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Autore: Sherlokette    16/09/2014    1 recensioni
Tratto dal testo:
Faceva un freddo micidiale.
Ed era una di quelle giornate in cui il tempo, particolarmente inclemente, rendeva l’atmosfera pesante, grigia e malinconica.
Una giornata nella quale chiunque con un minimo di buonsenso se ne sarebbe rimasto a casa a bere un the caldo di fronte al camino.
Ma lui non poteva.
P.S.: In questa versione non è compresa la presenza di Mary, e si attiene molto di più al racconto originale di Doyle.
Genere: Generale, Malinconico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John, Watson, Lestrade, Sebastian, Moran, Sebastian, Moran, Sherlock, Holmes, Sig.ra, Hudson
Note: Otherverse | Avvertimenti: nessuno
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Faceva un freddo micidiale.

Ed era una di quelle giornate in cui il tempo, particolarmente inclemente, rendeva l’atmosfera pesante, grigia e malinconica.

Una giornata nella quale chiunque con un minimo di buonsenso se ne sarebbe rimasto a casa a bere un the caldo di fronte al camino.

Ma lui non poteva.

Anche se la gamba gli faceva male, anche se le nuvole dense minacciavano di scatenare un temporale piuttosto violento da un momento all’altro, lui non poteva fermarsi.

Per tre anni non aveva quasi mai mancato quell’appuntamento così triste ma che, lo sentiva nell’animo, gli serviva per non dimenticare.

Per non dimenticare il volto del suo migliore amico.

 

Quella volta aveva optato per un mazzo di fiori misti, ognuno sui toni dell’azzurro. Azzurro... Come quegli occhi, spenti per sempre in quel maledetto giorno.

Inciampò in un’irregolarità del marciapiede, e gli scappò un’imprecazione.

Arrivò al cimitero con dieci minuti di ritardo.

“Probabilmente, se tu fossi qui, avresti dedotto il motivo del mio ritardo in pochi secondi e me l’avresti rinfacciato senza farmi nemmeno parlare...” pensò, con un moto di nostalgia.

Camminò a lungo fra le lapidi, con il bastone che affondava nel terreno reso praticamente molle dalle piogge dei giorni precedenti, finché non arrivò a quella che cercava: una lapide nera, sotto un albero, con un nome inciso in lettere dorate.

 

Sherlock Holmes.

 

Con lentezza, John si avvicinò al freddo pezzo di marmo e posò i fiori di fronte ad esso con movimenti ormai automatici.

-Ciao, Sherlock... - iniziò a dire, per poi bloccarsi un attimo. Sapeva benissimo che non poteva aspettarsi una risposta da una lapide, ma lo faceva sempre.

Quasi non si ricordava più il suono della sua voce, e così lo associava ai suoni intorno a sé. Quella volta, era il sibilo del vento, leggero anche se freddo.

-Sai, la signora Hudson voleva venire, ma... Non ce l’ha fatta. Intendo emotivamente. E Lestrade ha il suo da fare, quindi... C’è stato un omicidio, una settimana fa, e ho sentito l’ispettore borbottare qualcosa tipo “Se solo lui fosse qui”. Immagino si riferisse a te. E’ bello pensare che nonostante tutto lui ti rammenti ancora, vero? -

Si sentì di nuovo uno sciocco, a parlare così con un oggetto inanimato. Ma non poté fare a meno, anche quella volta, di poggiare una mano sul bordo della lapide, immaginando fosse la spalla del detective, e le dita gli si irrigidirono a contatto con la pietra fredda, facendolo rabbrividire. Fissò a lungo il suo riflesso su quel materiale lucido senza dire niente quando incontrollabilmente gli sfuggì una lacrima, poi un’altra, e un’altra ancora, finché non si ritrovò a piangere senza ritegno, scosso da forti singhiozzi.

Gli incubi erano ritornati, e in quei tre anni aveva dovuto combatterci costantemente. Il problema era che se ne era aggiunto un altro: Sherlock che si buttava dal tetto del Saint Bartolomew.

 

“Addio, John...”

