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Autore: Emily Liddell    10/09/2014    1 recensioni
Daisuke è un ragazzo indipendente che fugge da un delitto compiuto contro la sua volontà e si chiude in se stesso. Sakura è una ragazza apparentemente affetta da psicosi che cerca di riprendersi la sua vita.
I due coetanei sono destinati a incontrarsi in un mondo distorto dalle emozioni.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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La radio quel giorno trasmetteva la mia canzone preferita.
Ogni volta che l’ascoltavo qualcosa dentro di me si accendeva e provavo mille emozioni diverse. Oramai quella melodia mi rimbombava in testa da mesi. Mi rilassava e mi faceva stare bene.
Ma ora il mio respiro si faceva affannoso e le gocce di sudore mi rigavano il volto e qualche goccia arrivò alla bocca, insieme ad una lacrima. “Com’è possibile che una cosa così salata scorra dagli occhi?” pensai per un instante continuando a fissare la l’uomo davanti a me. La canzone continuava a rimbombare nella mia testa, ma non riuscivo a calmarmi.
La mano era ricoperta di sangue, scorreva molto velocemente e nel giro di pochi minuti la sostanza vischiosa aveva già sporcato l’asfalto del vicolo, oramai vecchio e rovinato, formando una pozza densa e scura ai miei piedi.
Avevo appena sventrato un uomo. L’uomo che pochi istanti prima cercava con tutte le forze di spezzarmi un braccio pur di rubarmi la custodia del laptop che avevo in una mano e il portafoglio che avevo tirato fuori qualche istante prima per andarmi a comprare una lattina di coca-cola al distributore dall’altra parte della strada. Le sue gambe avevano ceduto ed ora era steso a terra ed ansimava. I suoi occhi vuoti mi guardarono. Le pupille si erano ristrette e da quei piccoli occhi marroni scorrevano lacrime di dolore. Non riuscì a leggere ciò che quello sguardo mi voleva dire.
La canzone era appena finita. Nella mia testa ora c’era solo il buio più totale.

 

Come al solito il ragazzo che mi precedeva all’appello non c’era neppure quel giorno. Il professore guardò il suo banco vuoto e lo saltò all’appello. Sospirò.
 - Shimizu Daisuke?
 - Preeeesente. –risposi sbadigliando
 - Shimizu sbadigli continuamente, fai le ore piccole? Ammettilo dai, tutte le sere giri per Shibuya e vai a caccia di ragazze, così fai le ore piccole. – mi sussurrò Arata poggiando una mano sul mio banco
 - Ti sbagli di grosso. È che soffro d’insonnia.
 - Secondo me dovresti trovarti una ragazza.
 - Forse hai ragione.
Il professore aveva appena finito l’appello. Iniziò a spiegare in cosa consistevano le prove d’esame che dovevamo fare quella settimana e trattenendo uno sbadiglio, prese il gessetto e cominciò a scrivere qualcosa sulla lavagna. Io prendevo appunti, ma senza seguire e di conseguenza non capirci assolutamente nulla. Nervosamente ogni tanto mi toccavo gli orecchini –ne avevo due per ogni lobo- che provocavano un rumore metallico appena si toccavano.
Finite le lezione presi la radio, mi misi le cuffie cercai di sintonizzarmi su una stazione radio. Se trovavo una canzone che mi piaceva, continuavo a restare sintonizzato su quella stazione. Stavano passano la mia canzone preferita. Oramai avevo perso il conto di quante volte l’avevo ascoltata.
Presi il mio pranzo e chiesi ad Arata e Kamiya se volevano pranzare con me. Accettarono.
Salimmo sul terrazzo della scuola. Qualche studente stava poggiato sulla ringhiera in un punto non visibile dall’entrata che fumava, qualcun altro aveva deciso, come noi, che il terrazzo sarebbe stato il luogo perfetto per la paura pranzo.
Poggiai il pranzo a terra, che consisteva in una scatoletta di bento, poi tirai fuori dalla borsa del caffé che avevo messo in un thermos e un pacchetto di sigarette. Arata me ne chiese una. Kamiya bevevo un succo d’ananas e mangiava alcuni dorayaki.
