray sospirò e, senza pensarci neppure un attimo, lasciò scivolare le sue dita verso la mano di John. «Basta così. Ci siamo divertiti, fine dei giochi, è ora di… sistemarsi, o qualcosa del genere» ghignò.
 
Non mi spaventava l’idea di portare avanti quel genere di vita. Non temevo le continue fughe o l'idea di dover dire addio per sempre al mio nome, ma non avrei mai potuto lavorare con nessun altro. Ero ancorato a John e questo mi terrorizzava.
Forse era per quello che sarebbe stato un bene mollare tutto. Mollare John, lasciarlo andare. 
 
 
Alle due del mattino la sedia di John traballò quando lui si alzò con un gesto nervoso. La bottiglia di whiskey era ormai dimezzata, i bicchieri di plastica dimenticati. «Non ti capisco. Non riesco a seguire i tuoi ragionamenti…»
«Non c’è nessun ragionamento da seguire, John. Abbiamo fatto abbastanza cazzate, è tempo di provare a fare altro prima che ci becchino e ci mettano al gabbio tutti e due. Cosa c’è da capire?» sospirò Ray, seduto a cavalcioni su una sedia sgangherata di quella cucina umida, con le schegge di legno che pungevano sulla stoffa dei jeans e una sigaretta spenta che gli pendeva dalle labbra come una catenella.
«Te. C’è da capire te. Non sto dicendo che non sia saggio far perdere le nostre tracce, separarci per un po’… ma hai deciso da solo, non mi hai chiesto neanche cosa ne pensassi».
«Non dobbiamo discuterne proprio adesso, John… è un’ipotesi, non sappiamo neppure come lasciare il Paese, per ora…»
John si voltò a guardarlo. La luce del lampadario rendeva trasparente la cicatrice sul suo sopracciglio destro, di cui non aveva mai voluto parlare -un incidente accaduto da bambino, diceva. Aveva gli occhi pieni di rabbia e risentimento e… ansia?
John sembrò combattere con se stesso, cercava di dire qualcosa, probabilmente aveva voglia di urlare e mandarlo al diavolo. Non ci riuscì, però.
La sua espressione s'indurì. Ray restò a fissarlo in silenzio.
 
 
Sapevo tutto di John Anderson, avevo imparato a capirlo col tempo e con la pazienza. E lui sapeva ogni cosa di me. Quasi. Non sapeva quanto la sua approvazione fosse fondamentale per me, non sapeva che starmene nel suo letto per cercare di alleviare la sua ansia notturna mi aveva portato a passare gran parte delle mie notti ad aspettare di vederlo addormentarsi. Stavo lì a fissare per ore le sue clavicole troppo sporgenti e quei capelli troppo lunghi che s'incollavano sulla sua faccia umida di sudore.
Se lo amo? 
Non lo so. Non so se si possa chiamare davvero amore una roba così esasperante. 
 
…la versione ufficiale è che io non ho niente a che fare con le cazzate come i sentimenti profondi. Soprattutto per quel che riguarda il mio miglior amico.
 
 
Passò solo qualche giorno, prima che l’Interpol li beccasse. Il lamento di una sirena invase la quiete di Earnwood, mentre una parata di auto della polizia sfilava verso la loro catapecchia.
A Ray venne da ridere, mentre John gli ricordava la procedura su cui si erano accordati in caso di emergenza. Alla fine i fessacchiotti ce l’avevano fatta a beccarli prima degli squadroni del Barone.
«… che diavolo hai da ridere, Ray? Che cazzo».
Guardò John con un grosso sorriso. Si sistemò sul naso un paio di occhiali da sole scuri e si chinò verso di lui. In fondo, pensò, se proprio dovevano finire con il culo per aria, sarebbe stato meglio giocarsi il tutto per tutto.
Gli stampò un bacio a bocca aperta sulle labbra.
John non sembrava sorpreso. Nemmeno in una situazione così assolutamente inappropriata riuscì a scomporsi.
Due dei ladri più ricercati dell’ultimo decennio stavano per tentare l’ennesima fuga impossibile, uno di questi si prendeva il tempo per pensare “massì, limono un attimo il mio complice, se non avete troppa fretta” e John Anderson non era neppure un po’ stranito. O comunque non lo dava a vedere.
Se non fosse già stato un ottimo delinquente, sarebbe diventato un gran bell’attore.
Ray prese le chiavi dell’auto, mentre John lo seguiva in fretta verso l’uscita.
«Ray, che stai facendo?» chiese con calma.
«…un tempo eri tu il cervellone,» Ray alzò gli occhi al cielo «mi faccio inseguire mentre tu metti al sicuro il gingillino».
John lo afferrò per un braccio prima che aprisse la porta sul retro. «Non era questo che-».
Lo interruppe, guardandolo con fermezza: «Funziona così, ‘sta volta, Biondo. Adesso sbrigati».
John tentennò un secondo e strinse la presa sul suo braccio prima di baciarlo di nuovo, con forza. «Sai cosa fare. Fatti incastrare e ti ammazzo».
 
