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Autore: EmilyPlay    08/09/2014    2 recensioni
Quello che frullava nel cervello di Roger al di sotto della schiuma dello shampoo era, in sintesi: "Chi si crede di essere?"
“Per chi impazziscono le ragazze? Eh? Per me! Di certo non per quel nasone!”
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non diventare grande mai,
non serve a niente, sai?
[Eugenio Finardi, Non diventare grande mai]
 
 
 
 
Roger era arrabbiato. Roger era irritato. Roger era scazzato. Roger, sostanzialmente, faceva i capricci. Peggio: Roger faceva i capricci mentali, tra sé e sé, da solo. Se ancora non picchiava i piedi per terra era perché si trovava nella doccia di quel fottuto hotel di Philadelphia e non si sentiva molto propenso a scivolare e battere la testa, così da mettere in atto la più imbarazzante delle morti di rockstar.
Era una persona la causa del suo astio, un chitarrista per la precisione: il chitarrista della sua band. E ciò che aveva fatto il suddetto chitarrista era davvero inammissibile: aveva scelto il locale dove passare la serata di quel giorno di vacanza che si erano presi dopo il concerto. Senza consultarli.
Che il problema, per John e Keith, non sussistesse minimamente, non gli importava. Lui, Roger, come al solito, l’aveva considerato un affronto bello e buono al suo ruolo di frontman. Era la quotidiana lotta dei due galli nel pollaio.
Quello che frullava nel cervello di Roger al di sotto della schiuma dello shampoo era, in sintesi: Chi si crede di essere?
“Per chi impazziscono le ragazze? Eh? Per me! Di certo non per quel nasone!” borbottò mentre posizionava la testa sotto il getto caldo e si trovava inevitabilmente a sputacchiare, avendo aperto la bocca.
In fin dei conti lui era troppo infantile per rendersi conto che il suo atteggiamento era infantile.
 
Era uscito da poco dalla doccia quando un’improvvisa scarica di colpi violenti alla porta lo fece sobbalzare e la camicia che stava esaminando senza convinzione gli scivolò dalle mani. “Maccheccazzo!”
Un momento dopo, spalancata la porta, colui che, effettivamente,  si aspettava ci fosse dietro perse l’equilibrio, barcollò nella stanza, inciampò nel tavolino e finì lungo disteso sul pavimento.
Tutto ciò che Roger potè fare fu richiudere la porta e continuare a fregarsi sulla testa l’asciugamano, attendendo che la figura a terra riacquistasse un minimo di dignità, ma  sapeva che era una richiesta eccessiva. Lo osservò voltarsi a pancia in su e spaparanzarsi come se nulla fosse sulla moquette, mani incrociate dietro la testa e gambe accavallate sul tavolino.
“Ehilà!” esclamò Keith, con un sorriso a trentadue denti.
Roger si limitò a sollevare le sopracciglia.
“Si può sapere quanto ci stai mettendo a prepararti checchetta?”
Il cantante, che nel frattempo era tornato a rivolgere l’attenzione il contenuto dell’armadio, gli lanciò un’occhiata di sbieco, mentre si aggiustava l’asciugamano intorno ai fianchi, ma, da quella prospettiva, il volto del batterista era nascosto dal tavolino.
“Con quella camicia sarai bellissimo, fidati, ti bacerei!”
Roger scosse la testa all’interno dell’armadio, sapendo che l’unica cosa da fare con un Keith che schioccava baci all’aria era insistere nell’ignorarlo. Poi però il pensiero di stuzzicarlo si fece troppo allettante e non riuscì a trattenersi dall’avvicinarsi all’altro con un sorrisetto sghembo.
“Sai, Jenny sarà del tuo stesso parere. Meglio che vada giù a sincerarmene” disse.
Roger e Keith. Puntano alle stesse ragazze dal 1964.
Con sorpresa e disappunto del biondo, però, Keith conservò intatto il sorriso, mentre piegava la testa all’indietro per guardarlo.
“Magari aspetta un po’, prima. Non è facile riprendersi da un batterista, comprendila”
Fu impressionante come le espressioni sul volto di Roger mutarono una dopo l’altra finchè quella più neutra e impenetrabile si stabilizzò. Keith, invece, aveva l’aspetto di un folletto dispettoso ed estremamente divertito.
“Umm, Rog, come si dice, a quick one while he’s away…or while he’s having a shower”
Bene, ora era ancora più legittimato ad avere le palle girate, decisamente. Inoltre fu costretto ad andare a cambiarsi in bagno perché Keith non aveva intenzione di spostarsi di un centimetro dalla sua postazione.
Quando tornò nella camera, infatti, lui se ne stava ancora nella stessa identica posizione, a fischiettare.
“E comunque, perché stai qua? Dove sono gli altri?” gli chiese, aggirando lui e il letto per raggiungere l’altro lato della stanza.
“John non lo so, era andato a prendere le sigarette, quando io e la cara, dolce, piccola Jenny abbiamo lasciato il bar…”(Roger si sforzò di rimanere impassibile) “…e poi non l’ho più ritrovato…”
In un attimo il cantante vide le gambe del batterista abbandonare tavolino e la sua testa emergere da dietro il letto come il periscopio di un sottomarino.
“Maaaagari ha trovato un’amica di Jenny”. Folletto malefico.
“Bè, che si faccia vivo, io sono pronto” controbatté Roger, mettendosi in tasca il portafoglio e dirigendosi verso la porta. Keith emise un gridolino di soddisfazione. Ma il cantante si fermò con la mano sulla maniglia: “E l’organizzatore del divertimento notturno? Che fine ha fatto?” ironizzò, acido.
Keith lo guardò un poco sorpreso.
“Parli di Pete?”
Al cenno affermativo dell’amico, il batterista indicò col pollice alla sua destra.
“è salito in camera sua più di un’ora fa e non ne è ancora uscito” gli si dipinse un sorriso dolce sulle labbra “secondo me ne uscirà qualcosa di molto bello”
 
