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Autore: iride verde    15/08/2014    1 recensioni
" Aveva tredici anni ed era seduta ad un banco di scuola, con un compito di matematica davanti. Finalmente alzò la testa dalla verifica, rilassando il collo indolenzito, e si concesse un sospiro di sollievo. Si guardò velocemente attorno: era stata la prima a finire, come sempre. I professori non riuscivano proprio a capacitarsi di come lei, Benedetta, sempre così distratta, quando si trattava di numeri diventasse la persona più svelta e precisa del mondo: era una delle sue più grandi contraddizioni. L’altra era seduta nel banco davanti a lei e si chiamava Ettore."
Genere: Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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“ESAMI”
La campana della chiesa battè dodici colpi. Benedetta, nella sua automobile parcheggiata , si riscosse dal leggero stato di torpore in cui era caduta: era da un po’ che aspettava. Si stiracchiò e si sporse dal finestrino, guardando verso il cortile della scuola media. Ogni rintocco faceva vibrare l’aria afosa di quel mezzogiorno di fine giugno, che, a causa del calore esalato dall’asfalto, era così densa da sembrare quasi una presenza solida. Il cortile era completamente vuoto, a parte un sacchetto di carta tristemente abbandonato lì in mezzo, residuo di chissà quale merenda.  Ma appena l’ eco dell’ultimo rintocco si spense, il portone principale dell’edificio si aprì e una decina di studenti si riversarono gù per le scale d’ingresso. Avevano l’aria stanca di chi è stato chino per tre ore su un compito di matematica, indeciso su cosa sia più terribile: il caldo o le espressioni.
Benedetta riconobbe finalmente la figlia Federica in mezzo a quello sparuto gruppetto che aveva deciso di rimanere dentro l’aula proprio fino all’ultimo.  Naturale, sua figlia aveva l’abitudine di ricontrollare tutto: compiti, temi, impegni della settimana... non come lei, che si dimenticava ogni appuntamento e, se lo scriveva da qualche parte per ricordarselo, al novantanove per cento perdeva il preziosissimo foglio. Era proprio nella sua natura essere sbadata, e ogni volta che entrava in quel tempio dell’ordine che era la camera della figlia, si chiedeva quali misteriosi sentieri seguisse la genetica.
 Quella mattina, però, uscendo per andare a fare la spesa, aveva trovato infilato nel tergicristallo un foglio giallo fosforescente, con un messaggio perentorio almeno quanto una vera multa:MAMMA!! OGGI VIENIMI A PRENDERE A SCUOLA PERFAVORE!! FEDE. E così era lì, per una volta, al posto giusto nel momento giusto. Agitò un braccio per farsi vedere dalla figlia, che, non appena la scorse, si avvicinò alla macchina con la faccia scura. Aprì la portiera posteriore, gettò dentro la cartella che atterrò con un tragico tonfo sul sedile, salì e, senza neanche salutare, esclamò:- Non chiedermi come è andata! Vuoi saperlo? Male come sempre! L’ultima espressione l’ho fatta di corsa e di sicuro l’ho sbagliata tutta! Fine del tg del mattino.
-    Beh! Inanzittutto: buongiorno mamma, come stai?- replicò Benedetta. Girò la chiave nel cruscotto e mise in moto. -  Bene, grazie…- continuò - comunque, non fare quella faccia, dai!
-    Ma io non ne posso più di questi benedetti esami mamma!- Federica cominciò a prendere a piccole testate il finestrino, con aria tragicomica.- Non vedo l’ora che finisca ‘sta maledetta scuola!
-    Oh, ma finiscila! Tu la prendi con troppa ansia, questa è la verità- ribattè la donna, cercando di mantenere la concentrazione per uscire dal parcheggio - pensa che io, invece, avrei voluto che la terza media non finisse mai…- mormorò, perdendosi via dietro chissà quale ricordo. Un automobilista dietro di lei suonò il clacson, irritato, riportandola bruscamente alla realtà.
 La figlia, dietro, si era sdraiata occupando tutti e tre i posti  e la stava fissando con aria di commiserazione:- Mamma, ho sempre saputo che sei strana, ma non dirmi che ti piaceva andare a Giugno, con questo caldo, a fare ancora verifiche di  matematica in una classe dove la temperatura minima è centottanta gradi!
