DRINK
YOU PRETTY
Capitolo 1
Entrò
nell’aula, in cui regnava
il caos generale, e si sedette in quarta fila, secondo banco da
sinistra, il
suo solito posto. Dopo aver appoggiato lo zaino pressoché
vuoto a terra, stese
le gambe sotto il banco e incrociò le braccia al petto, in
attesa.
La
professoressa entrò in classe,
guardando immediatamente nella sua direzione. Si dovette trattenere dal
sorridere. Allora, dopotutto, la sua presenza non era indifferente per
tutti.
«Quale onore, signor Leto». Jared
accennò un inchino con il capo, scatenando
dei risolini nei compagni. La donna lo fissò per alcuni
secondi con un sorriso
che sembrava finto da quanto era tirato sulle labbra, e poi prese a
sfogliare
il libro aperto sulla cattedra. «Visto che abbiamo il grande
onore di averla
qui con noi, e devo dire che ne sono davvero sorpresa, ormai avevo
smesso di
credere nel miracoli da molto tempo (risate
generali) mi chiedevo, se per caso, potesse parlarci
dell’autore che andava
studiato per oggi». Jared non rispose, sfidandola con lo
sguardo. «Sembra che
lei non sappia nemmeno chi sia, signor
Leto, o mi sbaglio?». Domanda retorica: ovvio che non lo
sapeva. Non era stato
presente alle ultime… quattro, cinque lezioni? Non lo
ricordava nemmeno. Flash
di bottiglie di alcool sparse per la camera da letto sua e di suo
fratello gli
permearono la mente. E anche qualche paio di gambe nude.
Sentì
una fitta allo stomaco,
come se qualcuno gli avesse dato una gomitata, e un respiro veloce
sempre più
vicino all’orecchio. Qualcuno gli aveva davvero
dato una gomitata. Era una ragazza, che non aveva visto entrare
né tantomeno
sederglisi accanto. Solitamente nessuno occupava mai il posto vicino al
suo,
quando si presentava a scuola, era una regola non detta ma che tutti
rispettavano perché la gente rispettava lui, come se fosse
pericoloso. La
ragazza lanciò uno sguardo alla professoressa e, tutto
d’un fiato, soffiò «Egon
Shiele», tanto che il suo respiro gli sembrò
condensarsi sul lobo, per quanto
era caldo e vicino.
Un sospiro
uscì dalle labbra
della professoressa. «Bene, credo che a questo punto
l’unica cosa da fare si
mandarla in presidenza e…».
«Era
infelice», la interruppe
Jared.
«Come,
prego?»
«Ho
detto che era infelice. La
malinconia gli è rimasta attaccata addosso per tutta la
vita».
«Perché
dice ciò?», chiese la donna,
interrompendo i mormorii che continuavano a
percorrere l’aula, e fissando lo sguardo su quello del
ragazzo, incredula.
«La
morte del padre quando era
molto giovane, i cattivi rapporti con la madre, i conflitti interiori
che lo
condannarono per tutta la sua breve vita».
«Breve?»
«Morì
a 28 anni».
«Sembra
sapere molte cose. Ci
parli della sua vita, della sua prima esposizione, delle
amicizie…»
«È
veramente importante?»,
domandò Jared, nella voce un tono diverso da quello che di
solito utilizzava:
piatto, indifferente. La ragazza che gli era seduta al fianco, e a cui
lui non
degnava nemmeno di uno sguardo, credette di sentire della rabbia,
frustrazione
forse, ma sicuramente vi sentì dell’irritazione.
«Voglio dire, la sua vita, le
date dei suoi dipinti, il numero di volte in cui ha incontrato Klimt al
Cafè
Museum di Vienna, chi finanziò le sue opere, tutte queste
cose, sono davvero
importanti in confronto a quello che voleva dirci con la sua pittura,
rispetto
a cosa ci urlavano quei tratti neri che delineavano i corpi? E quei
colori così
spenti, stanchi? Non sembra quasi che ci abbia voluto affidare il suo
dolore
così che potesse essere capito, perché magari
nessuno lo ascoltava, perché
magari mai nessuno lo aveva ascoltato? Perché, magari, si
sentiva solo, e
l’unica cosa che sapeva fare era dipingere la sua agonia, le
sue mancanze, i
motivi che lo rendevano triste, perso, affranto?»,
terminò la sua risposta con
il fiato corto, il busto teso in avanti, come se fosse pronto a
lanciarsi,
alzarsi dalla sedia e correre fuori da quel posto, come un leone in
gabbia che
quelle sbarre che lo rinchiudono non le vuole più vedere, le
dita puntate
contro di lui nemmeno, come se tutti lo stessero giudicando, come se il
vociare
dei bambini che sentiva intorno avesse più influenza su di
lui rispetto a
quello che dava a vedere, perché non lo capiva, o lo faceva
fin troppo bene.
