1.
La Danza dei Ricordi
Finalmente.
Ancora
poche ore e avrebbe rimesso piede a casa. Dopo quattro lunghi mesi
sarebbe
tornato a Torino per le vacanze natalizie. Certo, Dublino era bella e
amava
vivere lì, il suo lavoro di assistente sociale gli piaceva e
lo riempiva di
soddisfazioni, ma l’Italia restava sempre la sua patria e
Davide non vedeva
l’ora di tornarci. Inoltre, se così non fosse
stato, sua madre gliel’avrebbe
fatta pagare cara, molto cara. Doveva ricordarle ad ogni telefonata che
aveva
da poco superato la soglia dei trent’anni, eppure lei
continuava imperterrita a
ripetergli di non nutrirsi di porcherie, di chiudere a doppia mandata
la porta
di casa e altre raccomandazioni da dodicenne. Ma, nonostante tutto, non
vedeva
l’ora di riabbracciarla e di infilarsi nel suo caro, vecchio
letto
adorato.
Nel
taxi sgangherato che lo stava trasportando fino all’aeroporto
risuonava forte
una melodia indiana stile Bollywood, cantata a squarciagola
dall’altrettanto
indiano autista che non accennava a smettere. Non che questo lo
turbasse, era
da sempre stato un amante dei più svariati stili musicali.
Ci mancava poco che
non si unisse all’uomo per terminare la canzone, ma non
conosceva le parole. Sempre
che ne avesse. Osservava concentrato l’ambiente fuori dal
finestrino, per
memorizzare ancora quei dettagli che notava tutti i giorni recandosi a
lavoro.
Finché…
«Si
fermi! Si fermi subito, per favore!» Il suo urlo colse di
sorpresa l’autista
indiano, che inchiodò bruscamente in mezzo alla strada.
Inutile dire che in
meno di due secondi la strada era invasa dagli insulti degli
automobilisti in
coda dietro di loro.
«Tenga il resto» esclamò
lanciando sul sedile a fianco al conducente una
banconota pescata a caso dal portafoglio. Saltò fuori
dall’abitacolo,
rischiando anche di grattuggiarsi la faccia contro l’asfalto.
«Ma sono
cinquanta euro!» ribatté l’uomo
guardandoli sbalordito. Non fu la sua unica
protesta, ma Davide lo liquidò con una mano, facendogli
segno di andarsene.
Cosa a cui l’altro ubbidì ben volentieri,
ringraziando chissà quale dio per la
fortuna ricevuta quel giorno. Lui invece si avvicinò di
corsa fino ad un muro,
la facciata principale del Gaiety Theatre, rischiando un paio di volte
di
essere investito e scusandosi un po’ in inglese e un
po’ in italiano con gli
automobilisti un pelino inferociti. E poi eccola lì,
ciò che lo aveva mandato
in tilt: un’enorme locandina, appesa vicino
all’ingresso di cristallo, che
annunciava “La splendida
rappresentazione
dell’opera ‘Lo Schiaccianoci’, con le due
étoiles Alberto Pecetto e Rebecca
Petrini”, testuali parole. E
così ci era riuscita. Non solo aveva realizzato
il proprio desiderio, ma era anche diventata étoile. E se il
suo poverissimo
dizionario francese non sbagliava, ciò voleva dire che era
la ballerina
principale dello spettacolo. “Inizio
delle rappresentazioni: 21/12/2018”. Inizio delle
rappresentazioni:
21/12/2018. Il 21… proprio quel giorno. Oh, Rebecca.
Avrebbe riconosciuto il suo viso fra mille, anche se a pensarci
bene non ne sapeva il motivo. Era cresciuta: l’aveva
conosciuta quando aveva
dieci anni, lui diciannove, ed era il suo animatore in una di quelle
colonie
estive che organizzano le aziende per i figli dei dipendenti. Da
quell’estate,
quell’estate di vent’anni fa, quando tutto era
facile come in un gioco, ne
erano seguite altre sei. Ogni inverno era per lui un supplizio,
un’agonia
nell’attesa dell’estate e di poter finalmente
riprendere a fare quel lavoro che
amava tanto, a contatto con i bambini. Anno dopo anno, colonia dopo
colonia, li
aveva visti crescere, maturare, crearsi delle idee proprie e prendere
consapevolezza di sé stessi, passando da bambini ad
adolescenti fino ad essere
adulti. E tra loro c’era stata anche Rebecca,
l’unica che non aveva subìto
alcun cambiamento. Certo, era cambiata molto nell’aspetto
fisico, non vedersi
per tutto l’inverno contribuiva ancora di più ad
accentuare questi mutamenti. Diventava
ogni anno più bella, ma poi finiva lì. Lei non
era mai stata prima bambina e
poi adulta, no, era da sempre entrambe le cose. Devota ai propri sogni,
li
inseguiva fin dalla loro nascita, sacrificando tutto il necessario per
avverarli. Quando l’aveva conosciuta si era presentata con un
fiero «Ciao, io
sono Rebecca e da grande farò la ballerina»,
lasciando intendere che niente
avrebbe potuto ostacolare quell’affermazione. Aveva solo
dieci anni. Quando finiva
una colonia, veniva messo in scena lo spettacolo finale e
c’era sempre, sempre,
almeno un balletto. Eppure tra le diverse ragazze che danzavano sul
palco, chi
meglio chi peggio, lei era quella su cui si puntavano meravigliati gli
occhi di
tutti, nonostante tentasse di mettere in risalto le altre compagne e la
musica
di sottofondo fosse la Macarena.
