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Autore: Ely79    04/09/2014    2 recensioni
A Kyrador sta per prendere il via la finale del “Grand Prix de Celest(is)e Pâtisserie”, il talent che coronerà il miglior pasticcere amatoriale di Celestis. Brando, amico e coinquilino del Capitano Alexia Stirling, si accinge a partecipare, sicuro delle proprie capacità e della speranza di vedere i propri sogni realizzarsi.
I dolci andranno ad intrecciarsi con le indagini della MAB e con le vicissitudini di chi gli sta intorno, dai suoi avversari alla stessa Alexia, alle prese con spacciatori e gli strani atteggiamenti del suo sottoposto.
[Ispirato e scritto con la collaborazione di Carlos Olivera, autore della serie "Tales of Celestis" di cui troverete il link alle pagine EFP]
Genere: Commedia, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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The L factor_Cap 1
1.    Purple Dream

Brownie ricoperti di caramello salato, affogato in un frappè di gelato vaniglia, mirtilli freschi, menta e libea, guarnito con panna montata, Libea, briciole di brownie, mirtilli freschi,
foglioline di menta e topping di caramello salato.



L’incontro con Valakis aveva lasciato strascichi che Alexia non si sarebbe mai aspettata. Erano emersi poco a poco durante l’interrogatorio notturno, diffondendosi ovunque. Sentiva lo stomaco teso e gelido come un blocco di ghiaccio, le era impossibile chinarsi o voltarsi senza provare fitte lancinanti. Per non parlare delle mani che avevano perso parte della sensibilità. Nel suo organismo doveva essere in atto una furiosa battaglia tra la porcheria trangugiata in quel lurido localaccio e le sue difese immunitarie da maga. Cane e Lucas l’avevano perseguitata per tutto il tragitto continuando a domandarle come si sentiva, incrementando il suo fastidio e un nascente mal di testa. Come se non bastasse, aveva la netta sensazione che con l’intromissione dell’Anticrimine, la loro iniziativa non sarebbe passata sotto silenzio e che per l’indagine si profilassero momenti irti di incognite.
Nulla di quella giornata lasciava presagire miglioramenti entro breve.
Attraversò barcollando l’ampio pianerottolo marmoreo che separava l’ascensore dall’ingresso di casa, al decimo piano di uno dei magnifici residence che si susseguivano lungo Baharamine Boulevard, poco distante da Luminous Park. Se si fosse voltata, avrebbe potuto scorgere il profilo dell’edificio della MAB stagliarsi oltre la gabbia trasparente del vano scale, svettando sopra le prime propaggini del parco, rese dorate dal tramonto.
Chiuse la porta e vi si appoggiò pesantemente con la schiena, tentando di prendere un profondo respiro. Era un gesto che le capitava di ripetere spesso da qualche tempo, un modo come un altro per staccare la spina dal lavoro. Si impose di riuscirci anche quella sera, nonostante il mondo ondeggiasse pigramente sotto i suoi piedi, quasi che il pavimento fosse diventato acqua e lei una barchetta in balia della corrente.
Il tramonto entrava dalla grande vetrata sulla sinistra, colorando d’arancione gli arredi chiari del soggiorno e spandendo riflessi lungo le cornici dei quadri. Oltre la balaustra del balcone, Kyrador era un susseguirsi di grattacieli scintillanti e buie chiome d’alberi sullo sfondo di una sottile striscia di mare. Un’immagine da cartolina che in molti le invidiavano.
Appese la borsa al portabiti, restando a guardarla raggiungere il pavimento con un tonfo sordo un istante più tardi. Allungò la mano, cercò di curvarsi un poco in avanti, ma aveva l’impressione di avere un muro di piombo sul ventre. Persino respirare diventava difficoltoso. Guardando le dita tremare nel vuoto, le sfuggì un gemito.
«’seeeeraaaaa, dispersaaaaa!» salutò una voce ovattata da qualche parte nell’appartamento.
