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Autore: Yandeelumpy    02/09/2014    3 recensioni
Ispirata alla creepypasta di Jeff the killer. Perché non continuare la storia della sua vita ora che è diventato uno spietato assassino ricercato in America? No, la sua famiglia non è stata la sua unica banda di vittime. Conterà corpi come pecore, a ritmo dei tamburi di guerra.
Genere: Introspettivo, Suspence, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Non riuscivo a capacitarmene. Perché mi ero buttato in un casino del genere? Ero alle prese con quel peso sulla schiena, che continuavo a trascinare nella mia folle corsa. Avevo la polizia alle calcagna, potevo sentirne la vicinanza dal suono delle sirene, vedere le sfumature di blu e rosso che si estendevano sulle mura delle abitazioni oltre i vicoli in cui cercavo una via di fuga.
Non avevo nemmeno una meta, il mio unico scopo era quello di correre finché non avrei trovato un nascondiglio decente. Sapevo soltanto che non volevo farmi prendere una seconda volta, non volevo tornare in quel posto, dove l’unica cosa che sapevano fare era farmi pressione psicologica e fisica, tentare di smantellare il mio orgoglio fino all’ultimo pezzo.
Con quelle loro domande, i loro aggeggi maledetti che utilizzavano per la tortura dei detenuti, o dovrei dire detenuto, visto che l’unico in questione a cui avevano riservato trattamenti speciali ero soltanto io. Quelle bende che mi oscuravano la vista, che mi impedivano di aprir bocca, nascondendo il mio splendido sorriso. No, nessuno poteva impedirmi di sorridere, io dovevo sorridere per sempre. Per sempre. Non potevo concedere a quei dannati bastardi di chiudermi la bocca tanto facilmente, né a loro né a quella donna…
Ecco perché. Forse era quello il motivo per cui mi stavo lanciando in così tanti casini: sfruttare ciò che avevo a disposizione per arrivare a lei ed ucciderla, per compiere la mia grande vendetta. Era colpa di quella donna se mi trovavo in quel guaio più grande di me.
Ho un vago ricordo della notte in cui era riuscita a prendermi, molto probabilmente non avevo controllo di me stesso, sia fisicamente che mentalmente. Ho sempre tentato metodi estremi per non finire dietro le sbarre, per evitare di morire, perché io non voglio morire. Io mi rifiuto categoricamente di morire. Sono gli altri a dover morire, non io.
Perso nei pensieri, non mi accorsi di essere arrivato ad un incrocio stradale. C’erano quattro strade: quella da cui provenivo, una a destra, una a sinistra e quella davanti a me. Non sapevo quale prendere, ero indeciso, dunque mi guardai freneticamente intorno. Le strade di quel quartiere erano vuote, a quell’ora, quindi non avevo il rimbombo dei clacson nella testa, e di conseguenza potevo concentrarmi su quello delle sirene. Dannazione, dove cazzo dovevo andare!?
Ansimavo nel tentativo di riprendere fiato, sia per lo sforzo di quel peso sulla schiena, che per la corsa fatta fino ad adesso, ponendomi quella domanda in mente. Chissà quanto avevo corso, senza nemmeno rendermene conto. E’ sempre così: l’importante è non farmi prendere, l’importante è non morire.

«A destra…» 

Una debole voce raggiunse le mie orecchie. Era quella ragazza, che nonostante quel che aveva passato, era ancora capace di mormorare qualcosa. Aveva detto a destra. Avrei dovuto fidarmi? Poteva essere una trappola. Magari voleva mandarmi dritto nelle fauci dello squalo. Poteva esserci una pattuglia, a destra, quindi perché dovevo fidarmi di lei?
Strinsi i denti, in un disperato tentativo di scaricare la tensione, ma non avevo tempo per ragionare. Dovevo fare in fretta, quelle mosche erano sempre più vicino, ed io ero lì fermo accanto al semaforo rosso come un perfetto idiota in attesa della morte.

