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Autore: Miilkshake_    30/08/2014    3 recensioni
Sulla porta di quell'inferno, più precisamente attaccata ad un intelaiatura metallica posta sopra la cancellata a sbarre nere, spiccava a lettere cubitali l'unica speranza a cui qualche povero uomo senza colpe, si attaccava : ARBEIT MACHT FREI (il lavoro rende liberi)
Quella frase ci illudeva, ci prendeva in giro, sintetizzava beffardamente tutte le verità che ci venivano celate, ci ricordava che non meritavamo nemmeno sapere quando la nostra schiacciante tortura si sarebbe alleviata.
Migliaia di prigionieri come me varcarono l'ingresso e passarono sotto quella scritta terribilmente falsa ma la verità è che di molti di loro, oggi, non è rimasto nemmeno il ricordo.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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HO PERSO TUTTO MA HO VINTO LA VITA.


La notte del 13 dicembre 1943, quella in cui io conobbi a pieno il significato della parola "morte", fu la più  gelida di tutta la mia vita. Le immagini ad essa connesse si sono incrostate al mio cervello proprio come il sangue si incrostò sul pavimento della cucina. 
Fu esattamente quella notte, quando venni strappato via con violenza da tutto ciò che avevo, da quel poco che mi era rimasto: la libertà.
I nazisti entrarono in casa nostra e si appropriarono delle nostre vite, ma soprattutto si impossessarono di quella di Sebastian. Come dimenticare quel ragazzo e il modo brutale in cui lo uccisero? Come poter anche solo pensare di riuscire a scordare lo sguardo dei suoi  occhi velati dalla rassegnazione e l'immagine di quelle  labbra che si muovevano pronunciando il mio nome? Impossibile.
Quella notte  iniziò la mia battaglia contro la morte che minacciava di cogliermi aspettando il momento in cui la paura mi avrebbe sconfitto. Non ricordo molto di come arrivai in quel posto che anticipava l'entrata con una delle più grandi menzogne che noi umani abbiamo mai osato scrivere. Sulla porta di quell'inferno, più precisamente attaccata ad un intelaiatura  metalica  posta sopra la cancellata a sbarre nere, spiccava a lettere cubitali l'unica speranza a cui qualche povero uomo senza colpe, si attaccava : ARBEIT MACHT FREI (il lavoro rende liberi)
Quella frase ci illudeva, ci prendeva in giro, sintetizzava beffardamente tutte le verità che ci venivano celate, ci ricordava che non meritavamo nemmeno sapere quando la nostra schiacciante tortura si sarebbe alleviata. 
Migliaia di prigionieri come me varcarono l'ingresso e passarono sotto quella scritta terribilmente falsa ma la verità è che di molti di loro, oggi, non è rimasto nemmeno il ricordo. 
Ci divisero in gruppi a seconda del sesso e dell' età e  inflissero 25 bastonate a ciascuno di noi, perchè quello doveva essere il  benvenuto. Dopo un successivo controllo medico alcuni degli uomini vennero inviati nelle "docce", che invece di acqua spruzzavano Zyklon B; noi invece, venimmo condotti in edifici dove ci obbligarono a consegnare biancheria, abiti,documenti d'identità e tutti gli oggetti di valore che possedevamo. Ma io non avevo nulla; l'unica cosa di valore che avevo posseduto era Sebastian. Ci rasero la testa a zero e tutta quella massa di capelli a cui tanto tenevo, fu tagliata via e quello fu il momento in cui io iniziai a non somigliare nemmeno più a me stesso. Vivevo la confusione, mentre ci facevano lavare sbrigativamente con acqua bollente alternata a quella ghiacciata e ci consegnavano le nostre nuove vesti, vivevo la paura mentre osservavo uomini tremanti urlare la loro disperazione. 
Ma quello fu solo l'arrivo.
Rimasi solo un numero e un triangolo rosa per tutto quei due anni che passai nel campo. Non avevo identità, non avevo nome, ero solo un semplice numero tatuato sull'avambraccio sinistro e per i mostri, che amavano giocare con il filo a cui era attaccata la mia vita, ero solamente "Schwul" (gay)
Secondo l'articolo 175 del codice penale tedesco, ero colpevole del crimine di essere omosessuale. Lo stato considerava quelli come me   << Una seria minaccia per la gioventù >> Hitler  esclamava : << Dobbiamo sterminare la radice e i rami di questa gente. . . gli omosessuali devono essere eliminati! >>
A noi, schiavi del nostro sfruttamento, non importava sapere il motivo per la quale eravamo lì, nè cosa spingeva i Tedeschi a  infliggerci certe violenze, lo facevano e basta. La cosa peggiore era che noi assistevamo inermi agli episodi che si susseguivano tutti i giorni: epidemie mortali, frustate che facevano aprire squarci profondi, e pene impensabili che conducevano un corpo allo stremo fino a portarlo alla morte mentre gli ufficiali delle SS si lodavano a vicenda per aver ucciso un'altro uomo.  