-    Ma che c’entra- protestò la madre svoltando- tu non ti senti triste, all’idea di non rivedere più i tuoi compagni?
Sbirciò la figlia nello specchietto retrovisore. Federica alzò le spalle.- I miei amici posso vederli anche fuori da scuola. E certi compagni…- alzò gli occhi al cielo e riempì le guance di aria, soffiandola poi fuori lentamente-… fidati che non mi mancheranno.
Benedetta sorrise:-Eh già… ma io avevo un buonissimo motivo, mia cara! Ora che ci penso, non credo di averti mai raccontato questa storia…
-    E’ una storia che parla di esami?- Federica le lanciò un’ occhiata tra l’allarmato e il sofferente - ti prego mamma, non me la puoi raccontare un’altra volta? Non sono proprio nello stato emotivo…- la voce della figlia suonava come una supplica e Benedetta sorrise per la seconda volta, arrendendosi.
-    Va bene, per questa volta ti sei scampata le mie memorie, ma prima o poi la dovrai sentire. E’ una storia abbastanza divertente.
Mentre continuava a guidare diretta verso casa, i ricordi, anche senza venire trasformati in parole, ripresero vita nella sua mente, riportandola indietro a quasi trent’anni prima…

Aveva tredici anni ed era seduta ad un banco di scuola, con un compito di matematica davanti. Nella classe c’era il silenzio più totale, fatta eccezione per il ronzio di una mosca che svolazzava in giro, dando fastidio a tutti quanti. Finalmente alzò la testa dalla verifica, rilassando il collo indolenzito, e si concesse un sospiro di sollievo.
Si guardò velocemente attorno: era stata la prima a finire, come sempre. I professori non riuscivano proprio a capacitarsi di come lei, Benedetta, sempre così distratta, quando si trattava di numeri diventasse la persona più svelta e precisa del mondo: era una delle sue più grandi contraddizioni. L’altra era seduta nel banco davanti a lei e si chiamava Ettore. Come al solito, la ragazza si era persa a contemplare i capelli biondi del suo compagno e nemmeno si era accorta che la mosca rompiscatole si era posata sul suo mignolo.
Era perdutamente innamorata di lui da quando aveva undici anni, dall’inizio delle medie insomma, ma dopo ben tre anni di convivenza forzata, praticamente quotidiana, negli stessi cinquanta metri quadri, le volte in cui era riuscita a parlargli si potevano contare sulle dita delle mani. Era più forte di lei.
Ettore era uno dei ragazzini più simpatici, di quelli che facevano parte del gruppo “leader” della classe. Lei e le sue amiche non erano mai riuscite ad entrare in quel gruppo, ma, in verità, non che le importasse molto : a lei interessava solo Ettore, non anche tutti i suoi amici, che, anzi, rappresentavano il problema più grosso: infatti, non poteva fare a meno di sentirsi in soggezione davanti a quel gruppo di ragazzi che in classe e nei corridoi si muovevano sempre insieme, come un branco, scherzando e ridendo ad alta voce. Non erano dei bulletti, anzi, non facevano male a nessuno, solo che avevano sempre l’aria di sentirsi così sicuri di sé. Perché erano spiritosi, popolari. Quello che dicevano, o facevano, era sempre la cosa giusta. Lei, invece, a parte le equazioni, sbagliava tutto.
Era soprattutto del loro giudizio che aveva paura. Una volta, in seconda media, aveva sentito Giulio ridere di lei chiamandola “sciroccata” e aveva sentito la sua autostima andare in frantumi. Era corsa in bagno in lacrime a togliersi il fermaglio nuovo a forma di farfalla che si era messa la mattina per rendersi un po’ più interessante, ma che, a quanto pareva, era orrendo. In realtà, ad essere obietttivi, Ettore non era neppure tanto amico di Giulio, ma a lei era bastato per decidere che se un suo compagno pensava questo di lei, allora anche tutti gli altri dovevano per forza vederla così. Lei era solo una povera sfigata e non sarebbe mai stata all’altezza di uno come Ettore. Di sicuro, se qualcuno li avesse visti insieme, avrebbe pensato che erano una coppia ridicola.