«Ti prego…fidati di me…» 

Improvvisamente, mossi la gamba in avanti, rituffandomi immediatamente in una corsa verso la strada a destra. Non sapevo perché mi stavo fidando di lei, non sapevo perché la stavo portando sulle spalle. Avrei potuto lasciarla lì con i suoi aggressori, farmi gli affari miei e tornarmene sui miei passi! Invece la stavo aiutando, IO stavo aiutando qualcuno a…vivere. No, no, no! La mia testa stava dando i numeri! Peggio del solito, cazzo!
Sospirai durante la corsa, ascoltando il debole suono delle sirene, sempre più lontane. Dovevo essermi allontanato parecchio, per fortuna. Voltai lo sguardo verso la ragazza, incurante del fatto di fargli impressione o meno, standole così vicino.

«Dove andiamo!?» 

Sentivo il suo respiro leggero, mozzato dalla fatica di restare sveglia. Cazzo, non poteva abbandonarmi adesso! La stavo aiutando e voleva ripagarmi così!? Doveva darmi una risposta, o saremmo finiti nei casini entrambi!
Non che m’importi di lei, ma io ci avrei rimesso la pelle!

«C’è una… strettoia, per raggiungere il mio quartiere… vai a sinistra… casa mia è…lì…Sanderson…» 