 - Ehi Kamiya, ma mangi sempre la stessa roba. Scommetto che anche a casa non mangi altro. E poi Shimizu, dici di soffrire d’insonnia e poi ti vedo sempre bere caffé
 - Arata ma perché non ti fai gli affari tuoi? –rispondemmo all’unisono.
Arata ci rivolse una smorfia e si accese la sigaretta.
 - Diavolo, cosa me ne frega degli esami. Tanto anche se non studio sono destinato a lavorare in una comune azienda e diventare un comune operaio che tutti i giorni con la stessa camicia, prende la metro e cercare di non beccarsi ceffoni per aver accidentalmente palpato una studentessa. Non che l’ultima cosa mi dispiacerebbe.
- Cavolo come sei ambizioso. –dissi ironicamente dopo aver espirato il fumo.
Il caffé era ancora tiepido e ne bevvi un po’ e nel giro di dieci minuti finii il bento, che però al contrario del caffé si era raffreddato (le verdure che avevo messo erano quasi immangiabili per quanto erano fredde) e che alla fine si era rivelato un pasto tutt’altro che saziante e appetitoso. Il vento tiepido di Maggio mi muoveva dolcemente i capelli “è ora di ritingerli” pensai.
 -Shimizu tu stasera hai il club di arte vero? E a che ti serve il computer? – chiese Kamiya.
 -Vedi mi sono da poco comprato una tavoletta grafica e ho detto al senpai Sato se potevo lavorarci e mi ha risposto che era una buona idea. Ha detto che prima o poi avremo dedicato un pomeriggio alla sola colorazione digitale.
 - Però deve essere ingombrante portarselo dietro in metro con tutta quella gente che ti schiaccia.
 - Per una volta che sarà mai.
 
Il pomeriggio finito il club pomeridiano, rimasi a pulire l’aula. Il cielo cominciava a tramontare. Si sentivano stormi di uccelli che tornavano nei loro nidi per via della notte imminente.
Misi nel mio armadietto le scarpe e me ne andai.
Dopo il suicidio di mio padre, avevo deciso che sarei andato ad abitare da solo. Mia sorella poteva benissimo cavarsela da sola.
A dir la verità odiavo mia sorella. Le portavo rancore sin dal giorno della sua nascita. Mia madre partorì mia sorella Miwako in bagno e per via di questo accaduto ebbe una grave emorragia e appena arrivata in ospedale c’era poco da fare. Io avevo tre anni. Ora ne avevo diciotto. Non ricordo bene il volto di mia madre, ma ricordo quando mi cullava tra le sue braccia e mi cantava qualche canzone che aveva imparato da bambina quando abitava a Takamatsu, nella prefettura di Kagawa nello Shikoku. Ricordo ancora quell’accento.
Mio padre si era risposato con una donna di nome Ritsuko, nubile Ritsuko Koizumi. Aveva 5 anni meno di mio padre e lavorava in un’agenzia immobiliare. L’unica cosa che legava me e mia sorella era l’odio per questa donna. Non dava mai una mano in casa (anche per via del suo lavoro) e sembrava scontato che tutto le si dovesse. Era arrogante ed egocentrica. Però dopo la morte di mio padre rimase devastata e si avvilì e se ne andò via di casa. Io decisi che era ora di finirla e con la parte d’eredità che mi aveva lasciato mio padre, affittai un monolocale in un vecchio palazzo qui a Shinjuku. Mia sorella ora vive con i nostri zii a Kabukicho (i miei zii avevano insistito perché non mi allontanassi troppo nel caso mi fosse successo qualcosa).
Sempre con gli auricolari sulle orecchie, scesi velocemente dalla metro, mi avviai verso un convenience store che si trovava a pochi passi e decisi di comprare qualche cibo precotto e con gli spicci che mi restavano decisi che per strada avrei comprato qualcosa da bere. La temperatura si era alzata negli ultimi giorni e la gola si era fatta secca, a stento riuscivo a parlare.