 

-Mi sembra solo ieri, Sherlock... - mormorò fra le lacrime, - eppure ne è passato di tempo... Vorrei solo... vorrei solo... -

Udì un movimento alle sue spalle, e si paralizzò, spaventato: era convinto di essere da solo.

Alzò un pochino lo sguardo,e accanto al suo riflesso vide quello di una figura scura, in piedi, poco lontana da lui.

Le lacrime gli avevano annebbiato la vista, quindi non riuscì a riconoscere lo straniero, così si voltò: era un uomo di una certa età, molto alto, coi capelli grigi un po’ spettinati e l’aria malinconica come la sua.

-Mi scusi, non volevo disturbarla... - esordì l’uomo con un piccolo inchino, facendo un passo avanti.

-N-non importa... - mormorò John, asciugandosi in fretta gli occhi con una manica, imbarazzato.

Il nuovo venuto lo raggiunse e fissò la lapide nera: - Chi era, se posso chiederle? -

-Il mio... amico... -

-Capisco. - Il tono dell’uomo era piuttosto imbarazzato.

-Non in quel senso... - si affrettò a correggersi John, piccato.

-Oh... Oh! No no no, io... Non volevo certo insinuare... Le chiedo scusa. Sono stato indelicato. -

-Non si preoccupi. -

L’uomo misterioso si allontanò di corsa.

Turbato e confuso da quell’incontro inaspettato, il dottore rimase senza parole, e così, zoppicando e accennando un saluto per Sherlock, tornò sui suoi passi, per prendere un taxi e tornare a Baker Street.

Così facendo non si accorse che in realtà l’uomo misterioso si era nascosto dietro un altro albero, aspettando che John fosse lontano, per poi tornare alla lapide e prendere il mazzo di fiori con delicatezza. Li portò al viso e li annusò: - Mhmm... Non-ti-scordar-di.me... Che poeta... -


Il mattino seguente John non aveva molta voglia di uscire. Indossava uno dei suoi maglioni che non metteva mai e un paio di jeans, seduto sulla sua poltrona. Faceva distrattamente zapping alla tv, mentre la buona signora Hudson gli portava un the accompagnato da delle fette biscottate spalmate di marmellata.

-Oh, caro John, devi cercare di tirarti un po’ su. So che si avvicina quella fatidica data, ma devi reagire. -

-E’ facile per lei, dirlo, signora. Vorrei... Certe volte vorrei prendere un colpo in testa e dimenticare tutto, dimenticare Sherlock, dimenticare la sua... - Si morse un labbro prima di continuare: - … La sua scomparsa. -

Lei sorrise, cercando di confortarlo: - Oh, caro, credimi, manca anche a me. Non so che darei per sentire di nuovo i suoi colpi di pistola sul muro. Possiamo solo ricordarlo nei suoi momenti migliori.-

In quel momento suonò il campanello, e la donna andò ad aprire, lasciando John di nuovo solo.

Lui fissò il vassoio con poca voglia di mangiare, ma allungò comunque una mano per afferrare una fetta biscottata e iniziare a sbocconcellarla distrattamente.

La signora Hudson tornò indietro: - John caro, c’è un signore che chiede di te. Lo faccio accomodare? -

-Uh... certo, nessun problema. -

Il dottore rimase molto sorpreso nel rivedere l’anziano signore di ieri, vestito di tutto punto in un completo grigio scuro.

-Dottore, mi dispiace per l’invasione, ma avevo bisogno di trovarla e scusarmi come si deve. - Gli porse la mano, e John la strinse.

-Oh, nessun problema signor... -

-Hosk. Sam Hosk, dottor Watson. -

-Mi chiami John. Prego, si sieda... -

John ebbe un moto d’irritazione quando l’ospite si sedette sulla poltrona un tempo appartenuta a Sherlock, ma poi pensò che non aveva motivo di dirgli qualcosa.