 
Il nostro contatto si era sentito fregato e aveva deciso di mettersi dalla parte del Barone, ma ci aveva beccati un po’ troppo tardi. L’Interpol mi aveva già incastrato.
Presero John, ma il mio compare aveva già nascosto il giocattolino. Era il migliore. Cercarono di fargli sputare il rospo, ma lui non parlò mai. 
«Il tuo amico ci ha fottuti tutti ben bene, ma tu prima o poi canterai…» gli aveva detto Coughan.
E John lo aveva guardato come “un cazzo di leone ferito” –cito testualmente- e aveva risposto, sputando un grumo di sangue: «Ray vi ha fottuti perché ha mille volte più palle di voi messi insieme. Ed è questo il vostro posto… ad annaspare mentre lui se la ride per avervela fatta sotto al naso. Vaffanculo, Coughan. Trovatelo da solo il giocattolo del Barone».
E lo aveva fatto, Liam Coughan trovò il Centenario, da bravo cagnolino. Quando tornò da John per comunicargli che era in grossi guai, al suo posto trovò una sedia vuota e le corde con cui lo avevano legato.
Alcuni tirapiedi del Barone vennero beccati e incarcerati. Liam Coughan fece la sua confessione con una certa dose di disappunto. Disse che di certo John Anderson era stato trovato da qualche suo collega, doveva necessariamente essere da qualche parte almeno otto piedi sotto terra. Non ci credeva neppure lui.
John era ed è il migliore. Il più in gamba. Ho sempre creduto in lui. 
Sono trascorsi circa nove mesi, ma sono certo che mi tirerà fuori di qui.
 
 
Durante la fuga, Ray si concesse il lusso di accendere l’autoradio. Passavano un pezzo romantico che lo fece sentire stupidamente contento. Rise, pensando a quello che era successo nella piccola catapecchia.
Persino quando l'inseguimento si concluse con la sua cattura, persino con le manette ai polsi, non riuscì a levarsi dalla testa quel motivetto dolce e la faccia buffa di John.
 
 
10 Febbraio 2007
 
«Dove diavolo l’hai ritrovata?» ululò Ray, accarezzando la tappezzeria del suo Silverado rosso.
Un angolo della bocca di John si arricciò in un mezzo sorriso. «Chi lo sa. Goditela e basta».
«Allora… come te la passi, Biondo?»
«Ho rivisto mia sorella» lo guardò per un istante con un’aria sarcastica «e ricevuto il tuo nastro».
Rise di gusto. «Già… e così…».
«E così siamo ancora in strada. Ho i passaporti falsi già pronti».
«Siamo pazzi».
John guardò dritto davanti a se. «Pazzi abbastanza da sparare l'ultimo colpo in bocca alla luna».
Ray sorrise stupidamente.


 
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1 Il Centenario e le sue caratteristiche sono reali. Il diamante pesava circa seicento carati nella sua forma grezza. La De Beers affidò il taglio ad un gruppo guidato da Gabi Tolkowsky, il lavoro fu terminato nel 1991. Sono circolate voci che nel 2006 il diamante sia stato venduto, ma la De Beers protegge l’anonimato dei suoi acquirenti.
2 Citazione dal testo della canzone “Real wild child” di Iggy Pop.
   
 
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