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Autore: Woland in Moskau    06/08/2014    0 recensioni
L'orrore, cos'è davvero l'orrore di fronte allo sfacelo del Colonialismo, specialmente se osservato attraverso gli occhi del suo maggior promotore? Un'esperienza di fronte agli effetti concreti di tale ideologia può cambiare molto, anche per una nazione logorata e algida come l'Impero Britannico.
{ Arthur!Centric; Headcanon; Crossover }
Genere: Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: Cross-over | Avvertimenti: Tematiche delicate
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ℭongo - 1902


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«Che orrore! Che orrore!»
I rumori del fogliame erano indistintamente ipnotici, l'umidità sembrava trasparire dalle grasse, unte e rubiconde foglie, madide di una tessitura perlacea, liquida, che pareva richiamare il sudore sulle fronti dei due uomini dall'incarnato cinereo. Gli occhi vibranti di Arthur rilucevano come torce ardenti, come le stelle che, alzando appena il volto, erano incastonate nel fervidamente corvino firmamento durante la notte. Uno squittio spaventato, decisamente poco virile, gli fece storcere con fastidio innervosito il naso, mentre i suoi lumi, disturbati, non si distoglievano dallo scenario che aveva creato un tale scompiglio emotivo nel funzionario grassoccio che, per sua sfortuna, doveva accompagnarlo alla ricerca del colonnello Kurtz, il quale, ormai, deteneva un monopolio commerciale, che risultava particolarmente scomodo alle compagnie europee. L'avorio era, effettivamente, una merce ben investibile nel Vecchio Continente di quei tempi. 
Rotonde, arse dalla calura, talvolta impalate per creare un maggior rimescolio nauseato in chiunque le incontrasse, delle teste umane, mozzate, decapitate, con ancora stampato sui lineamenti sformati l'orrore subitaneo della morte, aprivano la via verso un tempio dalle fatture indigene, controllato da alti Masai, o Watussi (Arthur, dall'alto della sua aristocrazia europea, di certo non conosceva quei popoli barbari a menadito). Semplici cannibali, con i muscoli da giaguaro dipinti di bianchi motivi ipnotici, che si perdevano da semplici forme geometriche, sino a diventare magistrali composizioni artistiche su quei corpi scultorei. Gli occhi color della pece, tristemente consci di qualcosa, convinti, però, nella loro mesta follia (o ignoranza?) tenevano d'occhio i due pallidi visitatori, stringendo con fervore le lance pennute e sporche di sangue che impugnavano.
«Come siamo impressionabili, signor Collins.»
La voce vibrante dell'uomo più smilzo cantilenò, sarcasticamente, poche semplici parole, mentre i suoi occhi sembravano sfidare quelli felini dell'indigeno posto all'ingresso di quell'ammasso di pietre, a ricordo di una piramide azteca, ugualmente arso dal sole. Il villaggio, laddove si ritrovava Kurtz, era appena oltre quel tempio pagano.
«Non scherzate, Kirkland. Io nemmeno dovrei trovarmi in questo posto.»
«Non l'avrei mai detto che non foste uomo da esplorazioni.»
Il volto scavato dell'apparentemente più giovane finì sul panciotto finemente ricamato, fuori luogo, del baffuto signor Collins, il cui viso suino, paonazzo e grasso, macchiato, ricordava tanto quello di un maiale al macello e Arthur non poteva che osservarlo con disgusto nella sua tenuta così pacchianamente ostentante il proprio status sociale. L'organza della camicia, il damascato del completo vittoriano, nonché quel ridicolo cappellino che tanti investitori europei sembravano dover necessariamente sfoggiare qualora ricercassero avorio, o uomini, nell'Africa Nera. Il dorso di una mano bianchiccia, ricamata di bluastre vene gonfie per il caldo, pulì in un gesto di stizza la fronte alta, per poi lasciar ricadere, scompostamente, il pagliericcio spettinato dei suoi capelli biondi, arsi e chiari, su di essa. 
«Venite più avanti. Non ci farà nulla, ci riconosce come Kurtz, o qualcuno di simile a lui, insomma.»
Tetramente, l'inglese parlò e, con un gesto scaltro, prese il polso umidiccio dell'altro, non ascoltando minimamente le parole spaventate e lamentose del compagno, avvicinandosi all'alto indigeno alla propria destra che, con un gesto di riverenza che pareva quasi sacrale, spostò la propria lancia, lasciando ai due uomini il permesso di avviarsi lungo quelle scale lontane nel tempo, che aprivano la visuale ad uno spettacolo raccapricciante per l'uomo bianco comune, che, pure, l'inglese aveva sempre ritrovato affascinante nella sua ritualità. Un falò ardeva al centro di uno spiazzo composto per lo più da terriccio argilloso, ma al momento arso, spaccato nemmeno fosse una zolla continentale scoperta, così contrastante con la rigogliosa vegetazione color smeraldo, talmente vivida da sembrar gocciolante un'ambrosia venefica, composta da vene ed arterie tronfie, pompanti linfa vitale per esse, mortale per l'uomo. Al centro una donna, la sciamana, tendeva le braccia magre ed i seni scoperti al cielo, gli occhi bianchi, come coperti di cataratta, sbarrati; la testa, appesantita da un tipico copricapo, era riversata all'indietro, mentre dalle sue labbra fuoriuscivano parole concitate in un'idioma sconosciuto. Infine, seduto su un trono ligneo, con una collana di dita mozzate di varie lunghezze ed orecchie accartocciate al collo, stava Kurtz; l'uomo, che Arthur ricordava come prestante e dal fisico massiccio, ora, osannato da negri che gli ballavano ipnoticamente intorno, pareva l'ombra di sé stesso, un fantasma richiamato dall'oltretomba grazie ai poteri pagani della strega che guidava il rituale, un dio che l'inglese aveva ritrovato nei “conquistadores” spagnoli, nei loro inganni, all'epoca della colonizzazione delle Americhe. Questi popoli, ingenui nel proprio essere ancestrali, vicini alla più semplice e incorrotta natura umana, alla più genuina e istintiva organizzazione sociale, avevano visto l'uomo bianco e, ugualmente alla loro controparte amerindia, lo avevano esaltato come pura divinità. Come esempio da venerare, idolatrare. L'inglese deglutì e percepì una sensazione amara scavargli, bruciargli letteralmente, l'esofago. 
