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Autore: Sebastiano Theus    02/09/2014    4 recensioni
Geralt parte da Vengerberg in compagnia di Ranuncolo, impegnato in una pericolosa missione per riparare il liuto del bardo. Un'altra persona segue il loro stesso percorso per altri motivi: Essi Daven, vecchia conoscenza di Geralt. I due si incontreranno? Riusciranno a dirsi tutto quello che non hanno potuto dire in passato? O potranno solo vedersi da lontano, guidati da diverse correnti del destino?
*questa storia è il seguito de Un Vero Amico*
Genere: Avventura, Drammatico, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Il vento giunse da nord, scendendo dalle montagne e passando sopra le colline di Passafiume. Nella piazza davanti alla locanda, l’ultima lanterna di carta ondeggiò violentemente, si strappò e cadde sui tavoli ormai vuoti. Rotolò sul legno finendo sull’erba, poi venne spinta di nuovo in alto contro le case. Rufus la guardò affascinato. La seguì con lo sguardo fin quando non scomparve dietro un angolo.
Stava seduto su una panca, i gomiti appoggiati sopra il tavolo. Era lì da circa un’ora, incerto sul da farsi. Aveva visto Astario per l’ultima volta alla festa della sera prima, prima che si allontanasse senza farsi notare e senza dire niente a nessuno.
Rufus era preoccupato. Nella tarda mattinata era anche andato da Vergalio, il padre del suo amico, a chiedere dove fosse finito. Il vecchio non sapeva nulla, ma non gli era sembrato né sorpreso, né preoccupato. Astario era adulto e forte, e capitava che restasse fuori casa a dormire. Vergalio era invece arrabbiato col figlio, visto che lo aveva lasciato da solo a portare fuori le scatole imballate per la partenza. Rufus aveva quindi perso il resto della mattina ad aiutarlo. D’altronde, casa sua era anche il posto più probabile dove ritrovarlo, tanto che si aspettava di veder comparire l’amico da un momento all’altro.
Invece aveva finito i lavori e di Astario non c’era ancora traccia. Provò a cercarlo di nuovo nel paese, ma sembrava svanito nel nulla. Gli venne in mente lo strigo e tutta la confusione che il suo arrivo aveva portato e si sentì prendere dal panico. Si obbligò a calmarsi e a non perdere la testa. Non aveva motivo di pensare che gli fosse successo qualcosa, era inutile farsi prendere da certi pensieri. Ma perché i pensieri peggiori a volte sono così allettanti?
Rufus si rese conto di aver vissuto gli ultimi giorni tra attimi di lucidità e attacchi di panico. Era stato il panico quando Vergalio aveva radunato tutto il paese e aveva spiegato cos’era successo a quella carovana che attraversava il bosco. Da anni vivevano con il terrore che qualcosa del genere potesse accadere. Ne avevano già discusso e tutti erano d’accordo nel lasciare il paese, anche i più vecchi. Avrebbero attraversato il fiume Dyfne assieme, poi alcuni avrebbero preso strade diverse. Nessuno voleva essere ancora lì quando i soldati del re sarebbero arrivati a investigare.
Rufus aveva imparato a convivere con la paura fin da bambino, non ci faceva quasi più caso. Ma tutti i segreti, i discorsi e i piani fatti in quegli anni erano diventati realtà. Si sentiva spaventato a morte.
Fu il panico quando venne mandato con una squadra a seppellire i morti della carovana. Davanti ai quei corpi smembrati si promise di non dubitare più, di fuggire con gli altri senza guardarsi indietro. Ma non riuscì ad evitare i conati e il vomito, le sue mani non smisero mai di tremare mentre gettava terra sui cadaveri.
Perse di nuovo lucidità quando lo strigo e il poeta arrivarono in paese. Pensò che i soldati fossero arrivati prima del tempo. Poi quei due cominciarono a indagare e a fare domande.
Non riusciva a capire perché Vergalio li avesse assoldati. Il vecchio aveva radunato alcuni uomini, Rufus compreso, e aveva detto loro di fidarsi di lui, di lasciar lavorare lo strigo senza ostacolarlo ma anche senza aiutarlo direttamente. L’unico a non essere d’accordo era stato Astario. Ed ora era sparito.
Rufus si sentì girare la testa. Si sedette sulla panca nella piazza della locanda e rimase fermo. Si voleva mettere in viaggio con Astario: dove lui fosse andato, gli sarebbe stato vicino. Un’idea semplice. Ancora non si curava di quello che sarebbe accaduto dopo, non aveva alcuna importanza.
Ma lui era scomparso e la partenza si faceva sempre più vicina.
Le barche erano attraccate al porto. La gente si riversava in strada portando casse di provviste e vettovaglie. Scendevano verso il fiume opponendosi al vento che li tirava indietro, caricavano nelle stive i frammenti della propria esistenza. Tornavano indietro verso le case a passo rapido, spinti dalla voglia e dall’aria, per poi andare lenti verso le barche carichi di altre casse.
Polanna e Bergac, Vergalio e il suo seguito, altri uomini e altre storie si staccavano dalla terra conosciuta, dalle pagine che narravano il loro paese. Nascondevano la tristezza in qualche parola allegra, in qualche favore scambiato col vicino, si mescolavano alla corrente.
Rufus stava lì, immobile, aspettando un amico che non tornava.
 