«È
una buona interpretazione la
sua, signor Leto», disse la giovane donna, mordendosi la
lingua.
«La
ringrazio, signorina Logan»,
rispose lui, sbeffeggiandola apertamente.
«Qual
è la sua opera preferita?»
Jared
giocherellò per alcuni
secondi con la penna, rimanendo in silenzio, guardandola.
«Kauerndes Maedchen»,
disse infine.
«È
sicuro che sia una sua opera e
non se la sia inventata al momento?»
«Qual
è la sua? Mi sembra una di
quelle persone a cui piace molto l’Abbraccio».
«Mi
sta forse dicendo che sono
una persona banale, dato che quella è la sua opera
più conosciuta?»
«Io
non sto dicendo nulla, ho
solo fatto una domanda, come lei ne ha fatte molte a me».
La donna si
schiarì la voce,
spostando lo sguardo sul libro. «Io sono la sua
professoressa, posso farle
quante
domande voglio e
quando ne ho voglia, mi ha capito?»
«Certamente,
le chiedo scusa»,
disse lui. La ragazza affianco a lui si sentì mancare un
battito: se avesse
chiesto a lei scusa con quel tono di voce, probabilmente ci avrebbe
litigato
costantemente, solo per sentirsi implorale in quel modo. In
più, quella che
aveva iniziato con l’essere una semplice interrogazione, ora
sembrava una scena
televisiva della migliore telenovela brasiliana, e lei non aveva
intenzione di
perdersene nemmeno un secondo. Forse, dopotutto, non era poi stato
così male
cambiare stato.
«Si
alzi e venga alla lavagna».
Jared raggiunse la cattedra della professoressa e, affiancandosi alla
lavagna,
le sfiorò la coscia con una mano. «Disegnami
questo dipinto dal nome
impronunciabile, mentre io vado avanti con la lezione». Gli
passò un gessetto,
che Jared si curò di prelevare sfiorando le sue dita in un
gesto lento. Le
voltò le spalle, e rimase ad occhi chiusi davanti alla
superficie nera per
alcuni secondi, respirando piano. Sentiva venti e più paia
di occhi puntanti
sulla sua schiena, anche mentre la professoressa aveva ricominciato a
parlare,
elencando le date più importanti della vita
dell’autore, quelle che lui non
aveva detto. Finito il disegno, appoggiò il gesso ormai
consumato sulla
cattedra e si avviò verso il suo posto, sedendosi poi con la
solita posizione
arrogante.
«Continuo
a non conoscerlo»,
affermò la donna anche dopo averlo osservato a lungo.
Jared si
alzò, raccolse lo zaino
da terra, e con lentezza camminò verso la cattedra,
guardò il suo disegno (e
pensò che era venuto decisamente bene, anche se il piede
della ragazza aveva
qualcosa di sbagliato, e anche la pancia, quel ciuffo di capelli andava
più
folto… ma infondo lui non era Egon Shiele, si disse),
incrociò lo sguardo della
professoressa e uscì dall’aula, sentendosi alle
spalle l’eco della voce della
donna che lo chiamava. «Leto?
Signor
Leto? Jared! Oh per l’amore del cielo, torna
indietro!». Sorrise e allungò
il passo verso la biblioteca della scuola, fortunatamente poco distante
dall’aula in cui si trovavano, prese un libro, lo
sfogliò trovando esattamente
quello che cercava, e ritornò in classe a grandi falcate,
depositandolo sulla
cattedra, sotto lo sguardo incredulo dei compagni.
«Come
le dicevo, signorina Logan,
il mio dipinto preferito di Shiele è Kauerndes
Maedchen». Era a pochi
centimetri da lei, sentiva la camicia sfiorarle la maglia leggera. Le
si
avvicinò ancora. «Non crede che le somigli,
professoressa?».