-E mi dica, Sam, come ha fatto a trovarmi? -

-Semplice, il prete del cimitero mi ha detto chi fosse, John, e mi ha indicato dove trovarla. -

-E di cosa si vorrebbe scusare? -

-Del mio comportamento maleducato al cimitero. Sono stato molto scortese ad intromettermi nelle sue faccende affettive; non è bello perdere una persona cara. -

-Oh, beh... Grazie, allora, scuse accettate. -

-Mi permetta... Io sono un libraio, e per rendere effettive le mie scuse vorrei offrirle questi volumi che a mio parere troverà molto interessanti. -

-Ah, era... il mio amico che leggeva parecchio... Apprezzo il pensiero comunque, davvero. -

-La prego, gli dia solo un’occhiata. -

Sam porgeva al dottore tre piccoli volumetti un po’ consumati, e con un sorriso poco convinto John li prese e scorse i titoli, dando le spalle all’uomo.

Si trattava di un volume di ornitologia, un volume su Catullo e... Fu sorpreso di trovarne anche uno dedicato alla Guerra Santa.

-Beh... Grazie, Sam. Vuole... posso offrirle un caffè? -

John posò con cura i libri su un tavolino, dando sempre le spalle al suo ospite, che rispose: - Grazie, molto volentieri. -

Mentre il dottore stava versando il caffè caldo in una tazza, all’improvviso si bloccò nel sentire la voce di Sam cambiare: - Se non sbaglio tu lo prendi amaro il caffè, John. -

 

Quella voce... No. Era frutto della sua immaginazione?

 

Si voltò, e quale fu il suo stupore nel vedere seduto su quella poltrona non più l’anziano Sam Hosk, ma uno Sherlock Holmes sorridente e tranquillo.

-Ciao, amico mio, è bello rivederti. -

La tazza cadde di mano a John, e si fracassò spargendo il caffè sul pavimento.

Per un attimo tutto gli girò intorno, ma si appoggiò ad un tavolino ed ebbe la forza di dire, dopo una breve pausa: - Ecco lo sapevo... lo sapevo... -

-Cosa, John? -

-Che prima o poi sarei impazzito. Ecco, ci siamo. Adesso sarò perseguitato dalla tua allucinazione, lo sapevo... - Il suo tono era lievemente isterico.

-John... -

-La signora Hudson mi farà rinchiudere in manicomio, ah! Lo sapevo che era deleterio per me restare qui, ma i troppi ricordi mi ci hanno trattenuto, ed ecco il risultato! -

-John, non sei impazzito, io sono qui, sono vivo, e te lo posso dimostrare. -

-Ah, sì? -

Sherlock prese da sotto la giacca del completo il mazzo di fiori azzurri che John aveva lasciato di fronte alla lapide: - Un fantasma porterebbe questi con sé? -

Seguì un lungo momento di silenzio. Il dottore stava letteralmente a bocca aperta, senza nulla da dire, con l’impressione che il tempo si fosse fermato.

-Ancora non mi credi? Allora lascia che ti dia la prova definitiva... -

Sherlock si alzò dalla poltrona, gli andò lentamente incontro e, con la faccia di chi sta facendo un grande sforzo, abbracciò John, e disse: - I fantasmi passano attraverso i corpi solidi, no? -

John non rispose all’abbraccio, rimase fermo come un baccalà. Ma mentalmente non poté che dargli ragione.

Quando l’altro lo lasciò andare, il dottore disse, con voce strozzata dall’emozione: - Sei... davvero tu... Sherlock... ? -

-Sono io, John. Sono vivo. -

I sentimenti di John erano vari, forti e contrastanti: era felice, arrabbiato, confuso, sentiva i pugni chiusi tremare senza controllo, e improvvisamente, quasi inconsciamente, uno dei suoi pugni partì, e colpì dritto sulla mascella il detective, che non reagì e finì a terra.

John lo prese per il bavero della giacca e cominciò ad urlargli contro: - VERME!!! SEI UN VERME!!! ECCO COSA SEI!! CREDEVO FOSSI MORTO, CREDEVO... di non... DI NON RIVEDERTI MAI PIU’!!! -

Nel frattempo gli era partito anche un ceffone, e poi un altro, e ancora, ma Sherlock subiva senza dire niente, neanche un lamento.

Il dottore si bloccò quando vide che l’altro lo guardava in modo triste.