*

 

Essi Daven si alzò dal letto tremando appena un po’. Non si sentiva ancora del tutto in forze, ma scoprì di non aver grosse difficoltà a fare qualche passo per la stanza. La testa aveva smesso di pulsare, e non le faceva quasi più male.
Avanzò fino alla finestra e scostò la tenda. I raggi del sole arrivarono troppo diretti sul suo viso e sentì una fitta dietro la fronte mentre chiudeva gli occhi davanti alla luce. Richiuse la tenda e si allontanò dalla finestra.
Si mosse ispezionando il tavolo, gli scaffali, i vasi di terracotta. Ogni tanto ne annusava il contenuto, senza mai riuscire a capire cosa fosse. D’un tratto, un vaso le cadde di mano e andò a infrangersi sul pavimento.
Si immobilizzò e guardò con una punta di panico la porta che dava sull’altra stanza. Non c’era una vera porta, era solo un telo che nascondeva l’apertura nel muro. Le parve di sentire qualcosa, ma non accadde nulla.
Si risedette sul letto, incerta se rimettersi sotto le coperte e far finta che non fosse successo niente.
Alla fine si decise e andò nell’altra stanza.
Trovò la vecchia seduta sullo sgabello davanti al tavolo, intenta a legare tra loro una lunga serie di fiori. Le parve triste, estremamente stanca, ancora più vecchia. Lei si voltò e la guardò con un sorriso stanco.
«Ti sei svegliata. Ci era sembrato di sentire dei rumori.»
Essi non rispose. Continuava ad osservarla senza capire come comportarsi.
«Non è bello rompere le cose altrui», continuò lei. «Ma non preoccuparti stavolta, abbiamo altri vasi.»
La ragazza rimase ferma sulla soglia, studiava le sue mani ossute che annodavano i gambi allungando la catena.
«Io me ne vado», disse rompendo il silenzio che era calato tra loro. «Ormai sto bene.»
La vecchia la fissò e notò il modo in cui si reggeva al bordo della porta per non cadere, come cercava di mascherare il tremore alle gambe.
«Siamo contente che tu stia meglio», disse soltanto.
«Dov’è la mia collana?»
«Lì sopra», rispose indicando uno scaffale vicino al tavolo.
Essi si mosse e allungò la mano per prendere ciò che le apparteneva. Ma proprio mentre passava accanto alla vecchia il mondo cominciò a girare, le gambe smisero di sorreggerla, si sentì come se il suo corpo finisse all’altezza del bacino, senza che ci fosse più nulla ad allontanarla dal pavimento. Riuscì ad appoggiarsi al tavolo tenendosi miracolosamente in piedi mentre continuava a boccheggiare.
La vecchia si limitò ad osservarla senza smettere di lavorare.

