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Autore: _pioggia_    03/08/2014    4 recensioni
"Avete presente quelle volte che vi svegliate con la sensazione che succederà qualcosa di positivo? Quando avete il cuore in gola sapendo che potrebbe accadere ciò che stavate sognando da anni? Che potreste avere il coraggio di scrivere una lettera d'amore, lasciarlo nella posta del vostro amore segreto e sperare che vi arrivi la risposta con scritto che vi ricambia?
Bello.
Nemmeno io."

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||Storia in fase di revisione||
Genere: Comico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harry Styles, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Una giornalista, un cantante e un libro

Una giornalista, un cantante e un libro

PROLOGO
Avete presente quelle volte che vi svegliate con la sensazione che succederà qualcosa di positivo? Quando avete il cuore in gola sapendo che potrebbe accadere ciò che stavate sognando da anni? Che potreste avere il coraggio di scrivere una lettera d'amore, lasciarlo nella posta del vostro amore segreto e sperare che vi arrivi la risposta con scritto che vi ricambia?
Bello.
Nemmeno io.






Era da tempo che il pubblico stava chiedendo un romanzo rosa a "Señora" Gonzales e l'arrivo fece andare in panico la redazione che cercava disperatamente un'addetta alla traduzione del libro. Scelsero me per tradurre "Prenguntamelo entre dies dias" dallo spagnolo all'inglese. I mesi a seguire dall'uscita inglese dovetti confrontarmi con Sofia e capire che cosa voleva raccontare sul suo libro alla gente e cominciai un mini-tour promozionale. La stampa voleva sapere anche un po' della vita privata di Sofia Gonzales e mi limitai all'essenziale: «La signora Gonzales vive in una casetta di campagna vicino alla spericolata Città del Messico, spesso è stata derubata, ma niente l'ha fermata. Ha due bellissimi figli: Carlos e Agustina, già diventati adulti vaccinati e il marito lavora come medico nell'ospedale della città a loro più vicina. Vive una vita tranquilla per il momento, ma pensa di trasferirsi in Canada al più presto. Magari tra qualche mese o anno avrete la possibilità di parlare con in persona». Sorridevo sempre quando parlavo di lei, indipendentemente dall'umore, sorridevo. Ai giornalisti non interessava molto se fingessi di essere felice o no, l'importante era che dassi le informazioni che loro volevano.
Ero nuova nel settore.
«Ventenne, novellina, che potrebbe mai fare, è già troppo se traduce libri stranieri» era quello che sentivo ogni mattina entrando al lavoro davanti alla macchinetta del caffè. Nessuno sapeva, però, che avevo scritto un libro e che più e più volte avevo cercato una casa editrice disposta ad accettare il mio romanzo e tutte lo rifiutavano perché "Il settore è pieno di questi romanzi" oppure "Riveda la scrittura, non convince". Passavo le notti in bianco con la tazza di caffè in mano a leggere e rileggere attentamente, ma non trovavo errori, allora decisi di contattare una beta reader. Mi aspettavo qualche correzione qui e là, ma avevo sopravalutato la mia abilità di scrittura: ero ancora "all'ABC" della letteratura.
Forse la delusione mi ha fatto decidere di prendere le distanze dalla scrittura e mi dedicai alla sola traduzione dei libri della Gonzales e alla lettura dei romanzi che mi attraevano di più. Tuttavia qualche mese dopo l'uscita dell'ultimo libro della trilogia "Angel" di Sofia, decisi di rimettermi sulla scrittura e scrivere qualcosa di più originale con i personaggi più comuni, famosi e non. Provai con una storia situata nel Medioevo e ottenne un notevole successo, per me che ero una matricola in questo campo, ma in verità la cosa si dimostrò un vero fallimento per la casa editrice, la quale decise di darmi un'altra possibilità. Ritentai di salire in cima con il mio secondo romanzo. Questa volta mi avventurai su qualcosa simile all' autobiografico. Decisi di impersonarmi nei panni di una certa "Sakura" e di creare una vita simile alla mia dove trovarmi a mio agio.
Il successo fu il doppio del primo.
La stampa mi chiedeva se avessi intenzione di scrivere un terzo libro o addirittura di cominciare una serie. Il libro era piaciuto, specialmente al pubblico adolescente/neo-adulto. Non ci avevo pensato, non era assolutamente nei miei piani e, sinceramente, nemmeno il secondo romanzo era programmato, figuriamoci il primo. Pensavo di continuare con la mia carriera giornalistica, perché sì, avevo un secondo lavoro, essere una scrittrice era un hobby ma il lavoro con il quale continuavo ad andare avanti era il giornalismo. Quindi negai la possibilità di un terzo romanzo.




