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Autore: Koori_chan    03/09/2014    3 recensioni
Quella sera non c’era la luna, e le stelle scalfivano appena la spessa coltre della notte.
I fanali della macchina, come i fasci di luce di due fari gemelli, illuminavano appena il sentiero sterrato di fronte a me, mentre attorno regnava la quiete; avevo la radio accesa, ma il volume era così basso che il cantare dei grilli copriva senza difficoltà il ciarlare dello speaker.
Poi, all’improvviso, accadde.
Qualcosa sbucò da un sentiero laterale e non riuscii a frenare in tempo. Inchiodai di colpo, mentre una sagoma scura si accasciava di fronte a me e, terrorizzata, tiravo il freno a mano.
[...]
Conoscevo quel viso, lo avrebbe riconosciuto praticamente chiunque.
- Oh, merda… - sussurrai.
Avevo appena investito Vincent Van Gogh.
Genere: Angst, Avventura, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Questa è una storia che parla di tentativi e di fallimenti, di teste dure e automobili in panne in mezzo ai campi.
C’è anche un’avventura, e a volte persino si riesce a ridere un po’. Non è una storia bella, di quelle da raccontare ai nipotini intorno al focolare: probabilmente non la capirebbero. E come dargli torto? Nemmeno io credo di aver compreso appieno il significato di queste bizzare vicende.
Ma magari a voi interessano le storie strane, dove i protagonisti hanno perso la ragione e la ragione stessa si è messa sottosopra, magari a voi interessano le avventure ai limiti della realtà, dove un tramonto può durare una vita e dove la notte s’incendia in vortici di stelle.
In tal caso, signori, questo è proprio il racconto che fa per voi.
Vi chiedo solo un po’ di pazienza, perché narrarvi di questi avvenimenti potrà essere a volte un po’ doloroso per me.
Cercherò di fare del mio meglio e non omettere nulla, nemmeno un istante, nemmeno quando sarò io a fare brutta figura. Solo non stupitevi se leggerete cose impossibili, non credete che vi stia prendendo per il naso.
E’ tutto vero, tutto reale, dalla più insignificante spiga di grano al più impertinente dei tramonti del Sud.
Ed è proprio da un tramonto che voglio incominciare a narrare la nostra storia: quella sera, ad Arles, c’era un bellissimo tramonto…
