 

*

 

Geralt sentì un brivido lungo la schiena. La pozione cominciava a perdere effetto. Prima di tutto sarebbe svanito l’effetto analgesico, restituendogli tutto il dolore che gli aveva risparmiato durante il combattimento. Poi la tensione muscolare si sarebbe allentata, e lui avrebbe rischiato di stramazzare al suolo se non stava attento. Era un veleno, se ne rendeva conto. Se un uomo qualsiasi provasse a bere una delle sue pozioni, morirebbe sul colpo. In quanto strigo, lui era addestrato ad assumerle, a valutarne i rischi, i benefici, e a sopportarne l’astinenza.
Ma il brivido che sentiva lungo la schiena forse era anche qualcosa d’altro. Lui e Ranuncolo erano inginocchiati accanto al corpo di Astario. L’avevano visto combattere in quella forma mostruosa e l’avevano visto trasformarsi una volta abbattuto. Geralt si rendeva conto che questo avrebbe messo il suo incarico sotto una luce completamente diversa.

 

*

 

Lei prese uno sgabello e lo mise dietro alle gambe di Essi Daven.
«Siediti qui, piano»
La ragazza obbedì mentre il senso di mancamento cominciava a passare.
«Non crediamo tu possa ancora andare via», disse la vecchia.
Essi scosse la testa, cercò di rialzarsi ma di nuovo le gambe non la ressero. Ricadde sullo sgabello faticando a tenere il busto in equilibrio.
«Domani potrai andartene. Non ti tratterremo, non tratterremo nessuno.»
Essi la guardò senza capire del tutto cosa intendesse. La vecchia aveva lo sguardo perso sul muro, sembrava distante.
Poi tornò di nuovo a fissarla.
«Resta ancora un po’…»
Sembrava quasi una supplica.
Rimasero sedute entrambe davanti al tavolo, senza dire più una parola.
La vecchia riprese in mano i fiori, rimase ferma a guardarli un attimo, poi ne passò alcuni ad Essi.
«Ci daresti una mano?»
«Cosa ci devo fare?»
«Guarda», rispose lei. «Li devi legare così, uno in fila all’altro.»
Essi prese le campanule e i gelsomini e cominciò il lavoro. Non riusciva a capire perché la vecchia le desse un’impressione così strana. Le sembrava debole, fragile, come se tutti gli anni che gravavano sulla sua schiena l’avessero schiacciata fino a renderla irriconoscibile.
Si rese conto che non avrebbe parlato, sarebbe toccato a lei rompere il silenzio, se proprio voleva.
«Quanto lunga bisogna farla?», chiese sollevando la propria fila di fiori.
«Molto di più, molto di più! Dopo leghiamo assieme le nostre per farne una sola»
«E per cosa vi serve, così lunga?»
«Questa è una sorpresa. Ma non per te», rispose lei senza nessuna allegria.
Continuarono a lavorare in silenzio.
«Hai mai perso un amico?»
Essi sollevò la testa e studiò un attimo la vecchia dopo quella domanda improvvisa.
«A chi non è mai capitato?», rispose.
«Noi abbiamo appena perso il nostro amico».
Nonostante i suoi anni da bardo e la sua esperienza in poesia, Essi si rese conto di non saper cosa dire.
«Mi dispiace… Avete provato a parlare? Magari è un’incomprensione…»
«Lui non era il tipo da parlare. Oh, lo faceva se lo forzavamo un po’, e allora ci sussurrava tante cose nelle orecchie, ma a lui non piaceva»
«Cos’è successo?», chiese Essi mentre decideva di legare assieme un ciclamino e due gelsomini.
«Noi… Dovevamo mettere alla prova qualcuno! Era necessario! Tu ti fideresti di qualcuno senza metterlo alla prova? Per una cosa così delicata, poi? Rispondi di sì e sarai la più giuliva delle oche, pronta ad essere messa nel forno!».
Così gridando indicò con la mano la grossa pentola appesa nel camino. Per un attimo, ad Essi non sembrò una minaccia a vuoto.