Non aveva bisogno di cercare nelle stanze per capire da dove arrivasse. Il corridoio era davanti a lei e le porte che vi si affacciavano erano aperte o socchiuse; solo quella alla sua destra, una grande scorrevole bianca a doppio battente, era chiusa e al di sotto lasciava filtrare una sottile lama di luce.
«Ciao, Brando» salutò svogliata, superandola.
Proprio quando stava per aggiungere la sua stanza, sancendo definitivamente la conclusione della giornata, un mezzobusto scivolò oltre la porta, richiamandola indietro con un fischio.
«Devo proprio?» domandò senza voltarsi.
Nello specchio in fondo al disimpegno vide agitarsi freneticamente una mano, accompagnata da un gran sorriso. Scrollando le spalle, tornò faticosamente sui propri passi.
Due occhi castani la seguirono nella sua incerta avanzata, accigliandosi. Il volto tondo di Brando era diviso tra i bagliori ambrati del tramonto e la luce più tenue della cucina, che creavano un bizzarro mescolio di ombre, tanto che Alexia faticò a notare le tracce di farina e altri ingredienti sparsi sulle guance e sui capelli neri.
Attraverso la stretta apertura filtrava un lieve tepore e il profumo invitante di un misterioso dolce in cottura.
«Uh, che brutta cera, Lix…» commentò preoccupato dopo averla squadrata da capo a piedi un paio di volte con aria estremamente critica.
Gli capitava di frequente di vederla tornare in condizioni pietose per via dell’alto livello di stress che doveva sopportare ogni giorno per gestire al meglio la sicurezza cittadina e non solo; ciò nonostante, in quel momento Brando le vedeva sfoggiare un aspetto decisamente livido e pesto, ben oltre la soglia di normale stanchezza cui era abituato.
«L’avresti anche tu al posto mio» sospirò cercando di sciogliere la coda di cavallo con scarsi risultati.
Aveva legato l’elastico troppo stretto, presa evidentemente dal nervosismo, e il torpore che ancora la perseguitava pareva non volerla lasciarla in pace. Con ogni probabilità avrebbe finito per tagliare il laccio, cercando di non rimetterci una paio di ciocche o, peggio, un orecchio. In quelle condizioni avrebbe potuto succedere di tutto.
L’uomo tamburellò con le dita sul legno laccato osservandola perdersi in quelle ridicole riflessioni. Il pallore, gli occhi arrossati e la scarsa stabilità gli dicevano molto più di quanto avrebbero fatto le parole, tuttavia tentò lo stesso di estorcerle un chiarimento.
«Puoi raccontare o poi dovrai ridurmi ad un roux pieno di grumi che verrà fatto scivolare indecorosamente giù dallo scarico del lavandino?»
Lei si riscosse, rivolgendogli uno sguardo torvo. Sapeva perfettamente che rivelare anche solo un’inezia dei casi della MAB poteva significare il licenziamento in tronco, qualora fosse stata accertata la fuga di notizie. Per non parlare di quel caso in particolare: proprio non poteva permettersi di proferire una singola sillaba a riguardo. C’era troppo in gioco, soprattutto la sicurezza già precaria di Carmy.
«Lascia fare a me. Ti rimetto in sesto io! Ho quel che serve in queste situazioni» decretò Brando ammiccando.
Lei afferrò la porta un attimo prima che si chiudesse, impedendogli di scomparire nella sua tana. In un altro momento avrebbe apprezzato le sue attenzioni, ma la stanchezza e gli spasmi addominali avevano deciso di tornare ad affondare i denti nel suo corpo.
«Sto bene, Brando. Ho solo bisogno di una doccia e una bella dormita, per essere di nuovo pronta all’azione domani. Tutto qui. Un’emicrania non ha mai ucciso nessuno» puntualizzò sebbene non ne fosse molto convinta.
Il cerchio alla testa cominciava ad estendersi in maniera preoccupante. Confidava che un lungo e prolungato getto bollente avrebbe dato i suoi frutti, o qualunque cosa le consentisse un poco di meritato riposo.