Tentennò un poco fuori sul corridoio davanti a quella porta (Keith se ne era sceso saltellando per le scale e chiamando John a gran voce). Poi, ignorando deliberatamente il cartello “Non disturbare”, bussò. Nessuna risposta, dall’altra parte non proveniva alcun rumore. Bussò di nuovo. Attese ancora e si ritrovò a bussare per la terza volta. Un irritato “Non sai leggere il cartello?!?” proruppe dall’interno della stanza.
“Mi spiace, ho qualche problema con gli imperativi”
La serratura scattò e un naso prominente fece capolino dalla soglia. Subito dietro c’erano un paio di occhi azzurri e una zazzera di capelli scompigliati.
“Su questo non ho dubbi”
Pete lo osservò irritato per un poco, poi si decise a spalancare la porta e si inchinò teatralmente tenendola aperta e invitandolo ad entrare.
“Ma prego, infine sua maestà ci degna della sua presenza. Quale onore!”
“Piantala di fare il pirla” fece Roger, entrando e mollandogli uno spintone.
Una volta dentro non potè fare a meno di confermare a se stesso che gli scrittori sono dei matti. Sono gente che vive con la testa in un altro luogo rispetto a quello in cui respira. Sì, si riferiva proprio a quello scemo che ora stava chiudendo la porta e si trascinava alla scrivania, con lo sguardo perso e una mano tra i capelli sempre più spettinati. E quella sorta di poeta maledetto in una stanza d’hotel sembrò vagamente rendersi conto di qualcosa quando il suo compagno rimase fermo lì in mezzo, impalato, come intrappolato.
“Che fai?” Pete sembrava davvero stupito. A Roger pareva per lo meno palese, ma cercò di rendere la ragione maggiormente evidente con un cenno della mano tutto intorno.
“Come cazzo hai fatto a ridurla così in un giorno?”
A Pete scappò uno sbuffo di riso: “Ma dai, hai visto di molto peggio!” lo liquidò, pensando piuttosto a ritrovarsi negli appunti e abbozzi sparsi sulla scrivania.
“…sei qui da un giorno…” fu l’unico commento del cantante.
La stanza era avvolta dalla penombra, in quanto l’unica luce accesa era quella del comodino, e il caos immane si riconosceva più che altro attraverso le sagome. In un angolo stavano dei vestiti ammucchiati, che Roger riconobbe come quelli che Pete aveva indossato al concerto la sera prima e che a quanto pare non aveva avuto l’accortezza di far lavare alla lavanderia dell’hotel; di fianco, la valigia aperta, mai svuotata, con il contenuto che si riversava all’esterno. Più in là, sempre sul pavimento, delle lattine di birra vuote, e sul tavolino il portacenere pieno e una bottiglia di quello che sembrava whisky, con relativo bicchiere. Sul letto un libro aperto, sgualcito, e la chitarra acustica che occupava un posto d’onore, con la paletta adagiata comodamente sul cuscino. Un po’ ovunque giacevano fogli accartocciati, abbandonati, scartati.
Bè, lì dentro non ci stava, che andassero pure tutti insieme a quel locale, va bene, poi ci avrebbe pensato lui a far notare come niente andasse dritto, come la musica fosse mediocre, come i drink facessero pena e la gente fosse ridicola. Solo che tutte queste meditazioni di ripicche sfumarono via senza che neanche se ne accorgesse, non appena Pete si voltò verso di lui con un blocco appunti in una mano e svariati fogli nell’altra.
Roger era infantile, sì, ma proprio per questo sapeva dimenticare i bisticci come solo i bambini sanno fare, sapeva arrabbiarsi con gli altri e subito dopo correre loro incontro per aiutarli. Già, a quell’antipatico voleva un gran bene. Quegli occhi così azzurri, timidi, che tradivano degli attimi di insicurezza, coperti da quel sottile velo di tristezza che li caratterizzava. Quella posizione un po’ goffa che stava assumendo. Persino quello sbafo sul mento di inchiostro blu, che notava solo ora, gli muovevano dentro solo un grande affetto. Si pentì di averlo sgridato come fosse stato sua madre e raddolcì l’espressione del volto.
“è ancora quell’idea?” chiese, delicatamente.
Pete annuì, andando a riporre gli scritti in una borsa che penzolava dall’attaccapanni.
“Sì…” rimase in silenzio mentre richiudeva le cerniere “Forse voi mi prendete per pazzo…però…” aggiunse.
Roger scoppiò a ridere, ma era una risata di incoraggiamento. Pete sorrise, portandosi di nuovo una mano tra i capelli.
“Un bambino cieco, muto e sordo… che gioca a flipper… un’opera rock…” disse, come parlando tra sé e sé, con lo sguardo rivolto a terra. “No, non hanno mai fatto niente del genere!” sentenziò, alzando gli occhi per puntarli dritti in quelli di Roger.
“No, Pete. E ne verrà fuori qualcosa di spettacolare”
 