In un certo senso, aveva rinunciato a poter mai apparire vagamente interessante agli occhi del suo compagno, però non aveva affatto smesso di essere innamorata di lui e di ammirarlo. Anche perché era difficile togliersi dalla testa qualcuno che, bene o male, vedeva tutti i giorni…
Vedeva. Già. Ora non sarebbe stato più così. Benedetta ci aveva pensato all’inizio della terza media: quello era proprio l’ultimo anno che lei e Ettore avrebbero passato nella stessa classe, perché dopo lei sarebbe andata a ragioneria, mentre il ragazzo ad una scuola professionale.  Aveva provato una grande malinconia, ma poi, complici l’abitudine e i giorni che passavano, quel pensiero si era depositato sul fondo della sua mente, come un serpente in letargo ,semisepolto nella sabbia. Di tanto in tanto, però, tornava a galla, mordendole il cuore, e quando erano arrivati gli ultimi due mesi di scuola, ogni giorno che passava il dolore si faceva un po’ più acuto. Paradossalmente, non aveva fatto proprio nulla per recuperare il tempo perso. Si sentiva una stupida, ma proprio non riusciva a fare il primo passo con una persona se non conosceva con certezza l’opinione che questa aveva di lei, e le capitava con tutti, non solo con il ragazzo che le piaceva.
Gli esami erano arrivati, e il tempo era passato veloce come un fulmine:  era già arrivata matematica, l’ultimo scritto.
Perchè sono ancora qui  a guardarlo come una scema? pensò Benedetta, riabbassando con rabbia lo sguardo sul compito. Avrebbe dovuto essere contenta di non vederlo più, così finalmente si sarebbe messa il cuore in pace.
Mentre fingeva di ricontrollare la verifica (una cosa che non faceva mai) continuava a litigare con se stessa. Intanto,  altre persone avevano fatto in tempo a finire il compito e alcuni erano già andati a consegnare. Avrebbe dovuto farlo anche lei. Andare via da quell’aula caldissima e soffocante, libera, libera finalmente. Invece no. Alla fine, decise di rimanere finchè non se ne fosse andato  lui. Va bene, va bene, mi sto comportando in modo assurdo. Ma alla fine erano proprio gli ultimi minuti che avrebbero trascorso insieme…
Sollevata, dopo averlo finalmente ammesso a se stessa, riprese a fissare la nuca di Ettore.     
Solo che il suo amato, a differenza sua, non era molto forte in matematica. Così, mentre la classe si svuotava, lui era ancora lì a scrivere, cancellare, e riscrivere disperato. A mezzogiorno meno un quarto erano rimasti solo loro due in classe. La professoressa di matematica (le si leggeva sulla faccia paonazza per il caldo che era decisamente stufa di stare lì, e li avrebbe volentieri sbattuti fuori per andarsene anche lei) si rivolse a Benedetta, che stava ormai da mezz’ora con lo sguardo perso:- Se hai finito puoi consegnare, ma devi comunque rimanere qui e aspettare il tuo compagno, per fare da testimone.
… la lancetta delle ore si sovrappose finalmente a quella dei minuti, e la campanella suonò fragorosa in tutta la scuola.
-    Tempo scaduto!- annunciò la professoressa, lievemente esasperata. A Benedetta quella frase suonò come una sentenza. Eh sì, era proprio finito il tempo.
Andò a firmare alla cattedra, seguita da Ettore, che si guadagnò un’occhiataccia dalla professoressa perché si era dimenticato di mettere il nome sul foglio protocollo.
I due si precipitarono insieme verso la porta, e rimasero incastrati.
-    Oh scusa tanto- mormorò lei, imbarazzatissima. Che imbranata, pensò. E un istante dopo: Ecco l’ultimo ricordo che avrà di me…bella roba!
Ettore, però, si spostò gentilmente per farla passare:- Prego!- le disse, senza sarcasmo.
- Grazie- borbottò Benedetta infilando la porta, e si precipitò svelta lungo il corridoio, con le guance ancora in fiamme. Camminava a testa bassa, cercando di non pensare a quanto fosse cretina, così non si accorse che Ettore le si era affiancato finchè lui non le chiese:- Allora, come è andata?
