Ten thousands of
lifetimes, all in one room ~
La
prima cosa che nota di Rothbart sono i suoi occhi.
Hanno
undici anni e si ritrovano insieme per la prima volta in uno scompartimento
vuoto, e Rothbart ha occhi più che arrabbiati, più
che ostili – la parola giusta è affamati.
Clavius gli siede di fronte senza poter evitare di
provare un filo di disagio, ma non riesce a staccarsene, è come un richiamo
irresistibile, come uno specchio che
gli mostri quello che non ha mai osato guardare a viso aperto. Conosce quella
fame. Se la sente dentro, giorno dopo giorno cerca di soffocarla in pile di
libri e pergamene che fanno ridere gli adulti («Il piccolo Clavius è già un nonnetto, non ci
vorrà molto perché si lasci crescere la barba bianca») e adesso la vede lì,
dritta nello sguardo di un ragazzo che ha detto di chiamarsi Rothbart e da allora non ha fatto altro che fissarlo in
silenzio. Forse quello scambio è una ricerca, la ricerca di qualcosa di
familiare e al tempo stesso ancora sconosciuto.
A
un tratto, poi, Rothbart gli sorride. Non è un
sorriso allegro, e più che scaldarlo lo raggela, ma è esattamente ciò che Clavius stava aspettando.
Zelda
arriva due anni più tardi, una cosina tutta pelle e ossa e zigomi che un giorno
compare sulla loro strada appena fuori dalle serre, ergendosi tutta nella sua
uniforme fiammante e squadrandoli con alterigia, come se anziché una primina
fosse addirittura più grande di loro.
«Voi
due» li apostrofa senza mezzi termini, con voce fin troppo roca per le labbra
di una ragazzina così minuta. «È vero che avete trovato una stanza segreta?»
Clavius
s’irrigidisce, ingoia una maledizione. Si guarda intorno per accertarsi che
nessuno l’abbia sentita. Poi guarda Rothbart, ma Rothbart sorride della sicurezza del tredicenne più
brillante della scuola.
«E
se fosse?»
La
primina che scopriranno chiamarsi Zelda si scosta una treccia bionda dalla
spalla. «Mostratemela.»
Clavius
apre la bocca per chiederle cosa le dia il diritto di dare ordini a gente che
nemmeno conosce, ma poi li vede. Gli occhi di Zelda. Anche loro hanno fame.
La
stanza compare soltanto se la si desidera, e se c’è una cosa che li troverà
sempre tutti e tre d’accordo è proprio quella.
I
loro desideri le conferiscono un aspetto spoglio, cavernoso, ornato dei soli
colori verde e argento che sono l’emblema di una Casa che in fondo non li
rispecchia abbastanza – la sala comune di Serpeverde
è stretta, troppo stretta per chi ha occhi che hanno fame. Alle pareti nude
sfilano teorie di calderoni, provette, espositori di vecchie pergamene latrici
di sortilegi antichi, lasciati intentati. Non sarà la Camera dei Segreti, ma è
qualcosa che potrebbe eguagliarla, ed è soprattutto casa: con la c minuscola, ma più vera.
Clavius
passerebbe tutta la vita là dentro; se potesse non si farebbe problemi neppure
a saltare le lezioni, che comunque non insegnano loro nulla di veramente utile.
A quale scopo imparare a Trasfigurare? Perché limitarsi a cambiare le cose, se non le si possono prima creare, se non le si possono alla fine distruggere? Zelda ride sguaiata quando lui farfuglia le sue
giustificazioni, sforzandosi di non arrossire alle sue frecciate sempre più
cattive («Povero piccolo Clavius, il mondo ti ha già fatto così tanto male?» –
lei non lo vuole punire di nulla, il mondo, lei lo detesta soltanto, chissà poi
perché), ma Rothbart sorride, quel suo sorriso sicuro
e quasi condiscendente. A volte
prende persino le sue difese.
Creare,
per poi cambiare, per poi distruggere: la stanza compare per quel motivo.