«Lurida stacanovista serva del sistema» rimbrottò lui, disgustato.
«Smettila. Tanto non casco nelle tue provocazioni, lo sai».
Conscio fosse la verità, il giovane si lasciò scivolare un po’ lungo l’anta, arricciando le labbra e sgranando gli occhi come un cucciolo supplichevole. Per essere più convincente inclinò la testa da un lato e si portò i pugni al mento. Sulle prime Alexia fu tentata di dargli una spinta e mandarlo lungo disteso, tuttavia vedendolo sbattere le ciglia e dondolarsi pericolosamente sulle punte dei piedi mandandole piccoli baci, non poté fare a meno di scoppiare a ridere. Brando aveva il potere di farle cedere le armi ogni volta. Se fosse stato nella sua squadra, sarebbe stato un bel guaio; per sua fortuna non era un agente, ma solo un ospite fuggito alla routine di un posto fisso, con mire nel goloso mondo della pasticceria magica.
«E va bene… hai vinto. Ma che sia qualcosa di leggero!»
Aveva fatto solo pochi passi, quando tornò indietro con uno scatto e spalancò la porta, riuscendo ad osservare la cucina il tempo sufficiente per sentire gli effetti del drink del vampiro riprendere a propagarsi fulminei in ogni angolo del suo corpo.
La sagoma tondeggiante di Brando chiuse la visuale quasi per intero. Questa volta il sorriso gioviale del coinquilino era scomparso, sostituito da un’espressione di totale disappunto. Se a nessuno era permesso ficcanasare nelle cose della MAB, ad ancor meno persone era consentito di spiare nella cucina, specialmente mentre lui creava. In quel periodo poi, era peggio del solito. Secondo Alexia, quel tipo di disturbi generava in lui alterazioni molto simili a quelle che trasformavano i maghi in EDA.
«Ti prego, dimmi che quello che vedo sui mobili non è il nostro gatto che è esploso» fece lei, indicando la miriade di chiazze scarlatte e rosate che punteggiavano la stanza da cima a fondo.
«Donna di nessuna fede» replicò Brando imbronciandosi e incrociando minaccioso le braccia sulla pettorina del grembiule. «Prince Great Mighty Azul-Gray Cloud on the North Sea di Taveja Valley sta benissimo. L’ho chiuso sulla terrazza prima di mettermi all’opera. Sai che non ammetto peli e leccatine nel mio regno».
La testa di Alexia cadde in avanti, sfinita. Brando era il solo a chiamare il suo gatto con il nome per esteso, mentre tutti – lei per prima – si limitavano a Prince o, più semplicemente, “Micio”. Non potevano farci nulla se la madre di Brando, in una delle sue più esagerate dimostrazioni di affetto e gratitudine, le aveva regalato un esemplare di Leglar Blue con un pedigree così lungo da poterci incartare l’intero palazzo della MAB, inclusi sotterranei, solo per aver accolto in casa il figlio sognatore.
«Vai a fare quella benedetta doccia, allaga tutto il bagno, infilati quel bel pigiamino con i macaron che ti ho regalato e torna di qui solo quando sarai simile a un essere umano invece di questa sottospecie di soufflé moscio da emerito principiante che ho davanti» ordinò chiudendo teatralmente la porta.
Luci e profumi dell’antro della gola svanirono, lasciandola sola nel tramonto che gettava ombre sempre più dense tra gli arredi. Sospirando, accennò un saluto militare e si diresse alla sua stanza. Ci mancava solo l’aspirante pasticcere con manie da crocerossina e ire da Classe Alfiere per concludere il tour de force di quelle ultime trentotto ore.
