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Autore: nevermore997    04/09/2014    5 recensioni
Vittoria Baudelaire è una Calfornia Girl a tutti gli effetti: snob, piuttosto antipatica ed abituata a vivere tra tutti gli agi e tutte le comodità. Per lei la decisione dei suoi genitori di trasferirsi da San Francisco a Foggy Hollow, desolante e gelida cittadina dello sperduto Wyoming, è una vera e propria doccia fredda. Senza volerlo si ritroverà catapultata in una vita completamente diversa da quella a cui è abituata, circondata da nuovi bizzarri amici, troppa neve per i suoi gusti, pianisti misteriosi e le mura di una casa inquietante che cela un terribile mistero.
La storia di una sedicenne in un mare di guai che si ritrova costretta ad adattarsi, a dimostrarsi coraggiosa, ad agire e anche a cambiare. Se in meglio o in peggio, lo scoprirete solo leggendo.
Questa storia è un esperimento, uno sporadico tentativo di fondere assieme due generi che nulla hanno a che vedere tra di loro: l’horror e il comico. Nella speranza che questo strano miscuglio vi incuriosisca, vi auguro buona lettura.
Genere: Comico, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 1
Trasferimenti deludenti e capelli rossi

 
Quando arrivai per la prima volta nella casa nuova il pianoforte fu la prima cosa che notai. Era splendido, un vero capolavoro di strumento musicale, un gigante nero dai tasti d’avorio che non aspettava altro che le mie dita.
«Allora, ti piace la casa?», chiese mia madre, speranzosa.
«No», mentii io, laconica.
Non era vero. La casa nuova era un’autentica meraviglia, una bellissima villetta piuttosto antica posta al limitare del bosco. Aveva addirittura una torre ed un pozzo, che erano esattamente il genere di requisiti inquietanti che io ero solita apprezzare negli edifici. Ma questo non lo dissi. Mi limitai ad assumere un’espressione annoiata, che, speravo, avrebbe fatto imbestialire mia madre. Lei infatti roteò gli occhi con fare spazientito.
«Oh, Vittoria, sei veramente impossibile», sbottò, prima di andarsene ad esplorare la cucina.
Sapevo che mi stavo comportando in maniera infantile e tuttavia non potevo farne a meno. Non riuscivo a perdonare ai miei genitori quell’improvviso trasferimento in una città brutta, piovosa e soprattutto isolata dal resto dell’universo come quella.
«Perché?», avevo chiesto a mia madre, molto ragionevolmente.
«Perché tuo padre ha ricevuto un lavoro migliore ed una casa enorme completamente gratuita e già ammobiliata, perché è una zona più tranquilla e circondata da un bosco bellissimo e perché grazie a questa promozione avremo l’occasione di stare di più tutti assieme.»
«Non riesco a trovare neanche l’ombra di un buon motivo», avevo replicato, piccata. A quel punto mia madre mi aveva scoccato un arsenale di sguardi di rimprovero, ma aveva taciuto, ragion per cui avevo creduto di averla avuta vinta. Mi sbagliavo di grosso. Meno di un mese dopo, non appena erano iniziate le vacanze di Natale, eravamo partiti alla volta di Foggy Hollow, a nord dell’insignificante stato del Wyoming, senza quasi lasciarmi il tempo di salutare come si deve i miei amici. Quindi, in conclusione, no, per quanto quella casa fosse a dir poco fantastica, non avrei certo dato la soddisfazione a mia madre.
Mentre la summenzionata iniziava già ad armeggiare con le padelle in cucina e papà gironzolava incantato con la sua solita andatura baldanzosa irradiando positività, lasciai cadere la borsetta per terra ed andai a sedermi al pianoforte, quasi guidata da una mistica ed invisibile attrazione. Non ero quel che si dice una grande pianista (avevo cominciato a suonare solo da qualche mese ed avevo considerevoli problemi nella lettura degli spartiti), ma la musica che quello strumento era in grado di produrre aveva un effetto straordinario su di me. Era come se penetrasse dritta nella mia anima e le desse un violento scossone, risvegliandola dall’apatia e la monotonia della vita quotidiana.  Accarezzai i tasti e mi sentii rinascere. Forse, dopotutto, in quella casa non sarei morta d’inedia.
A quel punto sentii una mano posarsi sulla mia spalla. Era papà.