Smise di parlare, dopo avermi dato un minimo d’informazioni necessarie. Strettoia, a sinistra, casa sua, Sanderson. Perché voleva portarmi a casa sua, adesso!? E chi era Sanderson?! Ed era perfino svenuta! Poco importava, l’avrei portata lì e me ne sarei sbarazzato una volta per tutte, così non avrebbe riferito assolutamente niente dell’accaduto alla polizia. Il mio sorriso si fece largo al pensiero, quindi imboccai la strettoia per raggiungere il prossimo quartiere. Un’altra vittima! Già potevo sentire l’odore ferreo e pungente del sangue, quel meraviglioso liquido rossastro e caldo, che mi macchiava pelle e vestiti, mandandomi letteralmente in paradiso.  D’accordo, paradiso non sarà proprio il termine adatto. Uno come me finirà sicuramente all’inferno. Roteai gli occhi chiari al pensiero, per poi rivolgere l’attenzione alla via che stavo percorrendo. Quella strettoia era buia, puzzava di spazzatura e alla fine di essa potevo notare solo una vasta scia di lampioni, perfettamente allineati su di una strada, contornata da varie case di media grandezza. Era decisamente diverso dal quartiere precedente, poiché quello sembrava una zona da ricconi, e questa da gente nella norma, direi.
Una volta uscito di lì, mi guardai intorno. Probabilmente avevo nuovamente quell’aria da perfetto idiota spaesato. Soffiai su un ciuffo di capelli neri che mi ricadeva sugli occhi privi di palpebre, muovendo prima un passo e poi un altro. Erano tutte case ordinate, luci spente e silenzio tombale. La classica zona americana fuori città, un quartiere tranquillo per la gente comune, un branco di vittime al chiaro di luna per me. Mi tornò in mente il quartiere in cui vivevo con la mia famiglia, era molto simile a quello, tranquillo sotto il punto di vista della gente adulta ma non da quello di un adolescente qual’ero. Per me era solo una zona piena di stronzetti senza un cazzo da fare, se non rompere i coglioni agli altri senza un motivo valido.
Fatto sta che non potevo farmi invadere da quei pensieri al momento, quindi mi soffermai ad osservare i nomi sulle cassette della posta. Ce n’erano di svariati, su alcune più di uno. Beh, in realtà tutte le cassette avevano su inciso più di un nome, non mi aspettavo di certo di poter trovare un singolo mucchietto di lettere, una persona sola e senza compagnia, come una vecchia isolata dal globo inte--E questo? Qui c’era un solo nome.
Sanderson? Ethel Sanderson? Puntai gli occhi sul volto della ragazza appollaiata sulle mie spalle, ormai doloranti dopo tanta fatica. Era lei? Quello era il cognome che aveva citato in precedenza, prima di raggiungere questo posto. Il suo nome mi ricordava quello di un ragazzo, anziché di una ragazza qual’era. Comunque, questa doveva essere casa sua. Mi fermai un attimo a pensare al perché. Perché non c’erano altri nomi, lì? Viveva da sola in una casa così grande? E la sua famiglia dov’era?
Ma perché cazzo mi faccio tutte queste domande, adesso!? Dovevo solo entrare, metterla sul suo letto ed ucciderla a coltellate, senza lasciare alcuna mia traccia. Io ero Jeff the killer, un killer, per l’appunto. Non un eroe.
Doveva avere sicuramente un paio di chiavi, da qualche parte. La posai a terra, davanti alla porta d’entrata. Cercai all’interno delle sue tasche quel che dovevo, riuscendo a recuperare il necessario per intrufolarmi in casa, dando poca importanza al cellulare e al portafogli.
Prima di entrare, osservai i particolari di quella casa: era interamente bianca, con finestre dalle cornici azzurre e dai vetri perfettamente puliti. Una casa grande, con due piani ed un grande giardino all’esterno, decorato con fiori di cui non conoscevo nemmeno il nome. Potevo riconoscere solo le rose rosse e le violette, non ero di certo un grande esperto di giardinaggio. La porta davanti a me era azzurra, proprio come le finestre, con il manico ovale in ottone. Mi decisi ad infilare la chiave nella serratura, girandola verso destra un paio di volte, prima di far pressione sulla porta per poter entrare, riprendendo poi la ragazza sulle spalle. Richiusi l’entrata alle mie spalle, cercando con la mano l’interruttore della luce. Riuscì a trovarlo a tentoni, quindi una chiara luce giallina mi accecò per un attimo. Era da tanto che non entravo in un’abitazione tanto normalmente, probabilmente da quando andavo a scuola. Erano passati anni, ma ricordavo ancora la sensazione di mio fratello accanto che rientrava con me. Posai per un attimo lo sguardo in un punto impreciso del parquet sotto i miei piedi, prima di riprendermi per poter ammirare ciò che c’era intorno a me: Potevo dire che l’arredamento fosse abbastanza classico, ordinato. Un tavolo in legno al centro della stanza, un divano in pelle color crema sulla mia destra, davanti ad esso una tv plasma da trentadue pollici, nera. Poco lontano da quest’ultima, uno scaffale pieno zeppo di libri di vari colori e dimensioni, un orologio a pendolo che produceva un fastidioso “tic tac” ed una riproduzione in miniatura del pianeta, o più precisamente un mappamondo.  Spostando lo sguardo a sinistra, potevo vedere il piano cottura, la lavastoviglie in acciaio, un semplice ripiano che ospitava su di esso una serie di utensili da cucina, posti in un bicchiere in legno, ed un frigorifero bianco.