Non appena Alexia sparì nella sua camera, Brando fece di nuovo capolino, mordicchiandosi l’interno della guancia. Ora che la vedeva di nuovo a casa, si sentiva sollevato. Capitava che dovesse star fuori anche per più giorni, era uno degli incerti del suo lavoro alla MAB, e sebbene lui ripetesse in continuazione che non si impensieriva affatto nel non avere la benché minima idea di dove lei fosse o cosa facesse, era chiaro che si trattava di una sciocchezza. Alexia era la sua migliore amica, erano praticamente cresciuti insieme considerandosi fratello e sorella, come avrebbe potuto non stare sulle spine, non vedendola tornare? Senza contare che la buon’anima del Generale Stirling l’avrebbe tormentato in sogno per una tale mancanza nei confronti della figlia.
«Floscioflosciofloscioflosciofloscio» sbuffò tra i denti.
Ripeteva sempre quella sorta di mantra quando aveva l’impressione di trovarsi di fronte a una persona che gli ricordava il suo primo, avvilente soufflé al limone.
«Piano “L”: dolce da leccata con Libea come se piovesse, su colore da meditazione. Diamoci da fare!»
E richiuse la porta.

***

La grande vetrata scivolò di lato e Prince Great Mighty Azul-Gray Cloud on the North Sea di Taveja Valley restò a guardarla annoiato, muovendo appena una delle grandi orecchie per ascoltarne il fruscio. Negli ultimi sprazzi del crepuscolo urbano, i suoi grandi occhi smeraldini brillavano di luce propria.
«Lo zietto ti ha di nuovo messo in castigo?» domandò Alexia.
Quasi avesse capito il senso delle sue parole, l’animale emise una sorta di sospiro prima di alzarsi e avvilupparsi letteralmente attorno alla sua gamba, allungando le zampe sottili fino ad artigliare la canotta della padrona all’altezza del dolente stomaco, sulla stampa di un grosso macaron turchese con gioiosa faccina di brillantini.
I gatti di Celestis erano diretti discendenti di quelli terrestri, sebbene differissero molto dagli antenati: l’incrocio con creature indigene loro affini e la sensibilità al krylium presente sul pianeta, avevano prodotto mutazioni significative dell’anatomia. Erano creature incredibilmente flessuose, al limite del serpentino, il cui scheletro si era allungato e assottigliato tanto che le razze più piccole vantavano un’altezza alla spalla di quarantacinque centimetri. I Leglar Blue come Micio raggiungevano la ragguardevole altezza di cinquantotto centimetri per una lunghezza pari ad un metro e venti, coda esclusa.
Alexia se lo ricordava solo quando cercava di prenderlo in braccio, proprio come in quel momento. In realtà sarebbe stato più corretto dire che tentava di issarselo addosso, viste le dimensioni. Desistette dall’impresa e andò a sedersi sul divano, impegnandosi al massimo per riuscire a mettere un piede davanti all’altro senza inciampare o sbattere contro gli arredi. L’animale, indispettito dalla protratta carenza di coccole, la seguì e poggiò parte del lungo collo e la testa a cuneo sulle sue ginocchia, facendo le fusa e agitandosi tutto. La pelliccia delle zampe le solleticava le caviglie. Nel caso della razza di Micio si faceva più lunga e fine su zampe e coda, e il tenue colore grigio-azzurro gli aveva fruttato il soprannome di “Nuvole di Amaltea”.
«Pronto Soccorso Anti-cattivissima MAB in arrivo!» annunciò Brando aprendo teatralmente la porta.
La sagoma scura circonfusa di luce della cucina andò a riflettersi nella portafinestra, mostrando al Capitano Stirling l’immagine trionfale (e non troppo atletica) del suo coinquilino. Teneva le braccia al cielo e portava due enormi coppe allungate, coronate da nuvole di panna montata e foglioline di menta. Il contenuto era di un tenue colore viola, dal quale derivava il loro nome: Purple Dream. L’aveva creato tempo prima e perfezionato nel corso delle ricorrenti giornate storte sue e di Alexia, aggiungendo, togliendo e modificando la composizione.
«Devo proprio?» chiese la donna, muovendo a fatica il lungo cucchiaino nel dolce.