 

 

 

*

 

Geralt e Ranuncolo prepararono una lettiga e la fissarono dietro a Rutilia, la cavalla dello strigo. Poi presero il corpo di Astario e ce lo adagiarono sopra, assicurandolo in maniera che non scivolasse durante il trasporto.
Non scambiarono neanche una parola.
Ranuncolo si chiese cosa avrebbero potuto fare a quel punto. Forse avrebbero fatto meglio ad andarsene, fuggire e dimenticare tutto. Ma sapeva che quello non era lo stile di Geralt. E neanche il suo.
Aveva il cuore gonfio e pesante quando si allontanarono dalla radura portando il corpo di Astario con loro.

 

*

 

«Vi conoscevate da molto?», chiese Essi dopo qualche minuto di silenzio.
«Da decenni», rispose la vecchia.
«Ma quanti anni avete?», si arrischiò a chiedere.
Per la prima volta, la vecchia rise.
«Molti, bambina, forse troppi.»
«E siete sempre state due?».
Essi aveva l’impressione che la donna le si stesse aprendo per qualche motivo, sembrava avesse bisogno di parlare.
«Sì, sempre. Essere così ha dei vantaggi.»
«Ma anche svantaggi!», disse improvvisamente un’altra voce. «Un corpo solo per soddisfare le esigenze di due persone! Da quel punto di vista, un vero disastro!»
«Setsy! Che ci possiamo fare? Indietro non si torna.»
«Lo so. Volevo solo dire che non è stato sempre piacevole, sorella.»
Essi si era fatta indietro nel sentire improvvisamente quella voce così diversa, raschiante. La vecchia si voltò verso di lei. Negli occhi aveva una luce feroce, una rabbia tenuta faticosamente sotto controllo.
«Che c’è, piccola? Hai paura di Setsy, della sorella cattiva?». Continuava ad avvicinarsi piegando il busto verso di lei, ma stavolta Essi rimase ferma, sostenendo il suo sguardo.
«Dovresti… Tutti hanno paura di me, la guerriera, la custode! Sono così terrorizzati che si dimenticano di Metsy, la sorellina gentile, quella che cura le persone. Dimenticano che curare le persone ti insegna un’infinità di modi per ucciderle.»

 

*

 

Chi per fuoco, chi per acqua. Chi nella luce del mattino, chi sotto un raggio di luna. Chi per veleno, chi per spada. C’era qualche differenza?
Geralt cavalcava lentamente in direzione di Passafiume. Sentiva il peso che Rutilia trasportava dietro di sé, sentiva lo strascico della lettiga. Ogni movimento della sella risvegliava un nuovo dolore in qualche parte del suo corpo. La pozione stava esaurendo il suo effetto, sarebbe stato costretto a prendere qualche altro analgesico se voleva stare in piedi.
Stare in piedi per far cosa, poi? Per evitare di essere linciati una volta arrivati in paese? Per estrarre la spada e difendersi un’altra volta? In fondo era tutto quello che sapeva fare.
La nebbia si diffondeva lentamente attorno a loro. Geralt l’aveva notata già prima: usciva dagli occhi e dalla bocca di Astario, diffondendosi come una striscia di fumo. In mezzo alla nebbia camminava una figura esile, dai fianchi sottili, coi capelli che sfumavano dietro alle sue spalle bianche come latte.
Avrebbe voluto che quella figura allungasse la mano e prendesse la sua, che fosse sua volontà accompagnarlo là dove stare in silenzio, com’era prima e come sarà per sempre. Sarebbe stato un buon momento per andarsene. Ma non era lì per lui: camminava al fianco di Astario, accompagnandolo dolcemente.
Geralt scosse la testa e si costrinse a guardare avanti. Le pozioni potevano causare allucinazioni molto vivide, anche peggiori di quella. Si affidò agli occhi del proprio cavallo e lo spinse avanti con un’andatura moderata.
Improvvisamente il medaglione vibrò.