 
~ Sia Maledetta Arles ~












Quella sera il cielo era agitato.
Ciuffi di nuvole rosse, sfilacciati e logori, galleggiavano statici in un tramonto surreale, sospesi al di sopra di un arancione elettrico, ai limiti dell’accettabile.
Ogni tanto qualche uccello nero si alzava in volo e attraversava veloce quella tela stracciata, andando a nascondersi nel buio che, quieto come un funambolo, si calava senza fretta dal soffitto del mondo.
Sebbene l’estate fosse ormai agli sgoccioli, l’aria di Arles era ancora calda e tingeva ogni cosa dei colori dell’attesa.
Mi sarebbe piaciuto dipingere quella scena -la piazza, il tramonto, le persone a passeggio-, ma non avevo mai avuto un gran talento in campo artistico, fatta eccezione per qualche surrogato di schizzo fumettistico, e l’unica tavolozza che fossi in grado di usare era quella delle parole.
Scrittrice, questo era il mio mestiere, anche se la paga era misera e le copie vendevano solo in Italia.
Ero ancora una bambina quando decisi che la penna sarebbe stata la mia fonte di sostentamento, e poco sapevo di scadenze, scelte editoriali ed e-mail di rifiuto.
Ero convinta che il mio talento sarebbe stato capace di incantare generazioni, portando alla vita luoghi e persone che altrimenti sarebbero rimasti in eterno intrappolati nella mia immaginazione.
Già mi vedevo a Stoccolma, un bellissimo vestito verde e i capelli raccolti come le star, mentre ritiravo il Nobel per la Letteratura ringraziando parenti e amici per il sostegno.
Ne ero convinta, all’epoca, forte della mia ferrea convinzione di avere per le mani il caso editoriale del secolo, il romanzo che avrebbe fatto la Storia.
Forse avrei fatto meglio ad avere mire più basse, ma si sa, da bambini sembra sempre che sia sufficiente crederci, per ottenere qualcosa.
Il problema, a dirla tutta, è quando continui a crederci anche alla veneranda età di ventisei anni, con la tesi che ti fissa intensamente dallo schermo del portatile e il cameriere che se ne va con i rimasugli del tuo cocktail, mentre dall’icona accanto agli appunti lampeggia allegro il titolo del tuo nuovo romanzo.
Magari stavolta è quella buona.
Magari stavolta qualcuno si prende la briga di tradurti in Inglese, e poi da lì il commercio si apre come un ventaglio…
Nonostante fossi mediamente una persona razionale, quella piccola follia infantile era rimasta radicata in me, aggrappata al mio cuore raggrinzito con le unghie e con i denti.
Lo so, lo so, avrei dovuto già essere felice di avere il mio nome sulla copertina di un libro anche se non ero super famosa. Del resto quanti scrittori vengono bellamente ignorati dalle case editrici, liquidati con un misero e bugiardo “vi faremo sapere”? Io per prima ho sentito quella tiritera almeno un milione di volte, prima che un folle si decidesse a dare un’occhiata ai miei scritti.
Fino a quel momento, dunque, Caterina Montaperti aveva pubblicato due libri e ne stava scrivendo un terzo, nell’infantile quanto vana speranza di fare un salto di qualità.
La trama in realtà era appena abbozzata e stavo cercando di inquadrare i personaggi nello schema dei capitoli, ma, come al solito, mi sembrava un’idea geniale, e l’euforia mi aveva spinta ad ordinare ben due giri al banco, ignorando il fatto che sarei dovuta tornare a casa in macchina e che i poliziotti francesi non erano permissivi come quelli italiani.
Fu quando le zanzare iniziarono a prendere un po’ troppa confidenza con lo schermo del mio pc che decisi che forse era giunto il momento di sospendere.
Avrei fatto un’ultima passeggiata in paese e poi avrei continuato a scrivere a casa, ossia il piccolo monolocale a dieci minuti da centro che mi aveva affittato la mia ex prof di Francese.
Lasciai la mancia al cameriere e feci scivolare il portatile all’interno della mia gigantesca e orrenda borsa gialla, l’unica abbastanza capiente da poter contenere pc, librazzo da seicento pagine, quaderno con gli appunti e le varie amenità che si possono trovare generalmente nelle borse delle donne.
Nonostante il sole fosse ormai calato sulla linea dell’orizzonte, il cielo era ancora chiaro e striato di sangue.
Un cielo superbo che avrebbe di certo fatto la gioia di qualche Impressionista, ma che sembrava in qualche modo star trattenendo il respiro.
Stava aspettando. Cosa o chi, nessuno avrebbe potuto dirlo.
Fu il vibracall del mio cellulare a infrangere la poesia di quell’istante come un vetro fracassato da una mazza da baseball.
Forse può sembrare una descrizione un po’ esagerata, ma non sono mai stata in grado di trovare espressione che meglio si addica alle improvvise e fugaci incursioni di mio padre nella mia vita.
- Pronto? Ciao, papà! –
Dato di fatto: per quanto tu possa odiare un uomo, non riuscirai mai a cancellarlo del tutto dalla tua vita.
Specialmente se l’uomo in questione ha contribuito a metterti al mondo.
La voce di mio padre sembrava allegra, come ogni volta, del resto.
- Ciao Cate! Come te la passi? Non indovinerai mai dove sono! –
Curiosa, abboccai all’amo come un’idiota.
- Dove? – gli diedi corda procedendo tranquilla verso la macchina.
Potevo immaginare alla perfezione il viso di mio padre tendersi in una smorfia di trionfo, mentre si apprestava a comunicarmi la grande notizia.
- Sono in Nuova Zelanda! Proprio dove volevi andare tu da bambina, ricordi? –
Eccola lì, l’ennesima doccia fredda.
Tutto era incominciato con l’Egitto, quando avevo sedici anni.
I miei avevano divorziato l’anno della mia seconda media, e da quel giorno mio padre aveva sempre fatto del suo meglio per ricordarmi quanto la vita lontano da casa fosse fenomenale.
Non che non mi abbia mai voluto bene, credo che un tempo, molti anni fa, mi fosse sinceramente affezionato, ma dalla faccenda del divorzio aveva incominciato a riversare su di me l’odio che provava nei confronti di mia madre, fino a rinfacciarmi la mia stessa esistenza.