Pezzetti di brownie si affacciarono al vetro coperto di condensa, emergendo dalla densità del frappè.
Meno male che avevo detto “qualcosa di leggero”, gemette fra sé Alexia.
I dolci che preparava Brando erano tutto fuorché ipocalorici.
Il suono morbido del cucchiaio attirò l’attenzione del gatto, che con un sinuoso balzo si portò sullo schienale del divano, cominciando a strusciare il muso sul collo della padrona, pretendendo un assaggio.
«Se vuoi passare la serata a rimuginare su quello che è andato o non andato oggi, lasciando macerare per nulla questo ben di dio fatto dalle mie prodigiose mani, fai pure. Ma se i sensi di colpa ti trafiggeranno il pancino per tutta la notte, sappi che ti ho avvertito» sbottò franandole accanto offeso e cominciando a mangiare. «E non provare a venire a piangere dietro la mia porta, supplicando perdono e di avere un altro Purple Dream, perché non te lo farò. Parola mia!»
«Non ho mai fatto niente del genere» osservò, cercando di decidere da che parte attaccare la coppa.
Era tentata dalla sofficità della panna punteggiata di verde e guarnita con gli stessi mirtilli e i brownie celati al di sotto, per non parlare del sottile arabesco al caramello. E con le pretese del gatto che si facevano sempre più pressanti, si risolse a far sparire la panna in un paio di morsi.
«Ma potresti, quindi ti metto subito sul chi va là» ribadì Brando, che invece raccolse in un solo movimento gran parte dei componenti dell’intero manicaretto. «Non puoi proprio dirmi niente?»
«Perché insisti?» ciancicò con la posata fra le labbra.
Ormai Alexia aveva ceduto alla tentazione del Purple Dream, le sarebbe stato impossibile non finirlo semplicemente perché adorava quel dolce al cucchiaio pensato per i loro momenti di commiserazione e rinascita. Per non parlare del consumarlo indossando quel pigiama: se l’avessero vista i colleghi con quella canottiera e i pantaloncini su cui era raffigurata solo una minima parte delle prelibatezze dolciarie del repertorio dell’amico, probabilmente sarebbe diventata lo zimbello dell’Agenzia per mesi interi, ma in quei momenti le buffe faccine sorridenti che occhieggiavano tra le pieghe erano solo una benedizione.
L’uomo prese una lunga sorsata di frappè, assaporandolo ad occhi socchiusi con la lingua che si muoveva lentamente lungo il palato. Il gusto era eccellente ma mancava qualcosa per renderlo assolutamente perfetto.
«Tenevi una mano sulla pancia quando sei arrivata e, sapendo quanto sei immune alle carneficine, ho supposto ti fosse andato qualcosa di traverso. Qualcosa di gastronomico? Mica vi sarete serviti ancora a quell’orrenda rosticceria all’angolo della piazza? Prima o poi mando l’ufficio d’igiene a controllarla».
Purtroppo aveva ragione e negarlo non avrebbe avuto senso.
«Non ho mangiato nulla di strano. Piuttosto l’ho bevuto» ammise.
«Cos’era? Un cocktail?» s’informò, pulendosi le labbra col dorso della mano.
«Già. Disgustoso e illegale, per giunta» precisò, per dargli ad intendere che quello fosse il limite delle informazioni che poteva dargli senza pericolo.
«Mi stupisci. A voi della MAB non è proibito bere mentre siete in servizio?» scherzò.
«Ho dovuto farlo. Era propedeutico all’indagine».
Per qualche istante nessuno parlò. Alexia si dava dell’incosciente per quel gesto che avrebbe potuto causarle conseguenze ben peggiori, Brando pareva assorto in un conteggio o una valutazione.
«Bevi subito il frappè, Lix, ti farà bene. I mirtilli erano freschissimi e la Libea ha poteri disintossicanti e antinfiammatori. Ne ho messa una dose extra nel tuo» spiegò con una certa soddisfatta accondiscendenza dipinta sulle guance tonde.