Suonò
la campanella.
Jared se ne
andò, un sorriso
sulle labbra, lasciando la giovane donna (i capelli rossi, la pelle
diafana, il
naso piccolo, la vita sottile, le gambe fine e lunghe, proprio come la
ragazza
del dipinto) con le gote rosse di imbarazzo e un’eccitazione
nella pancia che raramente
aveva provato nei suoi ventisei anni.
Chi
l’aveva detto che non si
poteva scegliere il proprio dipinto preferito in base a quale sarebbe
stato più
conveniente scegliere, in una determinata situazione?
«Chi
sei tu per provocarmi in
quel modo davanti ai miei studenti?», chiese lei, la voce
alterata, dopo averlo
preso per la camicia e averlo fatto entrare dentro un’aula
vuota, alla fine
delle lezioni.
Jared
sorrise. «Un tuo studente».
Allungò una mano e le carezzò la guancia con il
dorso liscio, e lei chiuse
istintivamente gli occhi. Sembrava che tutto il desiderio che una donna
potesse
provare si fosse trasformato in un grumo nella pancia, e ogni volta che
il
respiro di lui le colpiva il volto, o una parte del suo corpo toccasse
accidentalmente quello di lui, il grumo di contraesse, come in estasi,
come a
voler disfarsi ed esplodere.
«Smettila».
Lui le si
avvicinò, sfiorandole
con le labbra la fronte, le palpebre chiuse, il naso piccolo (il respiro di lei comincia ad accelerare),
il mento, l’incavo del collo, e poi prese soffiare sui suoi
capelli sciolti
sulle spalle, le cui punte terminavano in dei piccoli boccoli, per poi
risalire
e fermarsi a pochi millimetri dalla sua bocca. «Sai che non
vuoi».
Lei
sospirò, e quello che uscì
assomigliava tanto ad un lamento. «Mi farai
licenziare».
«Sono
così stronzo con tutti i
professori, i miei compagni non avranno notato la differenza tra il
battibecco
di oggi e quello di ieri con Mr. Stone». Lui le
leccò il lobo dell’orecchio,
come per confermare che lui era
stronzo.
«Non
qui», ansimò la donna.
«Oh,
Emily, perché no?», soffiò
Jared, mentre con una mano risaliva la coscia alzandole la gonna e con
l’altra
la premeva contro di sé. «Io non vedo nessuno
oltre te, in questa stanza».
Emily lo
fissò per qualche
secondo e poi, all’improvviso, fece impattare le labbra con
quelle di Jared,
mordendogli il labbro inferiore appena ne ebbe l’occasione.
«Non trattarmi mai
più così in classe, hai capito?»
«Non
mi sembra ti sia dispiaciuto
poi così tanto», ridacchiò roco lui,
togliendole la maglietta sfiorandole le
braccia con le dita callose, lentamente.
«Volevo…».
«Cosa
volevi, Emily?», la sua
voce carezzò volutamente il suo nome, serrando le mani sui
suoi glutei e
facendola sussultare.
«Volevo
sbatterti sulla cattedra»,
sospirò lei, per la confessione e per le carezze insistenti
del ragazzo.
«Davanti
a tutti?», domandò
Jared. Lei annuì. «Mi dispiace deluderla,
professoressa, ma sarò io che sbatterò
lei sulla cattedra», disse con un sorriso.
«Aspetta»,
ansimò lei, mentre la
bocca di Jared le esplorava il seno, «il disegno che hai
fatto alla lavagna era
molto bello». Lui non rispose nemmeno, infilando la lingua
nell’ombelico di
Emily. «Sono seria, guardami», gli alzò
il mento con una mano, «perché ti
impegni così poco, se poi sai fare cose come quel
disegno?»
Jared fece
spallucce, staccandosi
da lei. «Perché mi annoio».
«A
quanto pare la noia ti fa fare
cazzate».
«Che
cosa ne sai tu della mia vita?
Niente. Non sai un cazzo».
Lei gli
posò una mano sulla nuca,
carezzandogli i capelli. «Sono preoccupata per te, per come
ti pentirai di
quello che stai facendo quando avrai la mia età».