Un giorno, un mio compagno di baracca si gettò contro il filo spinato. Morì. Inizialmente pensai che sarebbe stato bello poter smettere di essere legato per le braccia ad un palo solamente per non aver rimosso da una tazzina di caffè l'ultima macchiolina, credetti che, forse, morire mi avrebbe assicurato la pace che tutti bramavano ma che non potevano avere. Ma quelli erano solo i deliri del mio Io, che stava impazzendo. Non sarei morto lì dentro, non potevo, non volevo. Non potevo perchè l'unica cosa, che mi rendeva ancora un essere umano, era proprio la voglia di vivere, la forza di lottare. Non volevo perchè la rabbia cieca che mi faceva ribollire il sangue pensando a quelle persone che si erano tolte la vita piuttosto che provare a sopravvivere, superava ogni limite di sopportazione. Se Sebastian avesse potuto scegliere tra combattere e lasciarsi avvinghiare dalle braccia nere della morte,  avrebbe sicuramente preferito la prima opzione. Ci voleva coraggio per togliersi la vita, ma ce ne voleva molto di più per restare e cercare di viverla. Non sarei morto dentro quelle baracche che ospitavano larve umane. Non avrei macchiato la neve di tutto il sangue che avevo nel corpo né  avrei permesso loro di uccidermi facilmente. E mentre mi incoraggiavo da solo, camminando tra i blocchi che dividevano le nostre baracche, vidi un gruppo di uomini seduti gomito a gomito tentando di riscaldarsi. Si dividevano un pezzetto di pane rimasto e ad occhi chiusi parlavano a turno, citando alcune frasi provenienti da una piccolo libricino, che tenevano in mano, come: << Getta tutto il tuo peso su Dio ed egli certamente ti sosterrà >> oppure << Ed egli asciugherà ogni lacrima dai loro occhi, e la morte non ci sarà più, nè ci sarà più cordoglio, nè grido, nè dolore, le cose precedenti sono passate>>
Non riuscii a fare a meno di pensare a quanto fossero forti, e a quanto ricercassero la loro forza nella propria fede. Li ammirai. Ognuno di loro aveva cucito sulla camicia leggera di cotone un triangolo viola.
Passarono lenti i giorni dentro a quel campo, collocato chissà dove. Anche le cicatrici sulla mia schiena impiegavano tantissimo tempo per rimarginarsi e ogni volta che una di esse guariva, un'altra più violenta prendeva il suo posto. Ero ammalato, un po' come la maggior parte delle persone che mi circondavano. Sapevo che probabilmente sarei morto nel giro di qualche mese, ma non mi diedi mai per vinto. Lottai, lottai fino a quando le palpebre minacciarono di chiudersi per sempre. 
Stavo continuando a lottare quando, un giorno, qualcosa accadde. Gente correva a fiotti verso i cancelli, urlavano, scappavano. Udimmo degli spari un poco più lontano e seguimmo la massa che scalpitava per uscire. Eravamo liberi di nuovo? Le ossa minacciavano di sgretolarsi ad ogni passo eppure iniziai a correre come non facevo da troppo tempo. Corsi a lungo quel giorno, vedendo i cancelli che segnavano l'uscita come un miraggio. Nessuno poteva fermarmi, perchè finalmente riuscivo a sentire ancora il mio cuore battere. E più mi avvicinavo più intuivo che sì, sarei uscito dal mio incubo.
Alcuni soldati sparavano sugli ufficiali nazisti. Non sapevo chi fossero ma ero certo che mi avessero dato un biglietto di sola andata per la vita. Per vivere. E io lo afferrai quel biglietto. Eccome se lo feci. Lo strinsi al petto con tutta la forza di volontà che avevo.
 Era un giorno di aprile, quando varcai per la seconda volta l'ingresso con la scritta: "ARBEIT MACHT FREI"
Ripensai a Sebastian, a come fosse stato uccise quella notte di dicembre di due anni prima, al suo corpo che giaceva a terra circondato da quel liquido denso che puzzava di ferro. Ripensai alle cicatrici sulle mia schiena, a quanto ancora bruciassero e a quante innumerevoli fossero. Ripensai a quegli uomini che permisero al loro cervello di accettare la morte imminente. Infine ripensai a me stesso, a come fossi riuscito a combattere contro la morte, nemica incontrastabile e imprevedibile. Ripensai a quanto ne fosse valsa la pena di aver represso la voglia di lasciarsi morire sui sassi ghiacciati di quel campo innaturale, di quanto più fatica abbia sprecato decidendo che non avrei lasciato il mio involucro vuoto dentro a quel posto circondato dal filo spinato. E così mi accasciai a terra, perchè finalmente erodi nuovo libero, finalmente ero ancora padrone di me stesso. E mentre la brezza primaverile mi solleticava le narici, chiusi gli occhi e mi beai di un ultimo pensiero, che si faceva spazio nella mia mente devastata:
                         "Ho perso tutto, ma ho vinto la vita"


Angolo Autrice.
In memoria di tutti coloro che hanno subito.
Per non dimenticare
  
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