Stavo facendo zapping quando il telefono fisso squillò.
«Arrivo!» urlai come se stessi parlando con una persona, ma in verità mi stavo rivolgendo a un semplice rettangolo nero dagli angoli appuntiti e dallo spessore di tre centimetri con lo schermo arancione che brillava a intermittenza.
Una voce femminile rispose dall'altra parte. Era mia madre.
Guardai il calendario: mancava molto al ventiquattro dicembre, ma non per mia madre, la quale doveva programmare la Vigilia e il Natale con quattro mesi di anticipo. Entravi in casa sua e sentivi già i campanellini suonare all'infinito sul registratore con il CD natalizio che ricominciava ogni volta che finiva "Jingle Bells". Era l'unica canzone su un disco da nemmeno un giga byte.
Indipendentemente che fosse settembre e il caldo si facesse sentire ancora, la trovavi seduta sulla sedia a dondolo intenta a cucire uno delle sue chilometriche sciarpe per i suoi "nipotini", che non erano nemmeno suoi sanguignamente ma quelli della sua vicina di casa Christine.
Lei e la sua migliore amica passavano i pomeriggi ad osservare ogni minimo movimento delle giovani ragazze che passavano davanti alle loro case ignare di quante chiacchiere si sarebbero fatte su di loro le vecchiette del quartiere. Criticavano le loro gonnelline, i loro pantaloncini che sembravano mutandine sfilacciate - devo dire che su questo avevano ragione -, i loro crop top che erano niente male, le loro canotte troppo scollate e i maglioni troppo larghi. Non potevano fare a meno di criticare il loro stile, che d'altronde era simile al mio, e pensavo continuamente che almeno una volta dovevo essere stata il soggetto delle loro discussioni.
Me le immaginavo mentre si rialzavano gli occhiali, i quali gli scivolavano sui loro nasi rugosi, con un gomitolo di lana sulle gambe e cucire mentre si dondolavano sulle loro sedie a dondolo scricchiolanti e antiquati.
Cercai di tagliare corto la conversazione con mia madre Claire in quanto lei voleva tenersi aggiornata sulla mia vita quotidiana sperando che avessi trovato l'amore della mia vita o qualcosa che avrebbe sconvolto la mia esistenza in positivo, in modo da avere qualcosa su cui sparlare con la sua amica e farlo sapere poi al resto della compagnia che si diramava fino alla salumeria della periferia del paesino vicino.
Già, era piccolo il mondo.
Anzi, la cittadina.
In quel piccolo insieme di paesini disposta a croce su una valle al confine della Svizzera, dovevano esserci - a occhio e croce - circa trentamila abitanti, se non di meno. Gli inverni erano freddi e le estati non erano di certo come quelle lungo le coste statunitensi, quindi la gioventù preferiva trasferirsi verso le grandi città, lasciando quei piccoli comuni in mano agli anziani che li avrebbero portati avanti con i loro metodi un po' "retrò".
Le strade in comunicazione con la "vera civiltà" erano poche e spesso bloccate da improvvise nebbie, caduta di massi o neve - in inverno - e quindi il lavoro che distava un'ora diventava un continuo "Scusate, ma devo prendere delle ferie perché non posso andare a sgobbare come voglio e portarmi i soldi a casa a causa di...Scusatemi di nuovo, c'è una caduta massi in corso e devo andare a ripararmi le natiche" seguito da un ironico "Ma sorridete sempre. Ciao!" oppure un semplice susseguirsi di Biip o perché Tizietto aveva perso il telefono tra le macerie oppure aveva riattaccato perché non era in grado di fare due cose contemporaneamente e avrebbe dovuto scegliere tra il "Allora che mi dici bello? Com'è il tempo? Da me si MUORE sotto le macerie, ma è tutto okay, nella norma..." e il "Senti coso, vai a quel paese, devo salvarmi, cia-... Biip...Biip".
Per non parlare della natura. Poteva sembrare bella, innocua, ma questo era solo una delle maschere che il bosco indossava. Era sicuramente un'attrice migliore di mio padre che si fingeva malato per non andare a tagliare la legna e mandarci il figlio - a quei tempi sedicenne - che si sarebbe solamente tagliato gli arti inferiori e superiori non sapendo usare un'ascia.