Giù nella hall, a quanto pareva, Keith aveva ritrovato John. I due ridevano fino alla lacrime per non si sa cosa, assumendo delle posizioni non esattamente composte sul divano. Accolsero l’arrivo dei compagni di band con una sorta di hola scoordinata.  
 
Poco dopo, Roger faceva vorticare pigramente il liquore nel bicchiere, reggendosi il mento con la mano e facendo scivolare lo sguardo tra due roadies, che facevano a gara a chi beveva più velocemente un boccale di birra tutto di un fiato, e il resto dei clienti del locale.
Nel tavolo a fianco John e Keith stavano in compagnia di un gruppetto di ragazze. Facevano tutto in coppia quei due, procedevano insieme in perfetta sincronia.
Proprio come una coppietta- si ritrovò a pensare Roger- o come due migliori amici all’età di otto anni.
A volte si domandava se per un certo tempo avesse davvero frequentato John senza conoscere  Keith… diamine, era diventato difficile pensare a loro come due entità distinte, singole, separate, praticamente dal momento in cui il batterista era entrato a fare parte della loro band!
Alzò il bicchiere e se ne versò in gola l’intero contenuto, scoccando un’occhiata a una delle ragazze del gruppetto, che cercava di osservalo senza farsi troppo notare e falliva miseramente nell’intento. Le fece l’occhiolino, lei arrossì fino alla radice dei capelli e, non sapendo che fare, chinò il capo. Doveva avere al massimo diciotto anni.
Cosa dicevi dei batteristi, Keith? Vediamo un po’ se anche tu sei capace di scombussolare il mondo interiore di una fanciulla solo ammiccando!
Noia. Sostanzialmente perché non poteva permettersi di divertirsi in un locale che gli era stato, a suo dire, imposto.
E lui, si starà davvero divertendo?
Pete incitava i roadies, ridendo con gli altri e scolandosi fiumi di birra. Ma Roger lo conosceva troppo bene per non rendersi conto che, in realtà, la sua mente era altrove, forse focalizzata su un ragazzino del dopoguerra che viveva di sensazioni e diventava il mago del flipper.
Eh sì, perché il ragazzo che stava lì seduto a bere era lo stesso compositore che poco prima scribacchiava frenetico in una camera disastrata, la rockstar che sfasciava il proprio strumento sul palco, il chitarrista che aveva inventato la plettrata a mulino, a bowling, o come la si voleva chiamare.
 
Erano tutti quanti piuttosto brilli, quando nella notte rientrarono in albergo. Si rifiutarono di prendere l’ascensore e salirono a piedi come una mandria di bisonti, nonostante ragazzo al bancone della hall li pregasse quasi in lacrime di fare piano.
Sulla rampa tra il secondo e il terzo piano Keith decise che non poteva più andare avanti e che avrebbe dormito sui gradini. Finì che John se lo caricò in braccio e lo portò a letto di peso, avvinghiato al collo.
Pete e Roger si avviarono alle loro stanze barcollando e ridendo, bussando ad ogni porta che incontravano, cantando strofe a caso di canzoni proprie e altrui.
Arrivato alla propria stanza Pete trafficò un poco con la chiave e fu quasi preso alla sprovvista quando la serratura finalmente scattò.
“Bè, buonanotte!” biascicò, sgusciando dentro.
Roger, con i riflessi rallentanti per l’alcool, riuscì solo all’ultimo ad afferrare la maniglia per tenere aperta una fessura attraverso la quale infilò la testa nella camera.
“Comunque il locale faceva schifo!” e sparì.
Pete si ritrovò a fare la linguaccia alla porta chiusa come un cretino. O come un bambino di otto anni. 
 
 
There’s someone in my head…
Dovevo scrivere qualcosa sugli Who prima o poi! Inizialmente mi era venuta un’idea, poi è spuntato fuori Keith, che mi ha spinto in un'altra direzione, dopo è comparso Pete… insomma, sono finita a scrivere questa cosa.
Mi spiace di aver lasciato John così a margine, perché io lo adoro…dovrò rimediare!
See you ;)
Emily
  
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