«Che negri volgari, che bestie senza civiltà. Credo bene che quell'idiota di Kurtz sia riuscito ad ingannarli!»
La voce suina di Collins, come un ronzio fastidioso, riportò il britannico alla realtà, interrompendo le sue paranoiche, meste, elucubrazioni mentali. Emise un verso infastidito, facendo ancora qualche passo avanti, osservando la bestia sacrificale, presumibilmente un'antilope, mentre veniva posta di fronte alla donna ossuta e scura, la quale, ancora, recitava nenie aborigene.
«State zitto. Se aveste un briciolo di cervello, capireste come tutto ciò sia tristemente affascinante. Ma siamo qui per l'avorio che spetta a voi e alla vostra compagnia. E per rendere giustizia ai crimini commessi da quell'uomo.»
Gli occhi piccoli e iniettati di sangue dell'investitore si puntarono in quelli grandi e lievemente sporgenti dell'altro. Si sentì, per un veloce momento, di ribattere a quelle parole offensive, a cui nessuno negli alti ranghi britannici si era mai davvero abituato; ciò nonostante quei lumi, quel volto a tratti elfico nel suo pallore, aguzzo, si portava addosso un senso di mestizia e di serietà che andava oltre i pilastri del tempo. Quante volte quel Kirkland aveva superato le colonne d'Ercole con la sua faccia tosta, indifferente, a quanto pareva, di fronte a tutto? Sistemandosi l'adipe eccessivo sullo stomaco dentro i pantaloni pregiati, Collins grugnì appena, deciso infine ad assumere un atteggiamento remissivo, nel mentre si accomodava in una cavità che nascondeva quello spettacolo rudimentale e così duro, rozzo, per lui. 
«Dunque sbrigatevi. Io v'aspetto qui.»
I passi felpati di Arthur, attutiti dalla suola rotta dei propri stivali in pelle, non attirarono l'attenzione della tribù. Pur tuttavia, gli occhi cangianti, grigi palude, al sole di una sfumatura di blu alla quale l'inglese non era mai stato indifferente, di Kurtz non avevano desistito dalla sua figura lievemente rachitica, riconoscendolo dal primo momento in cui era emerso dall'arco che portava a quella radura nascosta. Gli uomini danzavano, erraticamente, si spingevano, si toccavano, si inginocchiavano al suolo sbucciando i loro legamenti ossuti e nodosi, rialzandosi con le ginocchia ed i gomiti più chiari per il terriccio. Il britannico sgusciò con maestria tra di essi, non perdendo mai il contatto visivo con quei miseri occhi azzurri. In un gesto abitudinario, che Arthur ricordava da decenni addietro, il colonnello si portò una mano grande alla testa calva, accarezzandosi con mestizia il capo pieno di bozzi e cicatrici, pur tuttavia così ben rasato, con una perfezione e meticolosità che l'inglese non poté che apprezzare. 
La mano di Arthur, al contrario, cadde nella tasca un po' slabbrata, scucita, della camicia larga, un tempo pregiata, che indossava. Essa risultava aperta in più punti che mostravano il suo busto eccessivamente ossuto; frattanto, le dita accarezzavano il metallo, giocherellavano con la punta affilata di un pugnale che si portava dietro da tempo immemore; le imprese di Alfred the Great come motivo decorativo dell'impugnatura. 
Un sorriso di convenienza, quasi come di scuse, si dipinse sul volto di Kurtz, i cui occhi ora sembravano addirittura languidi, liquidi. L'inglese, anche successivamente, sarebbe rimasto convinto che in quel momento l'uomo mesto, in cui si rispecchiava perfettamente, avesse ricordato la conversazione avuta prima che egli stesso si ammalasse, in quella tribù, prima che diventasse succube della propria sete di potere, quando ancora l'Imperialismo, il peso dell'uomo bianco, il diritto morale, etico, che egli si portava dietro, la civiltà di matrice classica, diventassero pretesti perfetti, creati ad hoc, per arricchire le proprie finanze, ma anche il proprio orgoglio. Per rimpinguare di ricchezze il perennemente empio forziere dell'avidità. Per colmare mancanze di tipo diverso.
Arthur corrucciò lievemente le labbra, nel momento in cui un'ombra di ipocrisia, di senso di colpa, attraversò la propria mente cavillosa, già impegnata a figurarsi i movimenti che, di lì a poco, avrebbe compiuto. Veloce ed indolore, una morte non necessariamente troppo dignitosa, ma nemmeno straziante. Non di certo per propria misericordia, o che altro; semplicemente, quell'affare andava sbrigato il prima possibile. Dunque, nello stesso momento in cui il grosso mammifero veniva squartato da lame primitive in punti vitali, ugualmente il britannico mandava al macello quell'impuro esempio di colonialismo, di presunzione, di divinizzazione mal riuscita, affondando il proprio pugnale nella carne marcia e malata di Kurtz, lasciando che schizzi di sangue gramo e scuro macchiassero la propria camicia e il proprio volto pallido, appena scottato sotto i vividi, per un momento crudeli nella loro indifferenza, occhi verdi.