-    Eh?- sobbalzò e alzò lo sguardo.- Oh.. bene- rispose, e non le venne altro da aggiungere. Aveva sete e si sentiva la bocca secca.
Ettore sorrise:- Già, a te non dovrei nemmeno chiederlo!- esclamò - ma come mai stavolta hai consegnato quasi per ultima? Di solito sei sempre la prima a finire…
Benedetta rimase sorpresa da quelle parole. Lui aveva notato qualcosa di lei? Aveva sempre pensato, nel corso di tre anni, di essere praticamente trasparente, ma a quanto pareva si era sbagliata.
- Sai com’è… ho voluto ricontrollare bene tutti gli esercizi.- mentì- In fondo un esame è diverso dalle altre verifiche, no?- aggiunse, sforzandosi di usare un tono di voce controllato, ma non troppo da secchiona.
-    Io non ho neanche fatto in tempo a finirli , gli esercizi, figuriamoci a ricontrollarli- ribattè Ettore, ridendo come chi sa che, ormai, come è andata è andata.Non sembrava poi così disperato, a giudicare dal suo passo baldanzoso. Benedetta quasi arrancava per stargli dietro, maledicendo le sue gambe troppo corte.
-    Ma sì, e poi manca ancora l’orale!
Svoltarono e scesero le scale che portavano all’atrio. Benedetta pensò che non aveva mai trascorso tanto tempo da sola con lui… anzi, per la verità, quella era la prima volta in assoluto. E la cosa più bella era che lui sembrava voler continuare a parlarle.
-    A proposito, tu che giorno sei?- le chiese.
-    Martedì mattina.
-    Io Lunedì pomeriggio. Ti andrebbe di venirmi a vedere? Se non devi ripassare…- disse lui, con noncuranza. Quella proposta, però, ebbe su di lei l’effetto di un’aspirina sciolta in una bottiglia di acqua frizzante.
-    No no! Ho già studiato!- rispose precipitosamente.
-    Bene, allora ci vediamo lunedì!- concluse Ettore. Ormai erano arrivati al portone.Lui fece un passo di lato e le aprì la porta:- Prego- disse, facendo un buffo inchino.
Benedetta scoppiò a ridere, e le sembrò di ricominciare a respirare dopo molto, molto tempo.

Federica sbriciava sua madre. Sembrava assorta nella guida, ma in realtà quel leggero sorriso che aleggiava sulle sue labbra rivelava che pensava a qualcos’altro. Non era una cosa strana. C’erano giorni in cui Benedetta sembrava davvero persa in un mondo tutto suo: addirittura si metteva a ridere da sola, mentre cucinava, stirava o guidava l’auto, per motivi che sapeva solo lei. Quello che preoccupava Federica era che, di solito, quando la madre assumeva quell’espressione, c’era da aspettarsi qualche stranezza. E infatti, mentre passavano davanti alla gelateria vicino a casa, Benedetta frenò bruscamente.
Fecerica sussultò, mentre veniva sbalzata contro il sedile anteriore: - Mamma! Che succede?
La madre non rispose. Parcheggiò a lato della strada, poi si voltò verso la figlia, e sempre con quella misteriosa espressione sul volto, le chiese:- Ti va un gelato?
-    Ma… se non abbiamo neanche mangiato!- obiettò Federica.
-    Per oggi faremo un’eccezione- annunciò la donna, aprendo la portiera- ho sempre sognato di pranzare con una di quelle coppe gelato enormi!
Federica scese rassegnata dalla macchina.
L’aria fresca dentro la gelateria fu un vero sollievo, dopo il caldo dell’abitacolo. C’era profumo di frutta e cioccolato, e il bancone davanti a loro sembrava un arcobaleno di delizie di tutti i colori. Benedetta si mise ad esaminare il listino dei prezzi appeso alla parete, e, arrivata in fondo , annuì soddisfatta tra sé.
-    Vorremmo due coppe maxi- disse poi, rivolta alla gelataia- tu che gusti vuoi, Federica?
-    Io vorrei… limone…fiordilatte… e yogurt- la ragazza scelse i gusti che le sembravano più leggeri, spaventata all’idea di dover trangugiare tutta quella roba.