A
diciassette anni, poi, lo aveva contattato chiedendogli di darle delle
ripetizioni di matematica. Voleva concludere quell’anno
scolastico in modo da
poter poi partire e esprimere il suo talento per il mondo.
Quell’anno si erano
incontrati ogni settimana: pranzavano insieme, a casa di lui, e
terminavano il
pasto con i muffin che Rebecca comprava in una delle panetterie
più care di
Torino. Poi affrontavano due estenuanti ore di matematica, a cui
avrebbe
volentieri rinunciato dopo la prima lezione, se non si fosse trattato
di lei.
Quando finivano, la osservava allungare il braccio e gli porgergli i
soldi che doveva:
erano dieci euro all’ora, ma lui gliene restituiva sempre
cinque, «per i
muffin» ribatteva al suo sguardo arreso. In
realtà, il miglior pagamento che
potesse chiedere gli veniva dato proprio in quel momento: lei si alzava
dal
tavolo, sfiorandogli un braccio nel mentre, e si stiracchiava, contenta
che
quel supplizio fosse finito. Poi afferrava Gipsy, il suo gatto, che
all’epoca
aveva un paio di mesi, e piroettava per tutto il salotto tenendolo
stretto fra
le mani. Era lo spettacolo più bello del mondo. Era ancora
più emozionante,
però, vederla buttarsi di peso sul suo letto, quello che i
suoi amici neppure
sfioravano, perché sapevano quanto gli desse fastidio che
qualcuno oltre lui lo
usasse. Lo sapeva anche lei, eppure ci si gettava sopra con slancio,
sistemandosi
Gipsy sullo stomaco. Davide si appoggiava allo stipite della porta e li
guardava rapito, scuotendo la testa con una piccola risata quando la
piccola
palletta di pelo avanzava fino al morbido petto di Rebecca e cominciava
a
traballare. Poi li raggiungeva, si sistemava tra lei e il muro, facendo
aderire
la sua schiena al proprio petto e lasciando che Gipsy incespicasse tra
i loro
fianchi. Era una cosa che facevano da quando lei era piccola, dormire
insieme. Era
successo tutto quando, l’anno in cui l’aveva
conosciuta, per sbaglio si era addormentato
nel suo letto. Ogni sera si faceva la ronda notturna, a turno, e quel
giorno
era toccata a lui. Sebbene odiasse quel compito, adorava fermarsi nelle
camere
delle ragazze e chiacchierare degli altri compagni. Per avere solo
dieci anni,
erano delle vere pettegole quando volevano, ma era esattamente quello
che lo
divertiva. Rebecca, al contrario di loro, stava zitta e ascoltava, per
ciò lui
sceglieva sempre di sedersi sul suo letto. In quei pochi centimetri di
distanza
che c’era tra loro scorrevano pensieri, tacite domande e mute
risposte che si
scambiavano fingendosi interessati ai pettegolezzi sui
“ragazzi”. E poi si era
addormentato. Non ricordava come era successo, ma il risveglio
sì, quello se lo
ricordava benissimo. Aveva aperto gli occhi e aveva notato subito
qualcosa di
strano: la luce del sole non arrivava dal lato giusto. Lo aveva capito
in
fretta perché nella sua stanza aveva scelto il letto che non
veniva colpito dal
chiarore. Cosa che invece stava succedendo. Poi i suoi occhi avevano
incontrato
un cuscino troppo basso per i suoi gusti, di quelli che venivano
distribuiti ai
bambini e che misuravano circa due centimetri di spessore. Ecco
perché aveva
portato da casa il suo. E infine una massa di capelli tra il biondo e
il
castano, di un colore che non avrebbe identificato neanche negli anni a
seguire. Avevano un buon profumo. Aveva appena alzato la testa dal
cuscino,
prima di saltare a sedere per lo spavento. Rebecca dormiva tranquilla,
il petto
che si alzava e abbassava al ritmo lento del suo respiro…
sul bordo del letto!
Si fosse mossa di mezzo centimetro sarebbe caduta, e proprio mentre
formulava
questo pensiero lei si era girata, affondando il viso nel suo petto.
Continuava
a dormire sul bordo.
A quella notte ne era seguita
un’altra,
esattamente allo stesso modo. Quella dopo, invece, era stata
leggermente
diversa. L’aveva beccata che tentava di sgattaiolare fuori
dalla struttura alle
due del mattino. Le aveva chiesto dove volesse andare, e lei aveva
risposto con
un’alzata di spalle che voleva soltanto fare un bagno in
piscina, perché non
riusciva a dormire. Alla sua faccia sbalordita aveva continuato dicendo
che non
era la prima volta che lo faceva. Era la prima colonia di Davide, lei
aveva
dieci anni e quella era l’ottava notte. In preda a non seppe
neppure lui quale
delirio la prese per mano e la condusse in una stanzetta molto
più piccola
delle altre. Era la sua camera da letto. La condivideva con un altro
animatore,
che fortunatamente non era ancora rientrato dalla sua serata libera.