 

*

 

Essi scrutò negli occhi feroci della vecchia. Il suo ghigno era tagliente come una lama seghettata, la sua pelle grigia sembrava incendiarsi con un fuoco nascosto. Eppure, sotto la rabbia, Essi scorse una tristezza tale da stringerle il cuore.
Rimase ferma, sostenendo quella prova di sguardi. Le sembrò di entrare in quegli occhi, di poter scostare un velo dopo l’altro, sempre più a fondo.
La vecchia si bloccò, improvvisamente sorpresa. Poi sorrise, rimanendo immobile e accogliendo lo sguardo della ragazza.
«Cos’hai visto, bambina?», chiese con una voce che nascondeva la tensione dietro un velo di dolcezza.
Essi si era improvvisamente raddrizzata, confusa e vagamente spaventata. Osservando i suoi occhi le era sembrato improvvisamente di trovarsi davanti a due strade diverse, un bivio che si allontanava in due direzioni, una divisione così netta da essere quasi fisica. Era perplessa.

 

*

 

Ranuncolo gridò. Geralt si voltò giusto in tempo per vedere Astario mentre sputava a fatica un grumo di sangue. Bloccò di scatto il cavallo e scese a terra con un salto, poi si chinò ad osservare il ragazzo.
Il petto si sollevava a tratti cercando di riempirsi d’aria, gli occhi vagavano confusi senza dar l’idea veder davvero qualcosa.
Ranuncolo era pallido come un morto.
«Ma è vivo?»
Geralt non rispose alla domanda, la risposta era troppo ovvia. Si sentì pervadere da una rabbia feroce: sentiva il bisogno di aver davanti un volto da spaccare a pugni. E sapeva benissimo a chi stava pensando.
«Resta in sella, Ranuncolo. Andiamo in paese, acceleriamo.»
Il bardo guardò in faccio lo strigo. Il suo sguardo non gli piacque per nulla.

 

*

 

La vecchia rise di gusto.
«Ci piaci, ragazza! Ha ragione chi dice di non sottovalutare un poeta.»
«Parla per te, sorella. A me non piace.»
«E perché non ti piaccio, Setsy?»
Essi aveva colto al volo l’opportunità di inserirsi in una discussione tra le due “sorelle”.
I suoi occhi si ridussero a due fessure penetranti.
«L’ultima persona che mi ha fatto una domanda del genere è finito a dipingere i muri della mia stanza con il proprio sangue…»
«Che esagerata!»
La vecchia aveva appena levato le braccia al cielo, come a indicare una panzana colossale.
«Metsy! Mi ha chiesto perché non mi piace! Così carina, fragile, innamorata… Mi fa schifo!»
«Io non sono fragile!»
«Ti abbiamo curata quando eri moribonda, sappiamo esattamente quanto sei fragile.»
Essi dovette concederle un punto. Aveva notato che la vecchia parlava al plurale quando le due personalità erano d’accordo, ma passava al singolare interpretando entrambe quando invece non lo erano. Ma fino a che punto potevano separarsi?
«E il resto non ti riguarda», aggiunse sfregando i denti in un moto di rabbia repressa.
La ragazza percepiva l’odio che scaturiva dalla vecchia, come se ai suoi occhi fosse davvero diventata l’essere più spregevole della terra. Ma nonostante la debolezza, Essi ne aveva abbastanza.
«Perché mi avete curata se provate un tale disprezzo per me?»
«È Setsy ad avere qualche problema con te, non io», rispose Metsy.
«Disprezzarti? Disprezzo il tuo legame con un uomo che ti ha presa e abbandonata senza farsi nessun problema. Mi basta sentire il tuo odore per capire che non lo vedi da anni!»
«E allora? Non sono affari che ti riguardano!»
«Lo sai cosa facevamo, bambina?»
La vecchia staccava ogni frase con un profondo respiro, come se dalle narici sentisse le emozioni che esplodevano dentro la ragazza e godesse di ogni aroma che percepiva.
«Sai perché mi chiamavano “la custode”? Sai perché le donne venivano da noi con offerte di cibo e gioielli? Io punivo i loro uomini infedeli. Li raggiungevo ovunque… Che indimenticabili battute di caccia… Ovviamente prima ci assicuravamo di persona che fossero davvero infedeli»,  concluse con una serie di risatine soffocate.
Essi si tirò indietro istintivamente. Il ghigno sulla bocca della vecchia sembrava la smorfia di un cane pronto a mordere. Lei esitò a chiedere: «Cosa facevi? Li uccidevi?»
«Ti piacerebbe scoprirlo, bambina? Potresti farci un’offerta… La tua collana andrebbe più che bene. Ma prima, verificherei di persona che sia davvero infedele…»