-    Oh ma smettila! Così mi metti tristezza! - esclamò Benedetta, e con un gesto secco della mano interruppe la gelataia, che già aveva affondato il cucchiaio nella vaschetta del limone. La donna la fissò con sguardo interrogativo. - Perfavore, prepari due coppe di  nutella, crema e stracciatella!
-    Ma mamma! Sei matta!- sussurrò la ragazza.
-    Silenzio signorina! Va’ a sederti al tavolino e aspettami lì- le ordinò la madre. Federica uscì dal negozio e andò a sedersi a uno dei tavolini di plastica lì di fronte, che, per fortuna, si trovavano sotto una specie di pergolato che li riparava dal sole. Mentre aspettava sua madre, iniziò a fare il calcolo di quanti minuti di corsa avrebbe dovuto fare per smaltire tutte quelle calorie. Ma di matematica, per quella mattina, ne aveva avuto abbastanza, e quando davanti a lei atterrò una coppa strabordante di gelato, ricoperto tra l’altro di scaglie di cioccolato fondente, ogni altro  pensiero del genere andò a finire in un angolo molto remoto della sua mente.
Benedetta guardò di sottecchi la figlia mentre affondava il cucchiaino nel gelato e fingeva di doverlo mangiare controvoglia…

Aveva passato il week end in fibrillazione, aspettando che arrivasse il lunedì. Alla madre aveva detto che andava a studiare un po’ da una sua compagna, ma in realtà era corsa a scuola a rompicollo per arrivare in orario. Lungo la strada si sentiva le ali ai piedi. Era probabilmente la prima volta nella sua vita che non dimenticava un appuntamento e che arrivava sul posto addirittura in anticipo.La forza dell’amore!
 Prima di entrare a scuola, si fermò a specchiarsi nella finestra di una delle aule a pianterreno, controllando di avere i capelli a posto. Aveva rimesso il fermaglio a forma di farfalla: l’aveva trovato la mattina, dimenticato in un cassetto nel bagno, mentre cercava una pinzetta per sistemare le sopracciglia. Le era sembrato un segno del destino, e aveva deciso di dargli un’altra possibilità.
Gli esami orali si svolgevano in un’ aula nel seminterrato, dato che in quei giorni il caldo era, se possibile, aumentato. Mentre scendeva le scale, Benedetta sentì un brusio salire dal piano di sotto: appena ebbe posato il piede sull’ultimo gradino capì perché.
Fuori dall’aula c’era più di metà della sua classe, e anche qualcun altro. Erano soprattutto maschi, che erano veduti ad assistere all’esame di Ettore. Vedendoli tutti lì, perse la sua baldanza e si sentì invadere dalla solita agitazione. Le tremavano le gambe. Ecco, ora l’avrebbero vista e si sarebbero chiesti perché era venuta e… oh no! Tutti avrebbero capito che l’aveva fatto perché Ettore le piaceva!
Provò il fortissimo impulso di precipitarsi di sopra e scappare, finchè nessuno si era ancora accorto di lei. Ma improvvisamente Ettore la scorse, lì ferma sulla scala, e la salutò con un sorriso. Ecco, lui l’aveva salutata per primo e tutti l’avevano visto. Poteva stare tranquilla. Avrebbe voluto andare da Ettore e augurargli buona fortuna, ma lui era completamente circondato: chi gli dava pacche sulle spalle, chi gli dava i consigli dell’ultimo minuto… chi, come Giulio, faceva solo confusione.
L’interrogazione di Ettore andò abbastanza bene: in fondo, matematica a parte, se la cavava a scuola.
-    Molto bene- fece la professoressa di matematica. Ettore stava già per tirare un sospiro di sollievo, quando le labbra della donna si distesero in un sorriso che all’interrogato parve perfido:- Un’ ultima domanda: vorrei sapere… qual è la formula del volume della piramide.
Ettore non rispose. Evidentemente non aveva ripassato.
Benedetta, seduta in fondo all’aula,si sentì una cretina per essersi messa proprio in ultima fila. Cercò comunque di mandargli un messaggio telepatico: “E’ il prodotto dell’area di base per l’altezza diviso tre, dillo, dillo, presto!”pregò.
-    Dunque…- fece Ettore esitante -  bisogna…moltiplicare la base per l’altezza e poi fare diviso du.. tre!- si corresse all’ultimo secondo.