Col
passare degli anni lo scopo finale non sembra avvicinarsi. Esperienze e
fallimenti fanno sì che alla fame si unisca la rabbia, di quel tipo che con la
fame non c’entra poi molto.
Rothbart
studia seduto nei corridoi, nel parco, dove capita, senza mostrare a nessuno
quel sorriso speciale che riserva alla stanza – e a Zelda – e a lui, a lui, a lui – ma portandosi comunque appresso un
codazzo di ragazze sghignazzanti, che sembrano sul punto di svenire ogni volta
che lui volta pagina. Sul suo labbro superiore, così sottile, comincia a
crescere un ancor più sottile strato di peluria, rossiccia come i suoi capelli.
Non poche volte Clavius si lascia cadere al suo
fianco con la sua porzione di libri di scuola, depistaggio di testi rubati dal
reparto proibito della biblioteca, e fa come per scuoterlo, limitandosi però a
borbottargli esortazioni con l’angolo della bocca. Torniamo nella stanza. Ci riusciremo, prima o poi.
«Troppo
tempo.» La replica di Rothbart resta invariata; la
sicurezza dei suoi tredici anni ha lasciato il posto all’impazienza dei sedici.
«Ci vorrà troppo tempo. Nel migliore dei casi non sarà prima del diploma, e
allora...» Clavius vorrebbe credere che allora
sarà più difficile perché non saranno più insieme, ma questo è un pensiero di
ragazzino, adesso stonerebbe e basta.
«Ma
tu... non ti arrendi» obietta, arrabbiato quanto e più di lui – e c’è un filo
denso di veleno in quelle parole. Non si arrende, ed è sempre lui il migliore.
Rothbart
lo fulmina con lo sguardo (quel suo
sguardo) sopra le pagine fitte di appunti. «Non mi arrendo? Per chi mi hai preso, per Mister Simpatia?» Chiude
il libro e si alza. «Tornatene pure ai tuoi esperimenti, Clavius.
Sto studiando per diventare Animagus. Mi disturbi.»
Clavius
lo guarda allontanarsi tra i gruppetti di ragazze estasiate, combattuto tra un
senso di frustrazione e uno di folle, isterico trionfo.
Perché
la rabbia di Clavius fa tutta capo a Rothbart. Rothbart che ha il
talento più grande, Rothbart che lo sa, Rothbart
che non li lascia mai primeggiare – mai – e che non perde un’occasione per
sottolineare che comincia tutto con lui, la stanza l’ha trovata lui, il primo è
stato lui, e poi, strada facendo, si annoia.
La
rabbia di Zelda è di un tipo diverso ancora, è di quello che la porta a
spingerlo contro un qualsiasi muro poco illuminato del castello e infilargli la
mano tra le gambe e la lingua in bocca. Clavius la
lascia fare perché sa che anche la sua, di rabbia, fa tutta capo a Rothbart – sa che è nel letto di Rothbart
che lei va a infilarsi più spesso, quando pensano entrambi che lui dorma di
sogni pieni di antichi sortilegi e pergamene vecchie, e sa anche che questo non
basta a farla sentire meglio. La verità è che Rothbart
è entrato nella vita di entrambi e vi si è posizionato come un punto di fuoco,
con l’eleganza greggia che lo contraddistingue, con quel sorriso sicuro che
mostra soltanto a lui e a lei e alla stanza, con i suoi occhi affamati e le sue
promesse di cose da creare e cambiare e distruggere: nessuno dei due smetterà mai
di amarlo per questo e nessuno dei due smetterà mai di odiarlo per questo, lui
così perfetto, lui così vicino, lui così intoccabile. Ma scoparsi Zelda contro
i muri dei bagni della scuola e immaginare sempre, ogni maledetta volta, di
essere in tre è solo il più misero dei modi in cui Clavius
ha imparato a sfogare le sue fantasie di diventare lui, il numero uno.
Zelda
non parla molto con lui, ma è quasi certo che per lei sia lo stesso. Si svuota
sui suoi zigomi alti, sulle sue labbra rosse – labbra rosse che baciano e
mordono Rothbart, anche quando Rothbart
non c’è – ed è come vincere anche su di lei.