Aveva
detto a Rebecca che se non riusciva a dormire si sarebbe potuta fermare
lì. Lei
gli fece un largo sorriso e si distese sul letto. La raggiunse subito
dopo aver
infilato anche lui il pigiama (un semplice paio di pantaloncini
consumati del Toro).
Si sistemò dietro di lei, tra la sua schiena e il muro. Le
avvolse un braccio
intorno alla vita, perché, per tutta la notte,
dormì sul bordo del letto. Come
avrebbe continuato a fare per anni a seguire.
Ogni inverno trascorreva in preda all’agonia che
portava l’attesa
dell’estate. Non vedeva l’ora di poter incontrare
di nuovo i suoi ragazzi,
scoprire se erano cambiati e di accorgersi che erano cresciuti. Balle.
Sapeva
benissimo che l’unica che davvero non vedeva l’ora
di rincontrare era lei. Una
mattina, nell’estate in cui avevano rispettivamente sedici e
venticinque anni,
si erano alzati tutti quanti, animatori e ragazzi, alle quattro del
mattino per
vedere l’alba che, con molte proteste da parte dei suoi
spettatori, era poi
uscita alle sette e mezza. Era stato poi concesso di dormire fino alle
undici e
mezza, cosa che aveva sollevato gli animi di molti. Lui e gli altri
animatori
naturalmente avrebbero dovuto lavorare mentre i ragazzi riposavano. Non
avrebbe
dovuto sorprendersi di trovarla fuori dal letto, in fondo si aspettava
che
andasse contro ciò che era stato detto loro. Aveva passato
circa un quarto
d’ora a guardarla, da dietro una piglia, sotto il sole,
mentre lei ballava in
un piccolo salone dove di solito si radunavano tutti quanti per
svolgere delle
attività insieme. Era avvolta da un ritmo latino, lei che
amava tutti gli stili
esistenti al mondo, e ballava con la massima concentrazione e allo
stesso tempo
spensieratezza possibile. I capelli sciolti che ondeggiavano in ogni
direzione,
il costume da bagno allacciato dietro il collo, pantaloncini di jeans
inguinali
e piccoli cuscinetti sotto le piante dei piedi per non farsi male
quando
atterrava dopo una rondata in aria.
Aveva sedici anni e la forza della natura scorreva nelle
sue vene.
Sarebbe stato il loro ultimo anno insieme, in quella piccola cittadina
lontana da tutti, solo loro, amici e tanto divertimento. Non sapeva
più a quale
santo rivolgersi per poter trascorrere ancora un’estate con
lei. Non aveva
motivo per contattarla durante l’inverno, non era mai
accaduto. E quale motivo
aveva per farlo, poi? Erano
stati
animatore e “animata”, nulla di più.
Ogni volta che formulava quel pensiero il
suo cuore moriva.
Quando,
l’anno dopo, lo aveva chiamato per quelle famose ripetizioni
di matematica era
andato nel panico più totale: cos’erano adesso?
Eppure ritrovarsi era stato più
facile che respirare, più vero di un sogno. Era come se
avessero ripreso ad
essere sé stessi, solo in un altro contesto. Poi
però, la scuola era finita, le
lezioni terminate e lei non c’era più. Erano
passati quattro anni. Quattro
lunghissimi anni. Lui si era laureato, era partito per
l’Irlanda ed era
diventato assistente sociale. E
lei era
di nuovo lì, di fronte a lui, in una locandina che la
raffigurava leggiadra e
fiera tra le braccia di un ballerino, che la stringeva a sé
con delicatezza.
Aveva esaudito il suo sogno.
«Ehi, tu! Scusa, mi senti?». Una voce lontana lo
riportò a galla dai
suoi pensieri. Si girò più volte, prima
a sinistra, poi dietro, e in ultimo a destra, scontrandosi
con la figura
di una giovane ragazza. I capelli, dal colore della buccia di una
arancia, le
ricadevano spettinati sulle spalle, una ciocca fuggiasca sul petto.
Naso
dritto, pelle avorio, occhi enormi e verdi come prati e bocca sottile.
L’insieme, però, era un misto di preoccupazione.
«Scusa, cosa?» chiese
stordito.
«Ti
ho chiesto se va tutto bene…»
Lui la guardò sorpreso.
«Sì…
perché?»
La faccia della ragazza si aprì in un piccolo
sorriso, senza cancellare l’aria
preoccupata. «Perché è da quasi
mezz’ora che fissi quel cartello».
Buongiorno!
Allora... questa storia è in realtà basata su un'esperienza personale, che mi è successa... be', da molto poco. Vi si concentrano diversi temi, tra cui la danza, che è una cosa senza cui personalmente non potrei vivere. Che dire... spero che vi piaccia e nel caso in cui voleste lasciare qualche commento, sappiate che vi ringrazio tantissimo!Rebecca