«E
cosa starei facendo di
preciso?»
«A
parte scoparti la tua insegnante
di storia dell’arte? Non lo so, cosa stai facendo Jared? Io
non so niente, lo
hai appena detto. Ma tu sei infelice».
Jared
scoppiò in una risata
amara. «Come Schiele?»
«Non
so che tipo di tristezza sia
la tua, so solo che ti spingi sempre al limite, come se la
banalità, i semplici
gesti, la vita che normalmente si ha quando si hanno
vent’anni, non ti
bastasse. Non lo so che cosa sia capitato a te, tu non parli mai, so
solo che
potresti fare grandi cose».
«Non
tutti sono nati Gustav
Klimt».
«Tu
potresti essere migliore di
lui, se lo volessi. È solo che non vuoi, e non ti fai
aiutare». Emily si
sistemò i vestiti, lisciandoseli addosso con i palmi delle
mani, poi lo guardò
e gli sorrise. «Ricordati sempre che tu sarai
l’unico Jared Leto che ci sarà
fino a quando la Terra non verrà distrutta da qualche strano
evento
astronomico. E che, per quanto possa valere, io credo in te. Sii te
stesso, sii
quel Jared che ho visto oggi davanti alla lavagna con gli occhi chiusi:
sicuro
di sé, determinato ad aver ragione, i piedi ben piantati a
terra, ma la mente
che vagava, a cercare dettagli che Schiele non aveva visto in quella
ragazza
con i capelli rossi, ma che tu avevi scorto, sapevi che
c’erano, anche se
quella modella non l’avevi mai conosciuta». Gli si
avvicinò e, con la bocca
accostata al suo orecchio, disse «Sii coraggioso».
Dopo avergli stampato un
bacio sulla guancia, lo guardò per un ultima volta ed
uscì dalla stanza, un
sorriso sulle labbra mentre gli diceva «Ci vediamo a lezione,
Signor Leto. E la
prossima volta cerchi di disegnare le mie tette esattamente come sono,
le sarei
molto grata».
Sei
anni dopo:
«C’è
sempre una ragazza con i
capelli rossi, nei tuoi dipinti. In quei pochi che mi hai fatto vedere,
almeno», disse lui con un tono scherzoso, le dita che
sfioravano una tela resa
spessa dalla tempera.«Il tuo primo amore?»
«Qualcosa
del genere».
«E
io, io cosa sono?»
«Se
andiamo avanti di questo
passo», disse Jared buttando giù
l’ennesimo bicchierino di vodka e sentendosi
la gola in fiamme per qualche secondo, «sarai
l’ultimo».
«Che
cos’è, una dichiarazione?»,
rise lui. La sua risata era la cosa più orribile e tenera
che avessero mai
udito le sue orecchie. Assomigliava al rumore di un motore ingolfato in
una
fredda mattina d’inverno.
«È
più una condanna. Tu, lo sei,
apparentemente».
Di nuovo
quella risata mentre gli
assestava un colpo sulla spalla. «Devo andare, amico, ci si
vede in giro».
Jared fece
un cenno con il capo.
Che cosa
stava facendo? Sii te stesso, sii coraggioso.
A quanto
pare la sua coscienza era una bastarda di quelle della peggior specie,
perché
ci teneva a ricordarglielo in ogni secondo che lui, l’unico
Jared Leto sulla Terra,
colui che al college si scopava sui banchi di scuola la propria
professoressa,
colui che aveva sedotto perfino la sua migliore amica, per poi
ritrovarsi dieci
ore dopo essersi addormentato come un cagnolino nel suo letto, con il
mal di
testa post sbornia più epico della storia, un post-it
attaccato in fronte con
su scritto “Prima regola per
rimorchiare
una ragazza: non vomitarle sui piedi quando stai cercando di
baciarla”;
lui, latin lover incallito, amante indiscusso delle tette, si era preso
una
colossale, gigantesca, mastodontica cotta per quello stramaledetto
ragazzo
finlandese, che con la sua voce roca l’aveva fatto eccitare
più di mille paia
di tette messe insieme. Beh, non esageriamo, non così
tanto, però quasi.
