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Autore: lilac    15/09/2008    13 recensioni
Ci sono cose che Bulma ha sempre saputo, eppure non sa spiegarle. In certi casi però, lei lo sa bene, tentare di capire non serve proprio a niente.
Breve one shot dedicata ad un pensiero e, soprattutto, ad un amore tormentato.
Genere: Generale, Romantico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Bulma, Vegeta
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Discalaimer:Personaggi, luoghi, nomi e tutto ciò che deriva dalla trama ufficiale di Dragon ball, non mi appartengono ma sono di proprietà di Akira Toriyama, che ne detiene tutti i diritti. Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro.

Augurando un buon rientro dalle vacanze estive a tutti, ritorno a postare una brevissima one shot che spero sia di vostro gradimento^^.
Grazie in anticipo, in ogni caso, a chi ha aperto questa pagina e grazie, come sempre, a chi ha letto (e commentato) le mie ultime storie.
Buona lettura^^



NIENTE


C’era il fuoco in quegli occhi. Erano capaci di ardere e d’incenerire ogni ombra di affezione, di sentimento; consumandoli, letteralmente annientandoli, in fiamme che sembravano generarsi fin dal profondo degli inferi.
Erano due pozze scure, abissi in cui pareva fossero precipitati un’amarezza, un dolore e una rabbia infiniti; il buio del mondo.
Ed erano malinconici, a volte, quasi disperati. Ma era proprio quel frammento di disperazione che li accendeva e divampava in un fuoco inestinguibile; ardeva come fosse vivo e insaziabile, come si alimentasse della stessa collera che lo generava. Riducevano in cenere ogni cosa; ogni sorriso, ogni carezza, ogni parola affettuosa sussurrata a mezza voce.
Non restava niente.
Bruciavano, quegli occhi. Ma lei s’infiammava con lui, complice e vittima di quella passione rabbiosa, estinguendosi in un momento; e passava il resto del tempo a lenire quelle ferite sulla pelle che avvampavano più del suo sguardo, finché lui non la scrutava di nuovo, come fosse sul punto di divorarla.
Ma lei non aveva paura. Non le importava niente.

C’era il veleno in quelle labbra. Erano capaci di corrodere e di logorare qualsiasi afflato d’amore, di tenerezza; distruggendoli, letteralmente divorandoli, in morsi letali di puro rancore e disprezzo.
Ogni volta che si poggiavano avide sulle sue, parevano volerle succhiare via l’anima, nutrirsi dell’unica speranza che quello stesso contatto fisico riusciva appena ad alimentare.
Erano le fauci insaziabili di un predatore; crudeli, selvagge, dilaniavano ogni illusione e ogni aspettativa, come fossero soltanto fragili lusinghe che accrescevano ancor di più la sua fame; e sembravano sfamarsi compiaciute di quell’innocenza brutalmente massacrata. Null’altro che un sontuoso banchetto; si saziavano di lei e del suo affetto con accurata voracità e li facevano a pezzi, senza tralasciare uno sguardo benevolo, una frase gentile. Ogni briciola.
Non restava niente.
Avvelenavano, quelle labbra. Ma una sottile, fragile scheggia d’irrazionale prendeva ogni volta il controllo dei suoi sensi, come impazzita, solo sentendosi sfiorare. Avvinta da quella brutale passione che assomigliava a un dolore, ad un vero tormento, lei si arrendeva impotente; stordita da quel veleno, che aveva appena un retrogusto dolce. Lo sentiva; distante, quasi impercettibile.
E continuava a illudersi. Non pensava a niente.

C’era il sangue su quelle mani. Erano capaci di uccidere, di trucidare sadicamente qualunque barlume di purezza, di bellezza e d’innocenza. Sporcavano ogni cosa candida e pura su cui si stendevano prepotenti; ogni cosa che faceva sua, al solo toccarla. E pareva non fossero state forgiate per altro scopo che infliggere dolore e sofferenza.
Erano le mani spietate di un violento assassino; e ogni volta che si posavano ferme e decise sul suo corpo, lei esitava appena, smarrendosi confusa in un impulso di assoluta meraviglia, quando percepiva il calore che emanavano, che pareva invaderle persino la mente; quando scopriva che quelle mani non conoscevano soltanto il freddo intenso della morte e il sangue che scorreva in lui era caldo quanto il suo.
Anche se per lui era solo l’istinto di un momento.
Per lui era niente.
Uccidevano, quelle mani. Eppure lei viveva ad ogni singolo suo tocco. Trasaliva, sopraffatta da un’emozione che le appariva continuamente nuova e l’avvinceva inarrestabile, sorpresa di non trovarsi tremante, in preda a brividi di freddo e di terrore. Perché avrebbe giurato fossero gelide quelle mani, ma gelida era invece la pelle che quel tocco abbandonava, come non avesse mai sentito altro calore che quello, il suo, e lo desiderasse più di ogni altra cosa.
Come se non desiderasse niente, a parte lui.