 

*

 

Astario si agitò e si lamentò per tutto il viaggio. Non disse una parola, continuò invece ad emettere degli strilli acuti, quasi degli squittii. Ogni tanto si parava il volto con le mani, come a difendersi da un colpo.
Per quel che riguardava Geralt, il ragazza poteva anche mettersi a cantare, non gliene sarebbe importato nulla. Aveva visto la nebbia dileguarsi e la figura esile svanire, probabilmente andati ad accompagnare altre persone in fin di vita.
Geralt imprecò, aumentò ancora l’andatura del cavallo e poi ingurgitò un antidolorifico in un sorso solo.
«Geralt! Ehi! Così veloci rischiamo di lasciare il ragazzo per strada.»
Lo strigo non si voltò: sapeva che la pozione che aveva appena bevuto rendeva il suo viso simile a quello di un cadavere. Preferì risparmiare a Ranuncolo questa vista.
«Non preoccuparti, è ben assicurato. E tieni il passo!»
«Ma gli scossoni potrebbero peggiorare le ferite…»
«Che il diavolo mi prenda se me ne importa qualcosa!»
Geralt si lanciò avanti pregustando l’incontro con Vergalio.

 

*

 

Essi stette in silenzio così a lungo da far credere a Setsy di star veramente prendendo in considerazione la proposta.
Poi scosse la testa. «No, mai. È mostruoso».
«Rifiutano quasi tutte, la prima volta. Poi ci ripensano.»
«No».
La vecchia sospirò e tornò a concentrarsi unicamente sui fiori.
«No», ribadì ancora Essi. «Però non avete risposto alla mia domanda. Perché mi avete curata?»
Fu Metsy a rispondere: «Perché ti ho trovata ferita in quel bosco. Era mio dovere curarti.»
«Mi hai trovata tu? E se mi avesse trovata Setsy?»
«In tal caso ti avrei lasciata lì a morire».
Essi cercò di immaginare due moralità costrette in un corpo solo. Rabbrividì. Le sembrò impossibile, un’unione destinata ad esplodere. Sempre che non fossero poi così diverse.
Osservò le sue mani, agile nonostante i nodi che l’età aveva imposto loro. Anche se impegnate nello stesso compito di legare i fiori, sembravano del tutto indipendenti l’una dall’altra, una perfetta ambidestria.
«Avanti, ragazza, aiutaci ancora. Non abbiamo più molto tempo.»
«State aspettando qualcosa?»
«Sì, da molto tempo. Ormai manca poco.»

 

*

 