Fortuna che c'era sempre Jacob, il marito di Christine, a fornirci la legna quando mio padre si svegliava con la pigrizia.
Ma comunque non era di questo che stavamo parlando.
La natura era sempre verde, le conifere dal tronco robusto si disponevano ai lati della strada e la rendevano inquietante. Non lasciavano vedere una minima parte del cielo che sembrava notturno, sembrava che qualcuno avesse spento magicamente il sole.
Il laghetto era la sola unica "fonte" di luce. Attorno ad esso non v'era alcun albero che coprisse il bacino, di conseguenza mio fratello, che era amante delle stelle, mi portava ogni notte lì ad osservare il cielo notturno con i suoi piccoli cristalli luminosi.
Era sempre nuvoloso e pioveva sempre. Era già troppo se un giorno i raggi deboli del sole riuscivano a farsi strada nella muraglia di nuvole, che con il tempo si era "solidificata" sulla zona. Le "spade" luminose si riflettevano sul grande specchio d'acqua, ma non per più di tre ore una volta ogni due mesi.
Quindi ballare il "Ballo della pioggia" diventava automaticamente un'eresia per chi, come mia madre, pregava ventotto ore su ventiquattro perché il sole tornasse a risplendere sugli ortaggi che non crescevano mai senza l'aiuto di lampade specializzate per l'agricoltura; mentre diventava un dono caduto dal cielo per chi, come mio padre, era alla ricerca di funghi tutto l'anno.
Avrebbe potuto sopravvivere di solo quelli senza preoccuparsi che la moglie rientrasse a casa disperata per lo scarso raccolto di ortaggi a fine settembre.
Per colpa di quel tempo, fino a che non ebbi ricevuto la patente, non avevo mai visto una ciliegia in vita mia. La prima volta che le vidi - a New York - chiesi al commerciante che cosa fossero e lui mi guardò come se fossi un alieno che si era impossessato del corpo di un umano e lo stesse usando per prendere appunti sui comportamenti della specie che aveva appena scoperto.
«Sono delle semplicissime ciliegie, signorina...» aveva mormorato guardando continuamente il frutto che avevo in mano e la mia faccia.
«Ah...» soffiai abbassando lo sguardo imbarazzata e intuendo che la domanda che avevo fatto doveva essere abbastanza imbarazzante, chissà cosa aveva pensato quell'uomo dal grembiule bianco macchiato dal succo del cocomero - altro frutto scoperto nella "Grande Mela" -. Ancora più imbarazzante fu quando lo vidi all'entrata dell'appartamento accanto al mio, scoprendo che viveva lì. Aveva ventidue anni quando lo conobbi. Alto, corpo atletico, occhi verdi e capelli castani corti, insomma, un bocconcino, ma a me non attraeva. Con il tempo era diventato un amico e il mio fruttivendolo di fiducia.
A diciannove anni avevo deciso di farla finita di quella vita in campagna nella casa dei miei genitori e di "spiccare il volo con le mie stesse ali", troppo fragili al tempo.
La prima settimana era passata tra scoperte che mi avevano sconvolto l'esistenza. Sembravo come quegli Amish in Tv che venivano da chissà dove per scoprire il mondo e allontanarsi dalle regole severe del loro credo - quando cominciai a seguirli mi rispecchiai in loro in tutto -, eppure io non ero una di loro. Forse veramente nel paesino da dove venivo si andava avanti come se vivessimo nel diciannovesimo secolo.
Poi, da un giorno all'altro, mi ritrovai in un ufficio grigio composto da una scrivania, un computer, una stampante e un pacchetto di post-it verdi aperti e usati a metà insieme ad una penna nera non funzionante e un mucchio di documenti di personaggi famosi da analizzare e da raggruppare in più articoli per una rivista per donne neo-adulte che amavano usare i loro soldi per fare shopping e riviste ed essere sempre alla moda.
Il resto lo sapete già.