Non era solo uno spregevole, debole desiderio, poiché quel freddo continuava a sentirlo ogni volta che lui non la toccava, che non la baciava, che non la sfiorava con gli occhi… ogni volta che lui non c’era.
E ogni volta che lui non c’era, non restava niente.


“Ahi… Papà, mi hai fatto male!”
“Così impari a dormire nel mio letto”. Quelle labbra parevano ancora letali e di ghiaccio. Instillata di un’intensa e avvelenata ostilità, come rivelando le parole di un messo di morte al cospetto d’una vittima, quella voce risuonò roca nel buio, impastata dal sonno.
“Mi hai colpito… Qui.”
Immobile, il silenzio continuava ad avvolgerlo come aveva sempre fatto.
“Mi dai un bacetto, così mi passa?”
“Piantala di seccarmi, Bra! O ti rispedisco in camera tua a calci.”
Quegli occhi erano ancora due abissi scuri e senza fondo; si spalancarono sfavillanti d’una vitalità brutale, più scuri del buio stesso della notte, accesi di quella luce invisibile che tante vite aveva incenerito per sempre.
“Papà. Uno piccolo piccolo… per favore, mi fa male”.
Si sollevarono al cielo, quegli occhi, e da quelle labbra sortì un grugnito gutturale e agghiacciante, che somigliava a quello di un animale ferito e furioso.
Quelle mani che parevano gelide si posarono decise, con la fermezza della mannaia del boia, sul capo di una creatura innocente e fragile, che non tremava e non era sorpresa. Lo mossero a favore di una luce che non c’era, come fosse inanimato. Avvinta con fiducia in una stretta che era, ancora, la morsa fatale di un sanguinario assassino, anche quel minuscolo essere umano aveva cercato calore.
Ma era come non si aspettasse nulla di diverso.
“Non ti ho fatto proprio un bel niente!”
“Sì. Qui!”.
“Pensi che sia un idiota?! Non ti ho nemmeno sfiorato!”.
“Nooo… Mi hai colpito invece!”
“Sto perdendo la pazienza, Bra!”
“Mi fa male… Voglio solo un bacio, per favore… Qui”.
Quelle mani si fecero guidare da altre mani, minuscole e delicate. Quegli occhi più cupi del buio incrociarono altri occhi; la stessa profondità, lo stesso fuoco, ma chiari e limpidi come una giornata di sole.
E quelle mani esitarono, quegli occhi anche.
Solo allora, quelle labbra si deposero appena, incerte quanto non lo erano mai state. Fugaci e impercettibili, tremarono d’un risentimento che pareva più un’emozione, una sorpresa.
Un nuovo, doloroso tormento.
“Dannazione, come sono caduto in basso!”. Pronunciarono parole iniettate di veleno, ancora una volta e a bassa voce, prima che un muro di orgoglio si erigesse maestoso e impenetrabile tra lui e il resto del mondo. Ancora una volta.
“Grazie, papà. Ti voglio tanto bene!”.
Immobile, il silenzio continuò ad avvolgerlo come aveva sempre fatto.

Lei sorrise, e uno strano groppo alla gola le colmò gli occhi di lacrime. Non riuscì a darsi nemmeno della stupida per quella strampalata e improvvisa volubilità. Non riuscì a spiegarsi perché avesse vagato con la mente così lontano; non riusciva mai a spiegarselo.
Si era solo persa, ancora una volta. Semplicemente, seguendo quel filo sottile di ricordi che pareva dipanarsi ogni volta dalla voce di lui, dalle sue mani; dai suoi occhi, che si fingevano colmi di niente, ma nascondevano più di quanto fossero capaci di tacere.

Lei sorrise; non sapeva neppure il perché.
E immobile, il silenzio continuò ad avvolgerlo come aveva sempre fatto…

“Mamma! Vieni a dormire con noi anche tu?!”
“Un’altra parola e ti colpisco sul serio!”

… O quasi.

Bulma sorrise, semplicemente.
Forse l’aveva sempre saputo, fin da allora, che quel niente non significava altro che tutto.



FINE

  
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