Geralt, Ranuncolo e Astario arrivarono in paese molto dopo il calare del sole. Non rallentarono neppure davanti ai cancelli: le sentinelle ebbero appena il tempo di aprirli prima che ci si schiantassero contro.
I pochi che videro il ragazzo steso sulla lettiga dietro il cavallo dello strigo cominciarono a urlare e richiamare l’attenzione degli altri.
«È la volta che ci linciano», sussurrò Ranuncolo.
Geralt non se ne curava. La rabbia che aveva trattenuto da quando era arrivato in paese era sul punto di esplodere, gli antidolorifici lo stordivano e la folla si stava radunando attorno a loro troppo velocemente.
Con la poca lucidità che gli era rimasta, prese una decisione.
Cavalcarono a perdifiato fin davanti all’abitazione di Vergalio. Il vecchio era già fuori, appena oltre la soglia di casa. Le torce illuminavano i suoi occhi e le spade delle guardie al suo seguito. Avanzarono fino al cortile mentre lo strigo fermava il cavallo con uno strattone delle redini.
Vergalio non fece neppure in tempo a superare la sorpresa di vedere il figlio ricoperto di sangue sulla lettiga: Geralt scese da cavallo, sollevò Astario senza la minima delicatezza e poi lo lasciò cadere violentemente davanti a suo padre.
Il volto di Astario esprimeva un dolore muto che attraversava ogni suo osso, strappandolo e facendolo a pezzi.
Le guardie impugnarono le spade, ma furono troppo lente: Geralt sfilò la propria dal fodero e la puntò al petto di Astario con l’espressione neutra di chi la punta a una roccia.
Vergalio impietrì. Le guardie si arrestarono sgomente, incerte. La folla tacque. Ranuncolo pensò se estrarre il pugnale e tagliarsi la gola direttamente.
«Mostro!».
L’urlo di Vergalio sembrava una spina di vetro nelle orecchie.
«Cos’hai fatto a mio figlio? Che gli stai facendo? Bestia!»
Geralt non si scompose.
«Dica al suo uomo lì nell’angolo di lasciare a terra la balestra. Vi assicuro che non vuole davvero provare a colpirmi, non vuole vedere cosa potrebbe succedere.»
Alcuni si voltarono verso l’angolo della casa di Vergalio. Si sentì del trambusto e Geralt seppe che l’uomo aveva lasciato cadere l’arma.
«Ora vi dico come stanno le cose», continuò lo strigo. «Vostro figlio sta sanguinando come un maiale sgozzato. Sta morendo. Non c’è tempo per portarlo da un guaritore. Ci sono solo io. Posso salvarlo, oppure…». Con un movimento del polso fece fare un rapido mulinello alla spada aprendo la camicia del giovane. «Decidete voi, Vergalio… Cosa devo fare?».
Il vecchio deglutì a vuoto cercando un modo qualsiasi per riprendere in mano la situazione. Non poteva,
«Cosa vuoi, mostro?»
«Risposte. Avete messo a dura prova la mia pazienza fino dal momento in cui siamo arrivati qui. Basta giochi adesso. Voglio la verità.».
Vergalio osservava il figlio, il dolore sul suo volto, la punta della spada che si avvicinava al suo petto, così affilata da poter affondare nella carne col minimo sforzo.
La folla si era radunata attorno a loro. Sembrava un animale in attesa, si sentiva solo il suo respiro, a volte profondo, a volte spezzato.
«È quella vecchia?», chiese Geralt.
«Sì…»
«Pensavate fosse così difficile da capire?»
«No…»
«Perché?»
«Cosa?»
«In questa storia non c’è mai stato nessun mistero, tranne dover aspettare l’alba del terzo giorno, la vostra partenza. Perché?»
«Perché la gente fosse troppo impegnata a partire per badare a voi…», disse quasi in un sussurro, osservando la folla attorno a sé. «E perché non volevo che lei si sentisse sola.»
Geralt stette zitto qualche secondo, cercando di comprendere quest’ultima affermazione.
«Perché non me lo avete detto subito? Perché lasciarmi indagare così?»
Vergalio fissò lo strigo negli occhi, poi fece un passo avanti con decisione.
«In gioventù mi ammalai di colera. Lei mi curò. Mio figlio si ammalò di polmonite, e lei lo curò. Quell’uomo alla tua sinistra ha avuto le gambe schiacciate da un carro, lei lo rimise in piedi. Polanna, lì dietro, cadde nel fiume da piccola. Quando la tirammo fuori la demmo già per morta. Lei la fece respirare ancora. E altri, chi in punto di morte per il fuoco, per la malattia, chi avvelenato, chi ferito con un coltello, chi per incidente, sfortuna o intenzione, che fosse di notte o di giorno, tutti andarono da lei e guarirono. Per noi è vita, per noi è una madre.»