Alexia guardò sorpresa il bicchiere, reso scivoloso dalla condensa. In effetti si sentiva già meglio: il gelo allo stomaco era diminuito, così pure la tensione addominale. Riusciva a star seduta senza avvertire troppo fastidio, diversamente da quando Cane e Lucas l’avevano accompagnata a casa poco più di un’ora prima, e sebbene le dita fossero intirizzite per il contatto con il vetro gelido, poteva notare anche una diminuzione del tremito.
La Libea era un ingrediente d’alta pasticceria che però veniva usata solo dagli stregoni, che ne potevano sfruttare i poteri nascosti. In mani prive dell’M-Code generava solo un semplice effetto glitter. Derivava dal krylium per quanto ne sapeva, ma in che modo passasse da fonte di energia magica a sostanza commestibile, le era ignoto. Quello era il campo delle velleità dolciarie di Brando.
Allungò il bicchiere verso quello dell’amico, facendoli tintinnare.
«Cosa farei senza di te?» sospirò pescando un pezzetto di brownie.
Grazie a particolari incantesimi culinari, la pasta non si inzuppava e restava morbida, assorbendo solo l’aroma dei piccoli frutti. Il caramello salato che lo ricopriva si sposava alla perfezione con lo spunto deciso del cioccolato e l’asprigno dei mirtilli, in una combinazione di diverse consistenze.
Compiaciuto, Brando abbassò lo sguardo sul proprio Purple Dream, muovendo lentamente il denso liquido violetto. Mormorò qualche parola e all’interno del vetro ci fu un breve rimescolio.
«Oh, te la caveresti comunque Lix. Sei una tosta, lo sei sempre stata. Peeeeerò,» cantilenò sistemandosi goffamente a gambe incrociate sul cuscino, «se proprio vuoi sapere come la penso…»
Conosceva fin troppo bene quel tono di voce. Sarebbe andato a parare su argomenti più spinosi della Lilith e la Chiesa di Ela. Si era fatta trascinare stupidamente su un sentiero minato, il preferito del suo amico per inciso.
«No. Non lo voglio sapere. Per favore. È stata una giornata pesante, non ti ci mettere anche tu».
«Troppo tardi. Cara mia, se non ci fosse il sottoscritto a coccolarti nei momenti bui, andresti di corsa bussare alla porta di quel “certo” tizio per farti consolare. Non t’azzardare a negarlo. E soprattutto deciditi a farlo! Mi sto scocciando di essere il tuo Signor Consolazione» soggiunse passando teatralmente una mano tra i capelli neri.
«Non dire assurdità. È un mio sottoposto! E tu non sei il mio Signor Consolazione, anche se resti il mio spacciatore di dolci ufficiale» rimbrottò, fingendo di allungare il cucchiaio verso la sua coppa.
«Alexia, ti conosco da quando portavamo entrambi il pannolino, so fin troppo bene quali siano i tuoi gusti in fatto di uomini. Li ho visti girarti attorno, arrivare e andare. Tutti quanti» puntualizzò con una smorfia eloquente, sottraendo il proprio dolce alle mire dell’amica ma finendo per stuzzicare quelle del gatto che con due rapide falcate raggiunse miagolando le spalle dell’uomo.
«Esagerato! Non ho avuto così tante relazioni» sibilò offesa, sedendosi come lui al lato opposto del divano per potergli rifilare un calcetto sul ginocchio.
Brando fece spallucce, bevendo un’altra sorsata. Decise che la menta era insufficiente e la prossima volta che avesse preparato il dolce ne avrebbe aggiunto qualche foglia anche nel frappè per conferirgli una nota più fresca, alleggerendo la pastosità del gelato alla vaniglia.