Si aspettava una sua reazione, qualsiasi cosa per farlo smettere, ma niente.

Se non avesse saputo che era impossibile, avrebbe detto che era sul punto di piangere.

Lasciò andare Sherlock e lasciò che questi si tirasse su a sedere. Aveva le guance rosse per gli schiaffi, ma non proferiva parola.

-Beh, che c’è, hai perso la lingua? - sbottò John.

-Io... John... Mi dispiace... -

-Ti dispiace? Vorrei vedere! Tre anni, Sherlock, tre maledettissimi anni! Sono andato a far visita alla tua tomba praticamente ogni giorno! Ti ho visto morire! -

-Come tutti, ma era necessario... -

-Necessario?!? TU NON SAI COSA MI E’ TOCCATO SOPPORTARE!!!! -

A quel punto fu John a cominciare a piangere, non voleva, ma non poteva trattenersi. Si diede mentalmente dello sciocco emotivo, ma non poteva non piangere.

Diede la colpa a sé stesso, a Sherlock, al dolore per la sua morte...

Stava sfogando tutto quello che aveva trattenuto per tre anni.

-Io... io... Sherlock... Ah, al diavolo! - Provò ad asciugarsi gli occhi con una manica del maglione, ma con scarsi risultati.

-John, va tutto bene, è tutto a posto. Sono tornato per restare... - mormorò il detective, posandogli una mano sulla spalla.

Ma John lo allontanò con rabbia: - Si può sapere dove diavolo sei stato tutto questo tempo, allora? -

-Lontano dall’Inghilterra. -

-E dove? -

-Dove non potevano trovarmi. -

-Chi? -

-Ti metterei in pericolo dicendotelo, non posso correre questo rischio. Sanno che sono qui, e faranno di tutto per farmi fuori. -

-Per l’amor del cielo, vuoi spiegarmi?!? -

-Vorrei John, lo vorrei tanto. Il problema è che... Lo spettro di Moriarty non è ancora svanito dalle nostre vite, e finchè non sarò certo sul da farsi devi restare all’oscuro di tutto. Ho già corso un grosso rischio venendo a trovarti al cimitero... temevo di venire scoperto. -

Nell’udire il nome di Moriarty John ebbe un sussulto: - Cosa, ancora lui? -

-Ti prego, John. Fallo per me, fai finta di non avermi visto. Presto mi farò vivo io, ma ti scongiuro, fino ad allora resta al sicuro. -

Ancora più confuso di prima, il povero dottore scosse la testa: - Dove pensi di andare? -

-In un nascondiglio sicuro, dove spero che non mi trovino, qui a Londra. John, credimi... -

Gli occhi azzurri di Sherlock si velarono di tristezza: - Non avevo scelta se non di fingere la mia morte. Non solo tu, ma tutte le persone intorno a me, la signora Hudson, Lestrade, persino Molly... Tutti eravate in pericolo a causa mia. Se non mi fossi ucciso, gli uomini di Moriarty avrebbero ucciso voi. L’ho fatto per proteggervi. Posso dirti solo questo, John. -

Si alzò e prese da dietro la poltrona una maschera coi tratti di Sam Hosk e una parrucca grigia: - Ho migliorato notevolmente le mie abilità nel travestimento, è così che gli sono sfuggito finora. -

-Sherlock... - John voleva scusarsi di averlo colpito, ma come se l’altro gli avesse letto nel pensiero ebbe immediatamente una risposta: - Mi aspettavo una reazione del genere, amico mio. E’ perfettamente normale che tu ce l’abbia a morte con me. Non mi aspetto il tuo perdono. -

Si rimise trucco e parrucco e si girò verso John: - Adesso vado. Ma sta tranquillo, presto finirà tutto per il meglio, e potrò tornare fra voi. -

Stava per uscire, quando il dottore lo bloccò: - Come hai fatto? A fingere il tuo suicidio... -

Sherlock si voltò: - Un’amica... Mi ha dato una mano, ecco. -

-Chi? -

Lui non rispose, e scese le scale a passo svelto, incrociando la signora Hudson che invece saliva:

-John, ho sentito delle urla, cos’è successo? -

Non se la sentiva di dire la verità alla povera donna, così buttò lì: - Oh, niente, solo... Un piccolo screzio, signora Hudson, ma abbiamo... sì, risolto, in parte... -

Improvvisamente avvertì un languore che prima non aveva, e una volta che la buona padrona di casa se ne fu andata, attaccò con maggior appetito la sua colazione.