Potevo dire che fosse una cucina abbastanza accogliente, ma non ero lì per una visita di cortesia. Mi apprestai a raggiungere il corridoio proprio davanti a me, prima di sussultare per…un abbaio. C’era un fottuto cane, lì dentro!? Perfetto, fantastico! Poteva essere peggio di uno dei cani addestrati dalla polizia, che una volta mi addentò un lembo della felpa?! Fortunatamente riuscì a sfuggirgli, ma non fu affatto una bella esperienza. Indietreggiai, preparandomi al peggio.
Nel momento in cui mi fiondai in avanti, pronto ad aggredire l’animale, dall’angolo del corridoio vidi spuntare un piccolo dalmata scodinzolante, pronto a “festeggiare” il mio arrivo in casa.
“…E questo coso da dove arriva?” Il mio primo pensiero, fu quello. Mi aspettavo un cane da guardia di grossa taglia, magari un pastore tedesco, o un rottweiler! Invece mi ritrovo davanti questo coso minuscolo che addirittura mi fa le feste! Scossi la testa, sconvolto, cercando poi di ignorare le sue testate affettuose contro le mie gambe. Era piuttosto docile, ma da un cucciolo cosa potevo aspettarmi? Continuai ad andare avanti, fino a raggiungere le scale, dopo aver superato due stanze chiuse da delle porte in legno, questa volta di un giallo ocra. Salì a tentoni le scale, a tentoni, poiché dovevo sbarazzarmi ogni tanto di quella cosa fastidiosa a chiazze nere che mi faceva da ostacolo. Avrei ucciso anche quel fastidio monocromo ambulante, dannazione!
Finalmente raggiunsi il secondo piano, posando nuovamente le scarpe sul parquet. I muri erano di un arancione molto chiaro, proprio come quelli del piano di sotto. Non amavo quei colori, preferivo il rosso o il nero, decisamente, ma non ero lì nemmeno per curarmi dell’arredamento. Posai gli occhi sulla porta davanti a me, spingendo poi sul manico per aprirla. Avevo raggiunto la camera di quella ragazza, ancora sulle mie spalle. Quella stanza parlava chiaramente di lei: davanti a me potevo vedere una finestra chiusa, contornata da delle tende in seta azzurra, il letto posto accanto all’armadio in legno alla mia destra, su cui giaceva una coperta piuttosto pesante, che ritraeva il tema di una galassia.
Riuscì a scorgere anche un tappeto ovale, bianco, su cui era posato un secondo mappamondo molto più grande di quello al piano di sotto. Una scrivania, sempre in legno, su cui era posto un pc portatile, un paio di grosse cuffie e alcuni cd musicali…e l’ennesimo scaffale di libri. Doveva essere un’appassionata di lettura e delle galassie. Per mia fortuna, il cane si era accucciato accanto al mappamondo, lasciandomi spazio libero per poterla posare sul letto.
Era giunto il momento di farla finita. L’avrei uccisa lì sul posto e sarei andato via, sarei sparito nell’ombra della notte senza alcun problema. Era un momento semplicemente perfetto per sbarazzarmi di quella ragazza, era di troppo, all’interno della stanza. Afferrai il manico del coltello all’interno della tasca posta sulla felpa bianca, facendo per tirarlo fuori, ma venni fermato da un leggero brontolio. Era il mio stomaco. Ora che ci pensavo, avevo fame. Non mangiavo da giorni, ero riuscito a recuperare qualcosa dalla spazzatura e a bere da qualche fontanella isolata in città. Non ricordavo di preciso da quanto non mangiavo qualcosa di decente, forse erano mesi e mesi che andavo avanti con il cibo che poteva recuperare solo un cane dai bidoni. A proposito di cane, anche lui stava mugolando alle mie spalle. Infatti, mi voltai per osservarlo, e sembrava seriamente preoccupato per la sua padrona. Poco m’importava, avrei rubato del cibo e poi l’avrei uccisa.
Lasciai la ragazza lì sul letto, avviandomi alla porta per raggiungere il piano di sotto. Una volta lì, controllai l’orario dall’orologio a pendolo. Segnava le cinque e trenta. Avevo davvero perso tutto quel tempo, per salvarla e portarla qui a casa sua? Non dovevo preoccuparmi, alla fine faceva tutto parte del piano: Ho ucciso quei due uomini solo per puro divertimento, ho portato qui questa ragazza per fare lo stesso in assoluta tranquillità. Non c’era niente di anormale, in me. Rimanevo comunque un killer.
Il mio sorriso prese una piega diversa dalle altre volte, come di soddisfazione, per il piano perfettamente studiato. Dunque, mi avvicinai al frigorifero, aprendo lo sportello: latte, succhi di frutta, marmellata, uova, formaggio, burro, carne, un dolce al cioccolato mezzo divorato. Avevo solo l’imbarazzo della scelta.