-    Olèè! Grande!- gridò Giulio applaudendo e alzandosi in piedi.
-    Insomma, ragazzi, questo è un esame ufficiale!- lo riprese la professoressa seccata.
Mentre uscivano tutti dall’aula,  Benedetta decise che  lo avrebbe fatto ora, oppure mai più. In condizioni normali avrebbe risposto senza esitazione “mai più”, ma gli ultimi avvenimenti le avevano dato coraggio. Quindi, perché perdere l’occasione? Si infilò tra la folla di amici vocianti e, finalmente, si trovò davanti la schiena di Ettore. Trattenendo il respiro gli toccò una spalla, e lui si voltò.
- Complimenti, sei stato molto bravo!- disse lei, tutto d’un fiato.
- Grazie! - rispose lui - Anche se l ‘ultima domanda mi ha fatto proprio cadere dal pero… -aggiunse .- Non so davvero dove ho pescato la risposta giusta. Devi avermi portato fortuna tu!
Anche se sapeva che era solo uno scherzo, la ragazza si sentì sollevare da terra.
-    Beh, domani è il mio turno- ribattè, e si stupì che la voce non le tremasse- se vuoi venire…
-    Va bene, certo…
-    Uè! Signor Piramide!- esclamò Giulio, allungandosi sopra le teste dei compagni e colpendo il ragazzo con un libro - dì la verità, dove hai nascosto i bigliettini?
Benedetta si allontanò in fretta, con quel “va bene” che le risuonava nella testa come una promessa.

-    Alla fine lo hai mangiato tutto il gelato- commentò Benedetta ironicamente.
-    L’ho mangiato perché se no mi avresti fatto la predica- rispose Federica. Fece scorrere il dito sul fondo della coppetta, raccogliendo un po’ di nutella rimasta, e se lo mise in bocca. - Che buono!
Benedetta scoppiò a ridere, poi tornò semiseria:- Comunque, io non faccio prediche.
Tornare in quella gelateria dopo tanti anni l’aveva messa di buon umore. Era stato il luogo di uno dei pochi appuntamenti della sua vita in cui tutto era filato liscio, probabilmente perché né lui ne lei lo avevano programmato. Era stata una cosa improvvisata, ed quello che a lei veniva meglio.

Ettore non venne. Benedetta aveva aspettato che arrivasse il suo turno con accanto le sue amiche di sempre che le ripetevano ogni cinque minuti di non essere nervosa. In effetti, sembrava davvero nevrotica: ogni volta che sentiva un rumore di passi nel corridoio, alzava di scatto la testa dal libro, aspettandosi di vederlo finalmente comparire; ma era solo la bidella che passava a controllare che  nessuno stesse combinando guai. Quando la chiamarono, si alzò rassegnata: lui non sarebbe venuto. Quel “va bene”, che lei aveva considerato una conferma, probabilmente gli era solo sfuggito di bocca, e dopo cinque minuti lo aveva già dimenticato. E anche se,il giorno prima, lei non fosse andata ad assistere al suo orale, probabilmente non avrebbe fatto alcuna differenza. Non ci avrebbe neppure fatto caso, con tutte le altre persone che erano venute a vederlo! E vaffanculo le piramidi.
Aveva affrontato la prova parecchio sottotono. Sapeva di non aver dato il massimo e si sentiva furiosa con se stessa per il modo in cui si era lasciata condizionare da lui. Alla fine non era che un ragazzo come tanti, no? Oltrepassando per l’ultima volta il cancello del cortile della scuola, si ripromise che, una volta per tutte, non avrebbe più sprecato un pensiero per Ettore. Illudersi era inutile.
Ma, com’era prevedibile, si ritrovò a rimuginare su quella delusione per tutto il pomeriggio e anche il giorno dopo non si svegliò certo di buon umore. Passò la mattinata seduta alla scrivania, fingendo di leggere un libro, ma in realtà non vedeva nemmeno le singole parole e le righe le danzavano davanti agli occhi. Sua mamma inizialmente si era preoccupata e l’aveva addirittura costretta a provare la febbre. Dopo aver visto che la figlia non aveva nulla, la donna per un po’ si era dileguata, ma poi era rientrata in camera e, con la scusa di spazzare il pavimento, continuava a girarle attorno.