Dicono
che tutti abbiamo le nostre crisi e poi, a un certo punto, coi nostri tempi e i
nostri mezzi, le superiamo.
Rothbart
torna a torreggiare nella stanza come un gigante su tutti gli uomini, con la
sua sfera piena di oscure arti nuove, proibite. C’è lui stesso là dentro, e al
contempo lui è ovunque in tutto il mondo, punto di fuoco che ti orbita attorno
e ti fa sentire al centro di tutto e ti fa sentire una nullità. Non è mai stato
così bello, non sarà mai più tanto lontano.
«Io
ne sono fuori.»
Rothbart
smette di sciorinare parole. Zelda smette di prendere appunti. Per un lungo
istante è solo silenzio.
E
alla fine non c’è nessuna domanda, perché – Clavius lo
sa – Rothbart vede ormai la fame nei suoi occhi, una fame che è cambiata, è
cresciuta, e non si sazierà di certo nella stanza che in origine è comparsa per
placarla.
Clavius
lo vede annuire. Non sarà fuori dalla sua vita dall’oggi al domani (non sarà fuori dalla sua vita mai) ma
per il momento può permettersi di uscire dalla porta, e a testa alta. A Zelda
lancia solo uno sguardo; Zelda resterà, lo sanno tutti e tre. Finirà per
bruciarsi, forse, probabilmente. Ma resterà, con quelle sue labbra rosse sempre
disposte a morderlo e a baciarlo – e Clavius vorrebbe
dirle di baciarlo e morderlo anche per lui, ma nemmeno questo c’è bisogno di
metterlo in parole. Rothbart sa.
Volta
le spalle e muove i primi passi. È il suo ultimo anno di scuola, e di colpo
realizza che un giorno, se mai quella grande guerra che loro tre insieme hanno
auspicato e in qualche modo prevenuto scoppierà davvero, la magia potrebbe vederli
nemici come alleati. In ogni caso tutto sarà cominciato da qui – non dalla
stanza, non dal treno, non dalla fame negli occhi di Rothbart,
ma qui.
Cose
che si creano, cose che cambiano, cose che si distruggono.
Spazio
dell’autrice
Non avete idea di
quanto mi vergogni, ma dovevo scriverla.
Da un pezzo ho
questo headcanon di Rothbart,
Clavius e Zelda che studiano insieme a Hogwarts e buttano lì le basi per le loro ricerche sulla
creazione delle Arti Proibite. Ed è quello che ho voluto scrivere, in parte...
Invece, il motivo per cui a un certo punto abbia deciso di riflettere sul fatto
che Clavius nello stesso universo originale si è
allontanato, che contrariamente a Zelda non l’abbiamo visto interagire con Rothbart nemmeno nella sua memoria, che si mostra pieno di
bile nei suoi confronti ma continua comunque a tenere un ritratto che li
dipinge abbracciati come amici – ecco, tutto questo non l’avevo minimamente
programmato. Però sì, sono dell’idea che Clavius sia
logorato da un amore/odio lancinante nei confronti di Rothbart.
Lui non è neppure il mio preferito del trio di cattivi de L’incantesimo del lago (mica si è notato che sono una Rothbart!fangirl? No, vero? u///ù), ma non posso negare che
questo aspetto appena accennato del suo carattere lo renda più particolare,
persino più approfondito rispetto a Rothbart e a Zelda.
Ah, e comunque il threesome è tale perché sì.
Spero che cogliate
tutti i piccoli riferimenti ai film che ho lasciato qua e là ♥ Il titolo è un
verso di You gotta love it,
la villain!song di Clavius:
non sono tuttora sicura che c’entri molto, ma mi piaceva il pur minimo
riferimento alla Stanza delle Necessità che forse è la vera protagonista di
questo sclero totale.
... Giuro che sono
una persona buona, quindi magari linciatemi pure ma tenete conto delle mie
buone intenzioni. :D
Aya ~