«Si. Okay. Va bene mamma. Sine ma'. Ci vediamo ma'. Okay. Ma'... Okay, C-i-a-o!»
Chiusi la chiamata felice che fosse finita quella tortura.
Tornai a sdraiarmi sul divano a continuare l'azione che avevo interrotto prima. In Tv non c'era assolutamente niente da vedere. Decisi, allora, di appollaiarmi sulla mia poltroncina a quattro ruote e di cominciare quello che mi ero promessa di non fare.
Cominciare un terzo libro.
Le idee erano tante, ma non tutte non avrebbero prodotto i frutti che io e la mia casa editrice volevamo. Dovevano essere comprate, almeno, mille e cinquecento copie altrimenti avrei dovuto rintanarmi nel mio appartamento alla ricerca di qualcuno interessato a fare affare con i libri oppure di venderli per eBook e incrociare le dita, sperando di raggiungere il mio obbiettivo, un giorno.
Non volevo andare alla cieca come avevo fatto prima per i primi due romanzi, volevo cimentarmi su qualcosa che sicuramente avrebbe venduto, che sarebbe piaciuto specialmente al pubblico femminile adolescente, perché era su di loro che contavo.
Negli ultimi anni avevo visto aumentare le ragazze tra i tredici e i venti anni andare in giro alla ricerca di un libro da leggere, se non in inverno almeno in estate, per leggerli sotto l'ombra dei loro ombrelloni.
Le mie speranze erano rivolte esclusivamente a loro.
Cercai su internet quali potessero essere i principali interessi delle ragazze, nonostante fossi una di loro. Mi cimentai in una ricerca approfondita e dimenticai completamente l'articolo che dovevo presentare il giorno dopo al capo.
Saltai la cena pur di ultimare il lavoro che avevo lasciato da parte. Non volevo, di certo, controllare la posta e ritrovarmi una lettera d'avviso che se avessi fatto una cosa del genere un'altra volta mi sarei ritrovata con la scatola dei miei averi in mezzo alla strada.
L'articolo al quale dovevo occuparmi aveva del contenuto interessante per chi cercava di scrivere qualcosa per le ragazzine. I soggetti erano i famosi "One Direction". Se avessi scritto il libro con loro cinque o con anche solo con uno di loro avrei fatto sicuramente soldi a palate, perché era ovvio che tutti, dietro le quinte, si aspettavano il mio salto di qualità e certamente non mi sarei fatta sfuggire l'opportunità per fare diventare il mio nome l'ennesimo tra i più conosciuti. Avrei, sicuramente, guadagnato molti soldi con i diritti d'autore e allora perché non approffittarne?
L'unico problema? Scrivere con un linguaggio adatto all'età adolescenziale e la cosa non mi spaventava. Ero appena uscita da quella tappa e ricordavo ancora come ci si sentiva quando un brufoletto ti spuntava proprio dove non volevi ed eri talmente ossessionata da esso che ogni volta che lo guardavi sembrava che ti facesse "Ciao Ciao" con una manina sbucata da non si sa dove mentre ti cacciava fuori la lingua, burlandosi spudoratamente di te.

Avevo deciso di immergermi in quella missione e non sarei risalita in superfice finché non avrei finito.







Non che non sappia mettere suspence alla storia, ma spero vivamente di avervi incuriosito un pochino anche se la mia fanfic non è una di quelle che contengono sedie e lampade agli angoli  per rendere l'ambiente più cupo e intrigante. Ammetto anche che il prologo non è certamente leggero e che per questa fan fiction mi sono lasciata ispirare dal libro "A meno che" di Carol Shields - romanzo che vi consiglio vivamente di leggere -. Odiatemi se vorrete, perché non saranno presenti tutti e cinque, ma uno di loro e gli altri quattro faranno una piccola apparizione verso la fine.
Aggiornerò ogni sabato - o domenica se per caso non avessi tempo -.
   
 
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