-    Ma come, non sei contenta che la scuola è finalmente finita? - le chiedeva, vedendola con una faccia che si poteva definire tutt’altro che allegra.
-    Sono stanca.
-    Di cosa?
-    Per lo studio.
-    E allora perché sei lì che leggi? Vai un po’ giù in cortile a prendere aria, no?
-    No, grazie.
La madre aprì la finestra. Sentendo l’alito rovente che veniva da fuori ci ripensò e la richiuse.
- Cosa ti va per pranzo?
-    Niente grazie.- fece Benedetta laconica
-    Come niente?
La madre aveva già aperto la bocca per partire con una delle sue prediche, ma esattamente in quel momento suonò il campanello.
-    Ma chi rompe le scatole all’ora di pranzo?- brontolò la donna. Uscì dalla stanza. Rumore di ciabatte. La mamma si riaffacciava alla porta di Benedetta:- e’ un tuo amico. Dice che ti deve parlare urgentemente!
Benedetta alzò la testa dal libro e si strofinò gli occhi:- Ma chi è? - domandò.
-    Che ne so!- sbuffò la madre, allargando le braccia -  Non l’ho mai visto! E’ biondo…
Benedetta sussultò, e cercò disperatamente di mantenere un’ espressione neutra. Le era partito il solito batticuore, ma questa volta era diverso.
Il campanello eccheggiò di nuovo nella stanza.
-    Devo dirgli che non ci sei?- le chiese la madre, lievemente spazientita.
-    No- rispose la ragazza, alzandosi di scatto - Ci vado.
Attraversò il corridoio, uscì e richiuse la porta alle sue spalle. Indugiò un momento, fissando il legno. Biondo… magari non era nemmeno lui, ma Franco, il figlio del fruttivendolo, che negli ultimi tempi attaccava sempre bottone con lei quando la incontrava in giro. Peccato che andasse ancora in prima media. Se per caso era lui, era meglio rientrare subito… E se invece era Ettore?
Si voltò e scese lentamente le scale, pensando a quale atteggiamento avrebbe dovuto tenere. Doveva fare l’offesa? Forse era meglio di no: così avrebbe capito. Ostentare indifferenza, come se non gliene fosse importato niente, ecco cosa doveva fare.In realtà, però, era confusa e, in fondo in fondo, piacevolmente sorpresa: era venuto a chiederle scusa? Lui? A lei? Comunque, non lo avrebbe certo perdonato così facilmente. Ettore poteva anche essere il più bello della classe e lei miss sciroccata, ma non intendeva farsi trattare come una pezza.
Mentre scendeva l’ultima rampa di scale, vide Ettore dietro il portone a vetri che stava suonando per la terza volta. Benedetta si affrettò, prima che sua madre decidesse di scendere anche lei e dirgliene quattro.
- Arrivo! Sono qui!- esclamò, affacciandosi fuori. Ettore si girò verso di lei, col dito ancora premuto sul campanello. Non sorrise come al solito. Anzi… aveva un’aria davvero abbacchiata.
-    Ciao- le disse.
-    Ciao.- Benedetta si sforzò di non fare caso al fatto che avesse sempre dei bellissimi occhi, anche se era arrabbiata con lui.- ehm… potresti levare il dito da lì?- aggiunse nervosamente.
-    Cosa? Ah scusa - fece Ettore imbarazzato, staccando il dito dal citofono come se scottasse.
I due si fissarono per un lungo, imbarazzante momento. O meglio, Ettore cercava di intercettare lo sguardo di Benedetta che, invece, faceva vagare gli occhi dappertutto pur di non guardarlo.
-    Sei arrabbiata con me, vero?- le chiese lui alla fine.
-    Se lo sai già perché me lo chiedi?- Benedetta quasi si spaventò: non poteva credere di aver risposto in quel modo a Ettore, e con quel tono poi. Ma se lo meritava. Finalmente trovò il coraggio di guardarlo in faccia.
-    Senti…- disse lui, fra il disperato e il vergognoso - lo so che ti sei offesa… ma io volevo venirci al tuo esame, davvero! Solo che… credevo fosse oggi!