«Ti piace il pianoforte?»
Non potevo mentire di nuovo, stavolta.
«E’ bellissimo», concessi, senza rinunciare ad un’espressione altezzosa ed un tono antipatico. Papà mi fece un debole sorriso.
«Sai, Vittoria, ci rendiamo conto di quanto tutto questo sia difficile per te, anche se non lo pensi. Ma sei una ragazza fantastica e non ti sentirai fuori luogo molto a lungo. Te lo assicuro.»
Senza aspettare una risposta raggiunse la mamma in cucina. A quel punto mi sentii tremendamente in colpa. Perché comportarsi da comune adolescente viziata era così difficile?!
 
Per cena mamma aveva preparato le melanzane alla parmigiana, il mio piatto preferito, presumibilmente per comprarmi. Ero determinata a dimostrare che quei sistemi dozzinali con me non funzionavano, così ne mangiai solo tre porzioni e non una forchettata di più. Mamma e papà continuarono a chiacchierare allegramente per tutta la serata. Il tema della conversazione era, prevedibilmente, “quant’è bella Foggy Hollow”.
«Hai visto che belle stradine lastricate e che belle casette coi tetti spioventi?»
«Pensa che bello quando nevicherà! Le previsioni per domani annunciano neve, o no, Vittoria?»
«Mmmmphff.»
«E la scuola è proprio qui, in fondo alla strada! La mattina potrai svegliarti molto più tardi del solito, sei contenta, cara?»
«Mmmmphff.» (in realtà lo ero, ma ammetterlo non poteva che nuocere alla mia immagine de “l’incontentabile ed imperscrutabile Vittoria”, così tenni la bocca chiusa).
Il peggio però arrivò dopo cena, quando mia madre se ne uscì con una delle sue idee ben note per pateticità ed inutilità che le venivano quando era euforica.
«Potresti uscire a fare una passeggiata, Vittoria!»
«Dunque, vediamo, lasciami pensare… NO.»
«Ma potresti scoprire dove si incontrano i ragazzi del luogo e fare delle nuove amicizie!»
«Mamma, gli adolescenti non fanno amicizia in questo modo dal lontano 1936, alias quando tu eri una ragazzina.»
Me ne pentii all’istante. Mia madre aveva 45 anni ed una vera e propria paranoia all’idea di non portarli bene. Non che non lo facesse (per quanto odiassi ammetterlo, per la sua età era piuttosto in forma), ma stuzzicarla in proposito era un vero e proprio suicidio, l’equivalente di pungolare un mamba con un bastoncino. Ed io, con la mia frecciatina, lo avevo appena fatto.
Lo sguardo omicida con cui tentò di disintegrarmi non prometteva nulla di buono e d’istinto seppi che qualunque cosa mi avesse ordinato di fare da lì in poi, se ci tenevo ad arrivare viva a Natale, avrei fatto meglio a farla.
 
Inutile dire che neanche dieci minuti dopo camminavo sola come un cane per le vie del paese, imbacuccata in sei strati di maglioni, guanti, sciarpa e cappello. Per una che arrivava dalla California il clima rigido del Wyoming  era decisamente difficile da sopportare. Nonostante mi fossi vestita come un’eschimese, ancora rabbrividivo. Come se non bastasse, mi ero anche persa. La mia totale mancanza di senso dell’orientamento non era un segreto e per giunta non c’era nemmeno un lampione ad illuminare le strade buie peste. L’unica luce disponibile, oltre a quella intermittente delle onnipresenti luminarie natalizie, era quella della luna quasi piena filtrata da una coltre di nuvole grigie, e dunque non particolarmente utile. Era addirittura prevedibile che mi sarei smarrita, riflettei seccata mentre bighellonavo a vuoto. Ad un certo punto mi parve di sentire un vocio in lontananza. Seguii il rumore ed arrivai davanti ai cancelli arrugginiti di un parco giochi sgangherato, dentro il quale era riunito un gruppetto di ragazzi, che, ad occhio e croce, dovevano avere più o meno la mia età.
«E così, questa è la vita notturna di Foggy Hollow», mi dissi, sarcastica. «Fantastico.»
