La
mente aprì
gli occhi
La mente
aprì gli
occhi.
Si trovava in
un’ampia
sala oscura, rischiarata appena da una luce proveniente da luoghi
ignoti.
Davanti a lei
stavano
sagome imponenti e oggetti sconosciuti, immagini di sogni che non
avrebbe mai
ricordato.
Alla sua destra
stava
una grande costruzione in legno che rassomigliava al vecchio
confessionale
della chiesa che aveva frequentato per tanti anni.
Incapace di
controllare
le sue membra, la mente vi entrò.
Sentì
una voce, una
voce bassa e cupa che parlava una lingua mai sentita prima. Sembrava
una
cantilena, era dettata da una musicalità antica e
inebriante.
Presto si
aggiunse un
altro suono, le parole di una donna dalla voce trillante che sembrava
urlare a
squarciagola. Era assordante, completamente opposto al magico ritmo
della voce
più bassa che stava sovrastando.
Poi
un’altra. Questa volta
non sembrava nemmeno umana, un insieme di ruggiti, ansiti e ringhi
minacciosi.
La mente
cominciò a
sentire caldo, voleva uscire ma non sapeva come. Il telo che aveva
scostato per
entrare era scomparso, ora si trovava rinchiusa in una gabbia di legno
senza
aperture.
Un’altra
voce. Un
pianto.
Un’altra
voce. Risate
ghiacciate, taglienti, spaventose.
Mille voci,
l’una sopra
l’altra, in un concerto terribile di suoni e rumori.
Infine un rombo
profondo, tenebroso, a cui si unì un movimento improvviso
dell’aria e della
terra.
Una luce bianca,
splendente - troppo splendente – la costrinse a ripararsi gli
occhi con le mani
e poi a chiuderli, incapace di sopportarla.
All’improvviso
fu il
silenzio.
Con cautela, la mente
riprese a guardare.
Era uscita, si
trovava
di nuovo in quella stanza ampia e buia.
Ora il suo
sguardo fu
attirato da un piccolo oggetto brillante a cui si avvicinò,
sebbene il suo
cuore le gridasse di scappare.
Sopra un cuscino
di
velluto nero, che notò solo quando vi fu davanti, stava una
fedina dorata che
riluceva sebbene non ci fosse nulla ad illuminarla.
Con mano
tremante, l’afferrò.
Al suo interno era incisa una data.
20
– 06 – 1995
Le dita le
bruciavano,
eppure non riusciva a lasciarla andare.
Immagini
orribili si
presentarono ai suoi occhi, orribili per l’amore che
contenevano.
Loro due,
insieme,
abbracciati.
Loro due,
innamorati, a
giurarsi fedeltà eterna.
Loro due, con un
piccolo
bambino tra le braccia.
Loro due,
circondati da
nipotini.
Loro due,
separati da
una bara. Lei, in piedi a fissarla, con lo sguardo velato di lacrime.
Lui, in
un altro mondo, forse più sereno.
Cercò
di chiudere gli
occhi per non dover più vedere, cercò di
coprirli, ma le sue mani restavano
immobili a stringere quell’anello.
Cercò
di gridare per
far uscire da sé una parte del dolore, ma la bocca non si
aprì.
Dovette restare
lì,
ferma, mentre i ricordi di una vita le scorrevano davanti.
Poi di nuovo la
luce
bianca, quella luce dolorosa che l’abbagliò e,
andandosene, la portò con sé.
Davanti a lei
c’era una
porta nera come la pece.
Era arrivata al
lato
opposto della sala e, voltandosi, la ritrovò vuota.
Riportò
la sua
attenzione alla porta che si stagliava minacciosa lungo la parete.
La sua mano
corse alla
maniglia, iniziando a girarla.
Per un
inspiegabile
istinto di sopravvivenza, la mente si oppose. Con tutte le sue forze
tentò di
resistere alla mano, rallentandone il movimento.
Lentamente, ma
senza
fermarsi, la mano continuò.
Dagli spifferi
della
porta entrava la luce bianca, ancora più forte di prima.
Incapace di
opporsi, la
mente cedette.
La porta si
spalancò e il
bagliore la circondò.
Una forza
sovrumana la
prese tra le braccia, attirandola di là.
Di là.
In un posto
sconosciuto, immerso nel bianco.
O forse erano i
suoi
occhi che avevano smesso di vedere, accecati?
Poi la mente
capì.
Capì
cos’era quella
luce che non le dava tregua.
Era la morte.