Benedetta non si lasciò commuovere: era così palese che fosse una scusa, ed era pure male inventata. Lo fissò con aria incredula, quasi a sfidarlo, ma lui insistette:- E’ così! - prese a gesticolare agitatamente - stamattina alle otto sono andato a scuola… ti ho cercato ma non ti ho visto, così sono rimasto lì fino alle undici e mezza, ad aspettare il tuo turno. Non c’era nessuno della nostra classe, e quando alla fine se ne sono andati tutti io non ci ho capito più niente…- ora il tono del ragazzo era supplichevole - sono andato dalla bidella a chiederle di te, e lei mi ha detto che il tuo turno era ieri! Ma lei può testimoniare che sono rimasto lì tutto il tempo!
Benedetta aprì la bocca per parlare, ma invece si mise a ridere. Ettore rimase lì a guardarla mentre con una mano si appoggiava al muro e con l’altra si asciugava gli occhi che le lacrimavano. Benedetta rideva perché sapeva che sarebbe potuto benissimo capitare anche a lei, perché la commuoveva la faccia costernata di Ettore e anche perché si era finalmente resa conto che il suo innamorato non era poi così infallibile: era affetto da sbadataggine esattamente come lei!
Sul viso del ragazzo di dipinse un espressione speranzosa:- Non ti sei arrabbiata tanto,allora? In fondo, può capitare…
-    Certo… a me lo dici?- la ragazza soffocò l’ultima risata.
Il sorriso di Ettore si allargò: - Senti, per farmi perdonare, posso offrirti un gelato?- le chiese. Era tornato il solito Ettore baldanzoso e disinvolto, ma ora Benedetta si accorgeva che, sotto sotto, si sentiva ancora un po’ in colpa.
- Va bene!- rispose, e stavolta non si sforzò di fare finta che la cosa le fosse indifferente: rivolse al ragazzo un bel sorriso, il primo di una lunga serie.

Quando misero piede a casa, era quasi l’una.
- Amore! - chiamò Benedetta nell’ ingresso - ci sei?
Non ci fu risposta. La casa era silenziosa.
-    Strano, ancora non è rientrato- commentò la donna un po’ preoccupata. Lasciò scivolare la borsa a terra - come al solito! pensò Federica esasperata, mentre si chinava a raccoglierla - e si affacciò in cucina.
-    Non c’è! Ma dove sarà finito?- borbottò, andando a controllare le altre stanze della casa.
-    Controlliamo la segreteria telefonica- ribattè Federica, prendendo in mano il telefono di casa. Per lei era un’ abitudine farlo, sempre, quando rientrava . Era un po’ la sua fissazione, quella di controllare e verificare tutto, ma, con con quelle due teste matte dei suoi genitori, aveva dovuto imparare per forza ad essere ordinata per non vivere in un caos totale. I professori apprezzavano questo tratto del suo carattere e non facevano che lodare la sua precisione e la sua capacità di organizzarsi, ma lei sapeva bene che, in realtà, non c’era alcun merito in questo: era semplice istinto di sopravvivenza!
Federica premette il tasto della segreteria. La voce metallica recitò: - C’è un messaggio non ascoltato.- dopo un breve bip la voce di suo padre, leggermente modificata dall’apparecchio, risuonò per tutta la casa: - Ciao amore. Tutto bene? Io sono davanti alla scuola, sto aspettando Federica. Però qui non esce più nessuno. Ma quando finisce questo benedetto esame? Aspetta a preparare il pranzo.
Federica alzò gli occhi per incrociare quelli della madre, che era tornata indietro di corsa. Se ne stava immobile sulla soglia e sembrava la statua dello sgomento.
-    Oh mamma! Mi sono dimenticata di avvisarlo… che venivo io a prenderti… e noi ce ne siamo andate e non l’abbiamo visto…
Federica crollò il capo sconsolata. Questa, chissà perché, l’aveva già sentita!
-    Dovrebbero fare un film su di voi, “Vite scombinate”! Siete formidabili, davvero!- ironizzò, porgendo il telefono alla madre - Ho già fatto il numero.
-    Siamo una bella coppia, vero?- mormorò Benedetta  con un sospiro. Accostò la cornetta all’orecchio.
Federica le fece un sorriso d’incoraggiamento:- Da dieci.

   
 
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