Non mi andava di raggiungere quei giovani ed implorarli di includermi nel loro gruppo come una povera sfigata, ma d’altra parte nemmeno l’idea di brancolare da sola come un’anima in pena era particolarmente allettante. Lanciai svariate maledizioni a mia madre per avermi sbattuta fuori di casa a calci, a mio padre per aver cambiato il suo ridicolo posto di lavoro, a me stessa per non aver combattuto più ferocemente per evitare il tutto ed infine all’universo in generale, sospirai e diedi una spinta al cancello, che, con un cigolio, rivelò la mia presenza. Il gruppetto si girò di scatto ed io, imbarazzata, mi avvicinai. Erano tre maschi e due femmine e mi guardavano come se fossi stata qualcosa di molto brutto e viscido che risaliva la parete della doccia. Avevano con loro un paio di torce e mi illuminarono senza dare segno della benché minima discrezione, accecandomi.
«Chi sei?», mi chiesero, tutti assieme, in una cacofonica sovrapposizione di voci. Mi domandai se in Wyoming esistesse il galateo, ma mi trattenni dal commentare.
«Mi chiamo Vittoria. Vittoria Baudelaire. Sono nuova in città, mi sono trasferita oggi.»
Tutti quanti risero, uno dei ragazzi fischiò.
«E così, quei pazzi che sono andati a vivere ad Avary Manor hanno una figlia!»
Probabilmente avrei dovuto difendere i miei genitori, ma vista la situazione odiosa nella quale le loro decisioni da adulti saccenti mi avevano trascinata, non me la sentii proprio di contraddirlo.
«Come lo avete chiamato?», chiesi invece.
«Avary Manor. Noi del posto lo chiamiamo così, sai», mi rispose una ragazza molto bionda e molto truccata, con voce strascicata. Non sapendo come commentare, annuii.
«Comunque io sono Lucy, lei è Kimberly e loro sono Owen, Toad e Maxwell.»
Asserii senza prestare particolare attenzione, tanto sapevo che, in ogni caso, di lì a poco avrei dimenticato ogni singolo nome.
«Tu da dove vieni, Vittoria?», mi chiese Kimberly, che aveva un sacco di doppie punte nei lunghi capelli neri ed una parlata un po’ biascicata per via dell’apparecchio ai denti.
Sorrisi. La provenienza era decisamente il mio asso nella manica. Per gli abitanti dello sperduto Wyoming, che veniva dimenticato addirittura dagli insegnanti di geografia, una Californian Girl in carne ed ossa, di quelle di cui cantava Katy Perry, era una vera e propria attrazione. Piccolo dettaglio: io non ero più una Californian Girl. Allontanai l’infausto pensiero con un gesto della mano e mi affrettai a rispondere.
«Da San Francisco.»
L’effetto non tardò a manifestarsi. Le ragazze si portarono le mani alla bocca ed i ragazzi proferirono in commenti ammirati.
«Ecco perché sei così in tiro!», esclamò uno di questi ultimi, dandomi una sonora pacca su una spalla. Detto da uno che si era infilato i pantaloni della tuta a rovescio ed aveva l’aria di non farsi una doccia da una quantità di tempo su cui preferivo non indagare, doveva essere un complimento.
Per le due ore successive i miei nuovi conoscenti non fecero che tartassarmi di domande sul sole, sul mare, sulla moda e sulla vita californiane. A fine serata avevo deciso che mi piacevano. Erano un po’ dei bifolchi senza un minimo di raffinatezza e senso estetico (i maschi infilavano un rutto in ogni frase e continuavano a grattarsi come se fossero stati assediati dalle pulci, mentre le ragazze sfoggiavano accostamenti cromatici a dir poco discutibili), ma se non altro non avevano peli sulla lingua ed erano piuttosto divertenti. Si, tutto sommato potevano andare.
Allo scoccare delle undici e mezza iniziarono tutti a raccattare le loro cose.
«Dove andate?», chiesi, perplessa.
«Abbiamo il coprifuoco», mi rispose con un sorriso la ragazza biondo platino (il cui nome era precipitato nel dimenticatoio meno di cinque minuti dopo che si era presentata).
«Oh», mi limitai a commentare, sgranando gli occhi. Io non avevo più un coprifuoco da quando avevo si e no dodici anni. Mia madre poteva anche essere nella maggior parte dei casi una tiranna, ma sotto l’aspetto degli orari era sempre stata piuttosto permissiva.