Passai per diversi stretti viali tra i palazzi e l’odore di urina sia dei barboni che dei gatti era davvero insopportabile, ma passare in quei punti faceva risparmiare un sacco di tempo. Le giornate si erano allungate, ma si erano già fatte le sei mezza di sera e da lì a poco il cielo sarebbe diventato cupo e la città si sarebbe illuminata delle luci delle insegne dei locali e dei lampioni. Scavalcavo qualche cumulo di immondizia buttata qua e là da qualche balordo troppo pigro per buttarla nel cassonetto sotto casa e  qualche sacco non emanava di certo un buon odore.
Dopo aver camminato una ventina di minuti, trovai un distributore di coca-cola. Non era certo la mia bevanda preferita, ma stavo morendo di sete. La stazione radio che stavo ascoltando mandò in onda nuovamente la mia canzone preferita. Iniziai ad essere su di giri che quasi iniziai a saltellare invece che camminare, ma mi diedi una calmata e tirai fuori il portafoglio.
Un barbone era poggiato con la schiena sul muro del palazzo e con la testa ricurva verso il basso. Aveva un’aria malconcia e qualche mosca gli ronzava persino intorno, come fosse un cumulo di feci. Ad un tratto mi tese la mano.
-Ragazzo… hai qualche spicciolo da darmi?
Io cercai di ignorarlo, ma l’uomo continuava a protendermi la mano sudicia. Mi afferrò i pantaloni della divisa.
-Ti prego solo qualche yen
-Mi scusi, ma ho fretta.
L’uomo respirava a fatica e con un grande sforzo si alzo e mi afferrò il colletto della divisa e tirò fuori da una mano un piccolo coltello.
-Ti ho chiesto solo qualche yen. - disse mostrando i denti ingialliti e sporchi
Aveva l’alito che puzzava di whisky.
Con un colpo deciso mi afferrò il braccio e mi girò di spalle, dandogli le spalle e portò il coltello alla gola, sfiorando con la lama i peli della barba che iniziavano a spuntarmi un po’ ovunque sul viso. Un auricolare si staccò dall’orecchio. L’altro continuava a sentire la canzone. Io avevo il respiro affannoso e non riuscì neppure ad urlare e chiedere aiuto. Ero confuso ed iniziai a sudare, bagnando sotto le ascelle e sulla schiena la camicia della divisa scolastica.
Poi quando l’uomo toccò la borsa del laptop riuscì a tornare in me e con un movimento brusco riuscii a liberarmi dalla presa e in un attimo riuscì ad afferrargli il coltello. L’uomo cercò i tutti i modi di riprenderlo e mi diede un pugno allo stomaco.
Con un gesto rapido e senza pensarci troppo su, conficcai la lama nel suo petto. L’affondai sempre di più, producendo un rumore sordo che forse riuscivo a sentire solo io. Forse per colpa della troppa adrenalina che scorreva nelle mie vene feci il gesto impulsivo di far scorrere la lama verso il basso disegnando uno squarcio verticale. Stavo letteralmente sventrando l’uomo.
Sentivo il sangue pulsarmi nelle vene. Sentivo il battito del cuore rimbombarmi nelle orecchie. Tutto era diventato bianco e rosso. Per un attimo non riuscii neppure a respirare.
Ritornai in me quando sentii un dolore lancinante al braccio che l’uomo mi aveva afferrato. La busta della spesa era caduta a terra e un gatto si era avvicinato per annusarla, scacciai l’animale e raccolsi la busta. Pian piano iniziavo a mettere a fuoco le immagini confuse nella mia mente, cercando di assembrarle come se fossero i pezzi di un puzzle. Io avevo appena ucciso un uomo per autodifesa. Ma preso dalla troppa adrenalina addirittura sono arrivato a sventrarlo. Come potevo spiegare una cosa simile? Sventrare un uomo per autodifesa? Quello sembrava in tutto e per tutto un omicidio! Inoltre nel vicolo nessuno mi aveva visto eccetto quel gatto e la camicia della mia divisa era macchiata di schizzi di sangue. Presi la giacca della divisa che tenevo piegata nella borsa, la infilai e la abbottonai.
La vita continuava a scorrere aldilà della strada, ma in quel vicolo tutto sembrava essersi fermato.
Io tenevo ancora l’auricolare attaccato ad un orecchio. La canzone era finita da circa trenta secondi e il presentatore radio aveva annunciato il nome della prossima.
  
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