*

«Kyrie…?» 
Il piccolo dalmata alzò di scatto la testa, ritrovandosi davanti la ragazza dai capelli castani, lì seduta sul letto ed intenta a posarsi una mano sulla testa. Scodinzolò per contentezza, avvicinandosi a lei a piccoli e goffi saltelli.
Ethel sembrava sconvolta, poiché non ricordava di aver fatto rientro in quella che sembrava davvero casa sua, o forse aveva dormito poco e male. Dopo aver accarezzato la testa del cagnolino, riuscì ad alzarsi per poter realizzare la situazione. Sì, era proprio la sua stanza, quella, e fuori il cielo si stava colorando di una leggerissima tinta d’azzurro, sfumato con un rosa acceso. Doveva essere l’alba.
Si diresse a piccoli passi verso la porta della propria stanza, seguita dal cucciolo dietro di sé, prima di affacciarsi dietro la soglia per scorgere le scale. C’era qualcuno al piano di sotto, non ricordava d’aver lasciato la luce accesa, né di essersi alzata durante la notte. Un improvviso rumore di vetri spaccati raggiunse le sue orecchie, facendola sussultare sul posto. Ora aveva la conferma che ci fosse qualcuno, in casa sua. Deglutì, recuperando subito Kyrie per tenerlo tra le braccia, quasi come per proteggerlo da un eventuale attacco. Con un profondo sospiro, scese lentamente le scale, a passi silenziosi ed insicuri. Si sporse appena dal corridoio, e ciò che vide, le fece strabuzzare gli occhi verdi: c’era qualcuno seduto al suo tavolo. Era un ragazzo dai capelli lunghi e neri, esageratamente smossi e che superavano le spalle, vestito con una felpa bianca ed un paio di pantaloni stretti, indossava delle Converse che sembravano piuttosto vecchie. Sbatté le palpebre varie volte, prima di chinare lo sguardo verso il pavimento, imbrattato di chiazze rosse e pezzetti di vetro rotto. Solo dopo un po’ realizzò che quello doveva essere il barattolo di marmellata alle ciliegie che aveva comprato il giorno prima, al supermercato poco lontano da casa sua.
Tornando con lo sguardo sul ragazzo, si accorse che stava letteralmente divorando un sandwich stracolmo di quella sostanza, quasi come se non mangiasse da anni. Aveva le mani sporche di rosso, e così anche i vestiti, ciò poteva sembrare addirittura del sangue.
Il cucciolo tra le sue braccia, abbaiò una sola volta, facendo voltare di scatto la testa del ragazzo verso di lei. Quel volto…l’aveva già visto, forse nei sogni. No, anche nella realtà. Quei solchi profondi e rossi posti accanto alle labbra del ragazzo, che quasi sembravano dipinti sulla pelle bianca del viso. Quegli occhi grandi e spalancati, contornati di quel nero che metteva chiaramente in risalto quelle iridi così chiare da sembrare bianche. Si fissarono per una manciata di secondi, fino a quando Ethel non ricordò il suo nome, trovando il coraggio di pronunciarlo in un sussurro:

«…Jeff?» 




~

Salve lettori! Qui è l'autrice. Ecco a voi il sesto capitolo! L'estate è finita e settembre è arrivato, ma non per questo mi bloccherò per molto tempo, scriverò sempre un po' al giorno nel tentativo di pubblicare presto il prossimo. Sono consapevole del fatto che forse non è molto, visto che parla dell'arrivo di Jeff in casa, del nostro cagnolino invadente e di Ethel, di cui adesso sappiamo il nome! x'D Ma vi assicuro che il prossimo sarà molto più interessante, ed inoltre ho un intenzione di aggiungere un piccolo extra che vi sarà utile per capire un paio di "misteri"! ;) 
Al prossimo capitolo!

~ Lumpy.
  
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