Paradossalmente, successivamente a quella retata, dopo aver eseguito magistralmente gli ordini, Arthur non avrebbe più messo piede nell'Africa Nera. 

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Ho visto degli orrori, orrori che avete visto anche Voi. Ma non avete il diritto di chiamarmi assassino. Avete il diritto di uccidermi, questo sì, ma non avete il diritto di giudicarmi. Non esistono parole per descrivere lo stretto necessario a coloro che non sanno cosa significhi l'orrore. L'orrore ha un volto e bisogna essere amici dell'orrore. L'orrore ed il terrore morale ci sono amici. In caso contrario allora diventano nemici da temere. Sono i veri nemici. [...]






Note finali: Questa è un headcanon a cui sono molto legata, creata appositamente per il mio profilo roleplay di Arthur Kirkland aka Inghilterra, che purtroppo non mi appartiene. I riferimenti sono ad Heart of Darkness di Joseph Conrad, nonché al film ad esso ispirato Apocalypse Now di Francis Ford Coppola. Il personaggio di Kurtz appartiene, dunque, parallelamente, a questi autori. Ringrazio Cali, la mia partner di role, nonché "editrice", per avermi aiutata ad aprire i miei fottuti periodi INNEGABILMENTE troppo lunghi di questa one-shot, betandola! 
  
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