«Forse no, ma mi sono fatto un’idea piuttosto precisa del tuo uomo ideale. E dato che in quella categoria io non ci rientro neppure da lontano - per fortuna - e sono felicemente sistemato - doppia fortuna -, posso azzardare tutte le congetture che mi pare e piace. E a te, quel tizio piace. Parecchio. Vero, Prince Great Mighty Azul-Gray Cloud on the North Sea di Taveja Valley?» domandò allungando un dito sporco di panna montata alla bestiola, che tentava di raggiungere il bicchiere.
La lingua bruna e appuntita cominciò l’opera di pulizia, mentre la lunga coda setosa oscillava lenta nell’aria.
«Ma per favore… se ne parlo è solo perché al di là dei suoi modi non sempre impeccabili, è comunque un ottimo agente. Ha un curriculum di tutto rispetto» considerò distogliendo lo sguardo.
Il movimento della coda le stava facendo tornare i capogiri. E, per certi versi, le faceva venire in mente proprio l’oggetto della discussione.
Affatto scoraggiato dalla piega professionale che l’amica stava cercando di imprimere alla conversazione, Brando sistemò un cuscino dietro la schiena, dandosi un’aria saputa. Micio, dal canto suo, decise di strisciargli lungo il petto per andare ad acciambellarsi fra le sue gambe. Era buffo veder la sua testa triangolare poggiata fra le caviglie dell’uomo come un curioso monile dagli enormi occhi di smeraldo.
«Hai sempre avuto un debole per gli uomini navigati e più grandi di te che però, a differenza tua, non hanno fatto troppi passi avanti in carriera perché rigettavano gli schemi. Ti affascina il loro lato ribelle e moralmente non impeccabile, specie se sono coscienziosi e attenti».
«Anche se fosse, non è così “navigato” quanto credi» obbiettò.
«Da come lo descrivi avrà almeno quarantadue anni».
«Ne ha trentotto».
Il cucchiaino di Brando stridette sul vetro impiastricciato di panna e menta.
«Cosa? Scherzi?» esclamò sorpreso. «Ora ho capito perché i rapporti non li stili tu: come capo non sai descrivere i sottoposti, figuriamoci i casi... E quando ti imponi su quei poveretti, loro notano le tue capacità di leader, credono di esserti indispensabili, smettono di ritenerti la subdola arrampicatrice sociale votata alla grandezza del sistema che in realtà sei e si accorgono pure di quante curve sei attrezzata. Solo allora gli concedi di servirti. E se sono carini, ne fai i tuoi “uomini migliori”, coloro che si prodigano per compiacere a qualsiasi costo ogni tuo sacro ordine» aggiunse ironico, spalancando le braccia con fare teatrale.
«Mi stai dando della dominatrice, per caso?» domandò agitando in aria la posata mimando una frusta.
Brando, di tutta risposta, prese una grossa cucchiaiata di dolce e se la infilò in bocca, resistendo stoicamente alla fitta di gelo che gli attraversò la testa.
Lei faticò non poco a mandar giù il boccone, rischiando di soffocarsi mentre lo guardava serrare le palpebre e sudare freddo, letteralmente.
«Bravo, schiavo. Soffri, soffri!» lo incitò, sfoggiando l’aria più perfida che le riuscì di comporre per mascherare le risate. «Compiaci la tua signora con il tuo dolore! Mangia ancora!»
Preso dal gioco, Brando inghiottì un altro pezzo di brownie gocciolante e, dopo aver spostato il gatto, scivolò giù dal divano, inginocchiandosi di fronte all’amica. Si prostrò tendendo le braccia, bofonchiando litanie senza senso, col solo risultato di trovarsi a sputacchiare parte del proprio capolavoro sul pavimento, il mento sbrodolato di frappè e fitte lancinanti che gli martellavano la radice del naso. La farsa durò una manciata di secondi, poi scoppiarono a ridere a crepapelle e desistettero dal proseguire, trovandosi già abbastanza ridicoli.
«Fai così quando interroghi i tuoi sospettati? Gli fai gelare le cervella?» rise lui, riuscendo a mettersi seduto.
«Cervella, stomaco, polmoni, intestino… come mi sento ispirata» elencò sventolando il cucchiaino.