«Allora perché volete che la uccida?»
«L’assalto alla carovana… Lei ne è responsabile. Abbiamo visto le insegne, sappiamo che verranno a indagare. E chi verrà a indagare non sarà gentile con lei o con noi… Se saremo ancora qui spargeranno sangue a fiumi per raggiungere la verità. E quando troveranno lei la tortureranno, perché lei è straordinaria. Non voglio questo… Nessuno di noi lo vuole. Ma lei non può venire con noi. Vogliamo solo che finisca alla svelta, senza sofferenze inutili.»
«Ancora non capisco… Perché non dirmelo subito, perché non puntarmi nella sua direzione e lasciarmi invece indagare fino ad arrivare a questo punto?»
«Avrei dovuto dirti di andare da lei e ucciderla? Quale uomo sarebbe in grado di guardare il boia negli occhi e condannare a morte la propria madre? Ma dimenticavo che voi strighi non siete veramente uomini…».
Geralt non rispose alla provocazione. Invece si piegò sul ragazzo, estrasse una pastella di erbe da un taschino, la bagnò con la saliva e poi la applicò sulle ferite.
Poi si alzò e disse: «Il ragazzo se la caverà. Tenetelo al caldo per stanotte e riguardato per alcuni giorni, ma potrà partire con voi senza problemi. Domani farò quello per cui sono venuto, e mi aspetto il pagamento pattuito.»
Osservò la folla silenziosa, quasi sospesa nel vuoto di quella notte fredda.
«Io e il mio compagno andremo a dormire nella nostra stanza alla locanda. Non disturbateci per nessun motivo. Buonanotte.»
Detto questo, recuperò le redini del cavallo e lo portò al passo verso la locanda.
Quando furono lontani dalla folla, Ranuncolo smontò da cavallo e si avvicinò allo strigo.
«Geralt, credi davvero che Astario se la caverà?»
«Di sicuro», la sua voce era un sospiro stanco. «Aveva solo qualche ferita superficiale»
«Cosa? Com’è possibile?»
«Quell’incantesimo, Ranuncolo… Era qualcosa di incredibile. Non solo l’ha trasformato al punto da renderlo un pericolo anche per me, ma lo proteggeva, faceva in modo che non potesse succedergli nulla.»
«Geralt… Hai paura?»
«Sì.»
Camminarono in silenzio davanti ai cavalli. Se c’erano persone oltre le finestre delle case, non si fecero vedere. Sembrava che fossero gli unici abitanti di quel paese abbandonato, ancora in bilico tra la vita e la morte. Ed ogni loro passo era freddo, pesante come quello di chi va ad affrontare il destino.
«Perché siamo ancora qui, allora?», chiese Ranuncolo.
«Perché Vergalio ha ragione. Quando i soldati arriveranno qui, sarà una carneficina. E se la cattureranno viva potrebbe dire loro dove sono scappati. E pensi poi che i maghi accetterebbero una creatura del genere al di fuori del loro controllo? Se la storia di questo paese dovesse uscire dai suoi confini, questa terra verrebbe bruciata, annientata. Dobbiamo pensarci noi…»
Il bardo annuì: «Hai un piano?»
Geralt prese tra le dita le foglie di strozzalupo prese nella radura.
«Torniamo alla locanda», disse. «Prepariamoci alla fine.»

 

*

 

Quando Essi si addormentò, la vecchia tirò la coperta fino al suo mento e le sistemò il cuscino. Poi pulì i piatti dove avevano mangiato una zuppa. Per sicurezza aveva messo un sedativo nel piatto della ragazza, giusto per assicurarsi che non si svegliasse durante la notte e provasse a scappare.
Aveva ancora bisogno di lei, almeno fino al mattino.
Dopo aver lavato i piatti, si avvicinò al tavolo dove era posata la lunga ghirlanda di fiori. La prese tra le dita ossute e accarezzò i petali delicati. Nessuno di essi si staccò sotto il suo tocco.
Lei sollevò le braccia sopra la testa e si lasciò calare la ghirlanda attorno alla vita. Poi la prese ai margini e cominciò ad avvolgersi il petto, il collo, la testa, le braccia e poi la vita e le gambe fino ai piedi. I gambi verdi si tendevano fino al limite, così fragili eppure così saldi l’uno all’altro. Nessuno di essi si ruppe.
Poi lei aprì la finestra, aprì le braccia e si lasciò accarezzare dall’aria notturna.

 

 

 

 

NOTE: la conclusione del racconto nel prossimo capitolo

  
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