Aveva sognato?

No, era tutto vero.

E poi, non si può prendere a pugni i fantasmi, no?

 

Quel pomeriggio trascorse veloce, e la sera arrivò senza che John se ne rendesse conto. Aveva passeggiato tutto il giorno senza mai fermarsi, e senza avvertire dolore alla gamba, nonostante sentisse di avere ancora bisogno del bastone.

Sapeva che cos’era: la felicità per il ritorno di Sherlock.

Ma non l’avrebbe mai ammesso.

No, perchè era anche furioso con lui: perchè tutti quei misteri? Era suo amico, no? E allora perchè non gli aveva detto come stavano le cose?

E chi era l’amica alla quale aveva accennato?

In testa gli frullavano centinaia di pensieri e congetture, e camminò fino a trovarsi di fronte ad un ristorante che conosceva bene.

Fissò la vetrina: fu lì che cenarono assieme la prima volta.

Fu lì che li scambiarono per una coppia la prima volta.

Sorrise ripensando a come il gestore, nonostante le sue proteste, avesse piazzato una candela in mezzo al tavolo per “creare l’atmosfera”.

Era da quel giorno che non ci passava più davanti.

Riprese a camminare, e tornò a Baker Street.

-Signora Hudson? - chiamò, senza ottenere risposta.

Salì al piano di sopra e si bloccò: una musica di violino proveniva dall’appartamento. Era lenta, un po’ malinconica, molto intensa.

Conosceva una sola persona che suonava così.

La padrona di casa sbucò dalla sua porta: - John, caro, che succede? -

Senza risponderle, il dottore si precipitò di sopra e spalancò la porta dell’appartamento: lui era di nuovo lì, di fronte alla finestra, avvolto nella sua solita vestaglia, a suonare il suo strumento, che John aveva accuratamente riposto in un armadio perchè non prendesse polvere.

-Quanto mi mancava tutto questo, John... - mormorò il detective, in tono allegro.

Il dottore dovette ammettere con se stesso che anche a lui quella scena mancava molto.

La signora Hudson entrò dietro a John, e quest’ultimo temette che avrebbe potuto ricevere uno shock, ma invece Sherlock le si rivolse con confidenza: - Ah, mia cara signora, potrebbe portarci per favore del the appena fatto? Devo parlare a lungo con John. -

-Certo, con piacere, caro - rispose lei, e con un sorriso li lasciò soli.

-Ma... la signora... -

-Sapeva che ero vivo, lo ha scoperto subito dopo che eri uscito, John. Mi sono presentato a lei come Sam Hosk, dicendole che Sherlock Holmes era vivo e che presto sarebbe tornato, e da circa un’ora io sono qui, dopo essermi sorbito le effusioni della nostra cara padrona di casa, felicissima di rivedermi, ad attenderti. -

-Di cosa vuoi parlare? - John si stupì della sua stessa freddezza. Una volta pensava che se Sherlock gli si fosse ripresentato davanti probabilmente lo avrebbe accolto a braccia aperte, ma vuoi per il tempo che ci aveva messo a tornare, vuoi per il suo affetto ferito, non riusciva ad essere spontaneo come voleva.

Sherlock se ne accorse, ma non disse niente, e si limitò ad accennargli di sedersi in poltrona.