Micio ne seguì le evoluzioni, la testa triangolare che oscillava da un lato all’altro simile ad un metronomo. Aggiustò ben bene le zampe posteriori e con uno scatto si allungò flessuoso, arrotolandosi attorno al braccio di Alexia. Le fusa si mescolarono al suono ruvido della lunga lingua scura sul metallo.
«Ma insomma! Sei un gatto, non una sanguisuga!» protestò lei, tentando di scrollarselo di dosso senza successo.
Più la donna cercava di convincere l’animale a scendere, più sentiva la stanchezza montare. Gli sbadigli presero ad aumentare di numero, accompagnando la pesantezza delle palpebre.
«Colpa tua: l’unico padrone di questa casa è lui, non accetta che gli si usurpi impunemente il trono» replicò Brando prendendole di mano gli ultimi residui del dolce. «Su, tesoro. A nanna. Tu domani vuoi andare a lavorare, io devo ripassare tutte le mie ricette migliori e controllare che il mio kit personale sia in ordine per il concorso».
Si fermò sulla porta della cucina per prendere un profondo respiro.
«Trentasei ore. Solo trentasei ore e si comincia» annunciò cupo, posando le coppe nel lavandino.
«E… il tuo vero tesoro, ci sarà?» domandò Alexia, alzandosi a fatica dal divano, divenuto ormai troppo invitante.
Gli occhi scuri dell’amico s’intristirono per un istante, virando subito ad una sorta di arresa tenerezza.
«No. Sicuramente vedrà la puntata la sera, ma è in un brutto momento altrimenti sarebbe qui e non a Otisa».
«Vi siete sentiti?»
Appoggiato al bordo dell’acquaio, Brando annuì. Normalmente sarebbe inorridito di fronte al macello di ingredienti sparsi e stoviglie e attrezzi da lavare che ancora occupavano la cucina, però quel pensiero glielo impediva.
«Oggi pomeriggio. È in ansia per me, dice di avermi sentito molto teso. Gli ho detto che era solo una sua impressione, che doveva concentrarsi su quel che ha da fare per tornare prima, perché non voglio riempire la coppa di champagne e poi berla da solo. Insomma, che gusto ci sarebbe a non festeggiare insieme la mia somma e conclamata magnificenza?» scherzò asciugando le mani in un canovaccio.
«Guarda che ha ragione, sei teso. Me ne accorgo persino io che sono a pezzi» sbadigliò raggiungendolo e abbracciandolo da dietro. «Devi dormire anche tu o non sarai al top per la gara».
L’uomo si rigirò fra le sue braccia e la strinse, posandole un bacio sulla fronte.
«Tu ninna amme? Tì? Tì, Lix?» pigolò come quando erano piccoli e pretendevano di dormire insieme in ogni occasione.
«Scodartelo, Bado, sei grande. E grosso per giunta» sghignazzò assestandogli un pugnetto sul ventre non esattamente piatto. «Sono sopravvissuta a questi due giorni agognando una sacrosanta dormita, non voglio che diventi anche l’ultima!»


Writer's Corner
Sono in pausa da un po' e torno con questa storia che mi piace definire "a tre mani": due sono mie e la terza del creatore della serie Tales of Celestis, Carlos Olivera. Seguo da tempo le sue storie e quando si è presentata l'occasione (o l'abbiamo creata, chissà!) di realizzare uno spin-off con alcuni dei suoi personaggi e altri miei, abbiamo deciso che fosse il caso di portarla avanti. Questo è il risultato. Una storia senza pretese, se non quella di ampliare ulteriormente l'universo di Celestis attraverso un po' di dolci, pasticci e qualche sfumatura rosa. Per cui, se il mio stile vi sembra un po' strano, è solo perché mi sono attenuta a quello originale, per quanto possibile. E se qualcosa non vi è chiaro, alzate la mano e chiedete. O andate a leggere le storie di Carlos.
Buona lettura!
   
 
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