«Noi ci ritroviamo qui anche domani sera. Vieni con noi. Abbiamo deciso che ci piaci, Vittoria», mi disse uno dei ragazzi, dandomi un’altra pacca sulla spalla. Prima o poi avrei dovuto dire loro di piantarla con quella pessima abitudine: mi stropicciavano i vestiti e, peggio ancora, mi spettinavano.
«Oh, ehm, si, d’accordo», balbettai. L’indomani era sabato sera e sinceramente avevo sperato di trovarmi qualcosa di meglio da fare, ma a giudicare da quello che avevo potuto vedere di Foggy Hollow il cosiddetto “meglio da fare” doveva consistere proprio in quelle serate al parco. Era davvero a questo che si era ridotta la mia vita sociale?
Tutti si avviarono verso casa. Avrei tanto voluto farlo anche io, ma mi ricordai solo in quel momento che c’era un problema: non avevo idea della direzione da prendere per raggiungerla. Sapevo che chiedere indicazioni ai ragazzi sarebbe stato umiliante, ma volevo andarmene da quel parco giochi e faceva sempre più freddo.
«Ehm», dissi, e tutti si girarono a guardarmi. «Io mi sarei persa.»
«A Foggy Hollow?», chiese la ragazza mora, alzando un sopracciglio. Non aveva tutti i torti. Le rivolsi un’espressione desolata.
«Non c’è problema. Owen abita non lontano da Avary Manor. Ti accompagnerà lui, non è vero?»
Il summenzionato Owen annuì, silenzioso, ed a me parve di vederlo in quel momento per la prima volta. Mi accorsi solo in quel mentre che praticamente non aveva mai parlato (e nemmeno ruttato, il che deponeva a suo favore) durante tutta la serata ed era stato per tutto il tempo un po’ in disparte. Alla luce delle torce vidi che era alto e magro, aveva folti capelli rossicci ed il viso un po’ lentigginoso, ma la sua non era la classica faccia da simpatico irlandese che ci si aspetta dai pel di carota. La bocca era una linea dritta  che non sorrideva, gli occhi erano seri e ridotti a due fessure, l’espressione dura, quasi cattiva. A giudicare da come lo guardavano le ragazze, a Foggy Hollow il genere bello-e-dannato doveva essere parecchio apprezzato.
«Oh, ehm, va bene», accettai, poco convinta. Così ci avviammo, io e Rosso Malpelo in una direzione e gli altri nell’altra. Per una considerevole quantità di tempo restammo in tombale silenzio, accompagnati solo dallo scalpiccio dei nostri passi lungo le stradine tortuose del paese. Quando meno me lo aspettavo, Owen parlò, senza guardarmi in faccia.
«E’ davvero tutto strano per te, eh, Vittoria?»
La sua voce gelida e allo stesso tempo canzonatoria si addiceva perfettamente al suo aspetto fisico.
«Che cosa?»
Sorrise, sarcastico.
«L’atmosfera, le persone, i passatempi... non ci sei abituata. Sono veramente grandi novità per te».
Qualcosa nel suo tono mi diceva che non stava affatto cercando di essermi di conforto. Semplicemente, mi stava sfottendo.
«Come lo hai capito?»
Alzò le sopracciglia.
«Quando ti è stato menzionato il coprifuoco hai guardato tutti come se parlassero cinese, sprizzi disgusto da tutti i pori appena qualcuno ti tocca e detesti come poche altre cose la parlata volgare tipica di qui. Per la cronaca, sappi che non ho inserito una parolaccia o due in questa conversazione solo per evitare di scandalizzarti».
Dovevo concederglielo, era perspicace, ed anche un buon osservatore.  Persino troppo. Insomma, non era certo mia intenzione sembrare così deliberatamente schifata quando le ragazze, per salutarmi, mi avevano abbracciata e ricoperta di smancerie come se fossi stata in procinto di partire per il Congo. In fin dei conti, loro non potevano essere a conoscenza della mia oltremodo scarsa predisposizione al contatto fisico. Comunque, non mi sembrava che avessero notato quanto ero stata precipitosa nel mettere fine a tutte quelle effusioni. Loro no, ma Owen, evidentemente, lo aveva fatto.
«Stai tranquilla, loro non ci hanno fatto caso. Sono dei cari amici, ma piuttosto stupidi. Vedono solo quello che vogliono vedere».