Una volta comodi, iniziò a raccontare: - Non è stato facile simulare il mio suicidio. Devo dire che Molly ha avuto un ruolo decisivo nella riuscita del mio piano. -

-Molly? -

-Mi ha dato un aiuto non indifferente. Sapevo che Moriarty mi voleva morto, e sapevo anche che era pronto a tutto pur di non darmela vinta. -

-Quindi? -

-Semplice: prima di affrontare Jim ho... preso in prestito un corpo dall’obitorio. -

-Cosa? Vorresti dirmi che per tre anni ho portato i fiori sulla tomba di uno sconosciuto? -

-Non è uno sconosciuto. Si chiamava Lester Thomas, più o meno della mia età e fisionomia, al quale ho semplicemente applicato una parrucca. -

-Ma... stava in piedi, un cadavere non può... -

-Un sistema abbastanza complesso di fili. Era praticamente una marionetta. Mi ero nascosto alla tua vista proprio dietro il cornicione. -

-Mi hai ingannato... - John sibilò quelle parole con amarezza.

-Ho dovuto farlo. Dopo la morte del loro capo, gli uomini di Moriarty hanno scoperto che ero ancora vivo, e sono dovuto fuggire da Londra alla svelta. -

-E Mycroft ti ha dato una mano, vero? -

-Neanche lui sapeva che ero vivo. Ho sfruttato le mie conoscenze e sono uscito dal Paese senza farmi catturare da loro. Ora ne è rimasto soltanto uno, pericoloso e spietato, che mi ha seguito fino a qui. -

-Chi? -

-Il colonnello Sebastian Moran. -

John sussultò: conosceva quel nome. Moran era un famoso cecchino, decorato con due medaglie al valore ma poi congedato con disonore per aver colpito per errore un commilitone durante una missione. Evidentemente quell’esperienza lo aveva avvicinato al crimine.

Sherlock continuò: - Era il braccio destro di Moriarty, il suo fidato socio e killer professionista. Molti sono caduti sotto il suo mirino. E adesso vuole vendicare il suo capo. -

-Cosa vuoi fare, allora? -

-Trasformare questo predatore nella mia preda. Arrestarlo e consegnarlo alla giustizia. Per questo fra poco Lestrade dovrebbe essere qui. -

-Hai invitato Lestrade? -

-Con la mia identità falsa, ovviamente. Gli ho offerto un consulto per l’omicidio sul quale sta indagando, opera ovviamente di Moran. -

-Cosa, è stato lui? -

-Dovrò dare spiegazioni anche a Lestrade. -

-E perchè gli hai detto di venire qui? -

-Perchè gli ho accennato alla tua collaborazione. -

-No. -

-Come? -

-Mi rifiuto di farmi coinvolgere in questa storia. -

Il campanello suonò con fragore.

-Troppo tardi, John, ormai ci sei dentro fino al collo. -

-Non riuscirai a convincermi, stavolta. I tempi in cui ti seguivo come un cagnolino sono finiti! -

Aveva detto le ultime parole con un disprezzo del quale non si riteneva capace.

Sherlock accavallò le gambe e posò le mani in grembo con una strana espressione: - So che ce l’hai con me, John, e che forse non mi perdonerai mai per essermi finto morto ed essere sparito. -

-Potevi almeno avvisarmi, in qualche modo. -

-Mi avrebbero trovato. E avrei messo nei guai anche te. -

Prima che il dottore potesse replicare, sulla porta comparve Lestrade: - Signor Hosk, è... -

Si ammutolì nel vedere Sherlock di fronte a sé, che sorrise e lo accolse: - Gregory Lestrade, è un piacere averti qui. -

Il povero ispettore sbiancò e si appoggiò allo stipite.



 

Dopo aver preso qualcosa di un po’ più forte del the, Lestrade venne messo a parte di ciò che Sherlock aveva raccontato a John poco prima, di Moran, del finto suicidio e tutto il resto.

L’ispettore ascoltò con attenzione, fino a che, tranquillizzato dallo sherry offertogli dalla signora Hudson e dalle parole del detective, domandò: - E quali sono le tue intenzioni? -

-Prendere in trappola Moran. Domani annunceremo a tutti il mio ritorno tramite i giornali. -

-Sicuro di volerlo fare? - intervenì John, - Dopotutto sono stati loro a screditarti. -

-A quello penseremo dopo. Dobbiamo farlo per permettere a Sebastian Moran di sapere con certezza che sono tornato qui a Baker Street. -

-Tenterà di ucciderti... - puntualizzò Lestrade.