«Hei,
fatina, stai pensando
troppo, le rughe non ti donano», disse la sua coinquilina,
non che migliore
amica, non che prima causa del disboscamento della foresta Amazzonica a
causa
del suo compulsivo uso di post-it, di cui le pareti di casa loro
– e più spesso
di quanto non volesse ammettere, anche la sua fronte – erano
tappezzate,
irrompendo nella stanza a piedi nudi, con addosso una sua vecchia
maglia bianca
che un giorno aveva deciso di adibire ad uso di pigiama, rubandogliela
spudoratamente
dal cassetto dell’armadio, e la mascella slogata dai troppi
sbadigli. Ebbe un
flash della prima volta che la vide: gli aveva dato un gomitata e gli
aveva
suggerito l’argomento della lezione all’orecchio.
«Credo
di essere sbronzo».
«Sono
le dieci di mattina, non ti
sembra un po’ presto?»
«Se
n’è appena andato», sospirò,
facendo gli occhi dolci alla bottiglia di vodka. Bicchierino
più, bicchierino
meno. Allungò la mano per versarsene ancora, quando qualcosa
lo colpì alla
testa.
«Non
sei un soldato dell’Armata
Rossa, Cristo Santo. In più l’alcool non lo reggi,
e la voglia di tenerti la
tua bellissima testolina mentre consumi un
tête-à-tête con la tazza del water di
primo mattino non ce l’ho, quindi datti una
calmata».
Jared si
accasciò impotente e si
accasciò sul divano, un broncio in faccia. «Mi ha
detto “olet kaunis”»
«Che
cosa vuol dire?»
«Non
lo so, ma suona benissimo».
Lei
alzò gli occhi al cielo.
«Jared?»
«Sì,
Linda?»
«Ti
piacciono ancora le tette,
giusto?». Lui mugolò in modo affermativo.
«E allora devi spiegarmi perché
questo finlandese tenebroso ti sta facendo perdere la testa che neanche
Mr.
Darcy con Elizabeth».
«Cosa?»
«Citazione
letteraria». Jared non
rispose. «Mi hai fatto un monologo sul suo culo qualche sera
fa, ma
probabilmente non te lo ricordi perché, quale
novità, eri sbronzo», sbottò
Linda.
«Biadesivo»,
biascicò Jared.
«Cosa
hai borbottato?»
«Biadesivo.
Sono come il biadesivo».
Linda
tossì e si fece seria.
«Quindi fammi capire bene: in una scala dalle tette della qui
presente Linda
Sloane, alle tette di Emily Logan, quanto cotto sei per questo
sconosciuto
finnico secco come un merluzzo sottovuoto ma dotato di un culo
particolarmente
interessante e, sto per citare le tue esatte parole, con
capelli così scuri che ricordano i cavalieri notturni di
quei tuoi
libri pallosi scritti durante il romanticismo, meglio noto
come Ville
Valo?»
«Tette
di Emily Logan quando
indossava quella camicetta trasparente verde acqua, te la
ricordi?»
«Me
la ricordo». Linda gli posò
la testa sulla spalla. «Sei fottuto, amico mio».
Bidibibodibibuh
Boh, non
so. Che cos’è questa cosa, vi chiederete? Non lo
so, boh.
Primissima
cosa che scrivo su Ville, il mio recente ma fulminante innamoramento
per quel
finnico pelle e ossa è, come ho già detto, stato
fulminante, tanto che passo le
notti a guardarmi concerti e interviste ridacchiando tra me e me come
se fossi
una pazza.
Jared
Leto invece me lo sogno di notte e di giorno neanche fosse veramente il
mio
ragazzo, e non solo nella mia fervida immaginazione. E lo fai gay, vi
chiederete voi? Apprezza ancora le tette, è un particolare
molto importante e
da tenere a mente. Donne, c’è ancora speranza per
noi.
No, ma
immaginateveli quei due insieme, dovete farlo perché
sì.
Ora me
ne vado, ma vi prego, non prendete questa cosa troppo sul serio, non
voglio
correre il rischio di ricevere pomodori o palline da tennis in faccia.
Deb.
Ps: non
so il finlandese, ovviamente, ma a quanto pare olet
kaunis significa sei bello, secondo accurate ricerche, ovvero
secondo google traduttore.
Pps: il
titolo della storia è il titolo di una canzone dei Placebo.
Tendo a dare a
tutte le mie storie il titolo di una canzone dei Placebo. Boh.