Quando la mamma si era presentata da lui con le parcelle dello psicologo il caro Nicola aveva drasticamente cambiato tattica.
C’era un modo più semplice e meno invasivo per farmi soffrire, e tramite me far soffrire mia madre: tagliarmi fuori dalla sua vita.
Così aveva incominciato a viaggiare, cosa da lui sempre odiata, visitando senza di me tutti i luoghi su cui avevo fantasticato da bambina.
Mi aveva telefonato dall’Egitto, ricordandomi quanto avessi sognato per anni visitare le piramidi ed era andato avanti così fino a quel giorno, con la telefonata dalla Nuova Zelanda.
- Già, magnifico. Resterai ancora a lungo? – domandai, l’entusiasmo smorzato dalla notizia.
Sentii mio padre sospirare dall’altro capo della linea.
- Beh, ci fermiamo un paio di settimane… Sai, c’è così tanto da vedere… -
Non riuscii a trattenermi, fu più forte di me.
- Un paio di settimane?! Ma papà! Giovedì prossimo ho l’intervista in TV, mi avevi promesso che saresti stato a casa a vederla! –
E io che ancora mi ostinavo a credere alle sue promesse, alle sue lacrime di coccodrillo. Stupida.
- Ah sì? E’ già giovedì? Pazienza, Cate, la guarderò su youtube… La caricano su youtube, vero? –
Avrei voluto mandarlo a quel paese, ma inspiegabilmente mi trattenni.
Per la prima volta in tutta la mia vita avrei avuto uno spazietto in televisione dove poter parlare dei miei libri e della mia amata Letteratura, ed ero emozionatissima. Era un programma rivolto ai giovani, niente di particolarmente importante, eppure l’occasione mi aveva fatto sentire affermata per la prima volta.
- Papà… Ma la diretta… - mugolai.
- Oh, Cate, smettila! Tanto, per sentirti parlare di libri! Insomma, una ragazza della tua età dovrebbe smetterla di pensare a queste stronzate e trovarsi qualcuno con cui andare a letto! – mi rimproverò.
Sempre la solita tiritera: i libri sono inutili, la fantasia è solo per i bambini e i ritardati, il mio compito di graziosa fanciulla era soddisfare le voglie del primo mentecatto di turno. Meglio se ricco, così avrei potuto fare la bella vita a spese altrui come papà e le sue ricche compagne mi insegavano.
Qualsiasi persona assennata consiglierebbe vivamente di rassegnarmi e tagliare tutti i ponti con quest’uomo, ma lui era sempre stato la mia debolezza e nonostante fossi ben consapevole della mia ingenuità, sotto sotto, continuavo a sperare in un cambiamento.
- Oh, adesso devo andare… Ciao Cate, divertiti! – e, rapido e molesto come era arrivato, se ne andò, riagganciando e piombandomi nel silenzio.
Rimasi al buio, la tastiera del cellulare bloccata e le chiavi della macchina nell’altra mano, mentre le nubi ormai esangui cedevano il passo alla notte.
Ero un’idiota.
Tutte le sante volte ci cascavo, sempre allo stesso modo.
Allaccia la cintura e accesi il quadro, aspettando che l’amichevole borbottio del motore mi ricordasse che potevo partire, poi mi mossi pigramente lungo la strada, il cuore strizzato come una spugna sporca e il desiderio di vivere sotto i piedi.
Ero logorata da quella situazione, dalla mediocrità della mia vita, dalla mia incapacità di cambiare le cose, e più ci pensavo più mi sentivo inutile e fallita.
A ventisei anni di età pensavo già come un vecchio.
Forse mio padre aveva ragione, forse ero davvero un immenso fallimento: dopotutto la scrittura non era stata sufficiente a mantenermi ed ero sempre immersa fino al collo in mille lavori diversi, barcamenandomi a fatica fra i corsi all’Università e la vita della studentessa fuori sede.
Sospinta da questi pensieri miserabili, lasciai che la macchina mi portasse dove voleva, ritrovandomi a vagare ai venti all’ora fra i campi di grano.
Quella sera non c’era la luna, e le stelle scalfivano appena la spessa coltre della notte.
I fanali della macchina, come i fasci di luce di due fari gemelli, illuminavano appena il sentiero sterrato di fronte a me, mentre attorno regnava la quiete; avevo la radio accesa, ma il volume era così basso che il cantare dei grilli copriva senza difficoltà il ciarlare dello speaker.
Poi, all’improvviso, accadde.
Qualcosa sbucò da un sentiero laterale e non riuscii a frenare in tempo. Inchiodai di colpo, mentre una sagoma scura si accasciava di fronte a me e, terrorizzata, tiravo il freno a mano.
Balzai giù dalla macchina pregando tutti gli dei di tutte le religioni affinchè ciò che avevo colpito non fosse morto e, tremante di panico, mi ritrovai a soccorrere un uomo con indosso un pastrano scuro e consunto dall’uso.
- Dio mio, si sente bene? – domandai in Francese mentre cercavo di voltarlo e di sorreggergli il capo nella luce accecante dei fanali.
Respirava, buon segno.
Solo allora, quando lo sconosciuto riuscì a voltarsi su un fianco e mi rivolse l’occhiata spaesata di un bambino che si è perso, mi resi conto della catastrofe.
Capelli rossi, occhi chiari, naso di una certa importanza.
Conoscevo quel viso, lo avrebbe riconosciuto praticamente chiunque.
- Oh, merda… - sussurrai.
Avevo appena investito Vincent Van Gogh.
 

















 
Note

Salve a tutti!
Sono Koori-chan e questo è un delirio.
Era già da un bel po' che mi ronzava in testa l'idea di scrivere qualcosa di relativo a Vincent Van Gogh, probabilmente il mio artista preferito e indubbiamente una delle figure storiche che mi affascinano maggiormente.
Sarà dura, lo so, perchè il caro Vincent ha una psiche complessa e non riducibile a semplice follia, quindi vi chiedo in ginocchio sui ceci di segnalarmi qualsiasi tipo di incorrettezza nella trattazione del suo personaggio.
Per il resto spero davvero che questo primo capitolo abbia stuzzicato la vostra fantasia e sarei davvero felice di sentire i vostri pareri, anche negativi, l'importante è migliorarsi! ~
Con questo vi lascio e vi ringrazio per essere giunti fin qui! <3

Kisses,
Koori-chan
  
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