«Che fai, leggi nella mente?», chiesi, spazientita, mentre giravamo un angolo per poi fare capolino in una piazzetta. Cercai di memorizzare il tragitto per poterlo ripercorrere il giorno seguente, ma era una battaglia persa in partenza. Owen rise.
«Sono solo un ragazzo sveglio.»
«Ed arrogante.»
«Ad ognuno il suo. Tu, ad esempio, sei particolarmente snob.»
Ahia. Colpita. Gli scoccai una di quelle occhiate fiammeggianti che avevo imparato da mia madre e lui rise di nuovo.
«Tu mi sembri diverso dagli altri ragazzi», cambiai frettolosamente argomento. Lui fece spallucce.
«Sono solo un po’ più attento alle reazioni delle persone».
«Spero vivamente che tu abbia anche hobby diversi dallo spiare la gente.»
«Sicuro. Gioco a calcio, di tanto in tanto leggo e, beh, suono il pianoforte. Ma quello non è un hobby, è un’autentica perdita di tempo. Lo faccio solo per fare contenta mia nonna.»
Mi inchiodai in mezzo alla strada e guardai Owen come se fosse stato un alieno, a bocca spalancata e con occhi indignati. Non riuscivo nemmeno a parlare, lo sdegno che provavo mi appiccicava alla gola tutte le parole.
«Che fai?», mi chiese, perplesso.
«Tu non hai capito assolutamente niente dell’esistenza! Il pianoforte è il più grande piacere della vita!»
«Ah si? Ed io che credevo fosse il sesso.»
Arrossii violentemente e strinsi le labbra con stizza, reazione che lui sembrò trovare estremamente divertente.
«Come siete puritane, in California!»
«Non ho intenzione di passare neanche un secondo più del necessario assieme a te», dichiarai, infuriata. Come si poteva essere tanto stupidi da non apprezzare la magia del pianoforte? Come si poteva non sentirsi invadere da quel soave ed inafferrabile piacere non appena quei tasti d’avorio iniziavano a diffondere la loro musica celestiale? Semplicemente, come si poteva non amarlo?
«Bene, perché io sono arrivato», disse lui in tutta risposta, indicando l’ultima villetta bianca sulla strada lastricata. «Pensavo di fare il galantuomo ed accompagnarti fino a casa, ma se proprio insisti posso anche andarmene. Tanto casa tua è a duecento metri da qui. Ma ti avverto: sono i più bui di tutta la città».
Indispettita come non mai, girai il naso e senza nemmeno salutarlo proseguii per la mia strada.
«Vittoria!», mi chiamò, poco dopo.
Mi aspettavo quantomeno delle scuse imploranti con tanto di scorta assicurata fino alla porta di casa. Ma quando mai le mie aspettative si rivelavano esatte?
«Tu non hai idea di come tornare al parco giochi domani, vero?»
Il mio silenzio fu eloquente.
«Ti passo a prendere alle otto. Sii pronta!», e, senza aggiungere una sola parola di più, entrò in casa, con un ghigno soddisfatto e divertito stampato sulle guance puntellate.
Tutto quello che riuscivo a pensare era quanto quel ragazzo fosse insopportabile. Mi aveva avvertita, nonna Betty, che i rossi di capelli sono figli del demonio.




Ciao a tutti. Sono Nevermore e questa è la mia prima storia a capitoli. Fa un effetto strano. Scrivere su un sito, intendo. Oh, scusate, sto farfugliando come al solito. Dovrei rinunciare a tentare di scrivere pensieri filosofici alla fine dei testi. Mi fanno sembrare soltanto, insomma, qual è la parola giusta? Un’idiota.
Aggiornerò la storia più o meno (voglia e scuola permettendo) ogni settimana. Nel frattempo voi approfittatene per tempestarmi di recensioni (come no). Ogni genere di commento, anche negativo, è ben accetto. Grazie a tutti quelli che leggeranno e recensiranno, veramente, mi fate un grande piacere.
Concludo dedicando questa storia a Leonardo, che durante tutto l’anno scolastico mi ha tormentata perché anziché seguire le lezioni di matematica scrivessi questa storia, che senza i suoi sproni non sarei mai riuscita a concludere. E’ merito suo se oggi potete leggere tutto questo. Beh, è anche merito suo se ho il debito di matematica. Ma comunque.
Baci a tutti
Nevermore
  
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