-A questo ho già pensato io. E’ un vecchio stratagemma che spero funzioni e tragga il nostro uomo in inganno fino al momento più opportuno. Per questo ho bisogno di voi. Siete gli unici di cui mi fido. -

-Va bene, Sherlock, io ci sto - affermò Lestrade.

John non diceva niente. Voleva aiutare il detective, ma qualcosa lo bloccava. Forse il suo orgoglio?

Passò qualche minuto di silenzio, poi disse: - Che dobbiamo fare? -

 

Il giorno dopo c’era una folla numerosa di fronte al 221B. Tutti giornalisti in attesa di qualcosa.

La porta dell’edificio si aprì, e Sherlock Holmes si trovò sommerso di flash di macchine fotografiche e di domande di quegli avvoltoi affamati di sapere, domande su cosa gli fosse successo, dove fosse stato...

John osservava la scena dall’alto, dalla finestra che dava sulla strada. Aveva preferito non farsi coinvolgere in quella conferenza stampa improvvisata.

Camminò con passo lento verso Mycroft, seduto in una delle poltrone, che armeggiava distrattamente con il manico del suo inseparabile ombrello.

-Come ti sei sentito al suo ritorno? - gli chiese il dottore.

-Scosso. Ti confesso, John, che nonostante conosca bene mio fratello persino io avevo creduto alla sua morte. Vedermelo riapparire sulla porta di casa così, dal nulla, è stato uno shock. -

-Capisco. - Non diede a vedere il fatto che la calma flemmatica del più anziano dei fratelli Holmes gli avesse dato fastidio.

-E tu invece? Come ti sei sentito? -

John non voleva rispondergli, così dopo una breve pausa cambiò discorso: - Credi che il suo piano funzionerà? -

-Lo spero. Dormiremo tutti sonni più tranquilli dopo, non credi? -

-Sì, lo credo. -

Sherlock tornò al piano di sopra con l’aria alterata: - Odio quando i giornalisti insinuano certe cose. Ma ciò che ho detto sarà sufficiente affinchè tutto vada come previsto. -

-Cosa? Che insinuano? - chiese John, allarmato.

-Le solite cose, non farci caso. Piuttosto, è tutto pronto, Mycroft? -

-Quasi, mancano gli ultimi ritocchi. -

-Bene. Signori, io mi congedo per tornare al mio rifugio. John, mi raccomando, qualunque cosa accada... -

-Stai lontano dalle finestre, non andare in giro da solo... Ho capito tutto. -

-Va bene, allora... Tornerò presto a farmi vivo quando tutto sarà al suo posto, e darò le dovute disposizioni. -

Andò via così come era entrato, lasciando il fratello e il dottore di nuovo soli.

Mycroft guardò l’orologio: - Io dovrei andare... -

-D’accordo - sbottò John senza neanche farlo finire.


John passò i due giorni che seguirono in casa. Si era reso conto di essersi lasciato un po’ andare in quei tre anni, e che il suo senso dell’ordine era calato notevolmente. Così si rimboccò le maniche e iniziò a rassettare la sua camera.

Mentre, il secondo pomeriggio, stava radunando le sue camicie finite ammucchiate su una sedia, si fermò e si rese conto che si stava comportando in modo diverso.

In quei tre anni era sempre abbattuto, svolgeva le sue attività quotidiane, anche le più insignificanti, di malavoglia, era sempre di cattivo umore...

Da quando era tornato Sherlock gli era tornata la voglia di fare, di muoversi... Ma sentiva una qual certa freddezza da parte sua nei confronti del detective.

Dettata forse... Non era proprio odio, era...

Un bussare sommesso alla sua porta lo scosse dai suoi pensieri: - Avanti! - disse in modo automatico.

Fu sorpreso di vedere Sherlock con in mano un piccolo pacchetto. Si voltò, per non guardarlo in faccia.

-Uhm, John... -

-Cosa c’è? -

Di nuovo quella freddezza che non era propria del suo carattere.

Sherlock gli si avvicinò di qualche passo: - Sai, per tutto questo tempo ho viaggiato molto... E, ecco... Forse non era il caso, ma ti ho preso questo, in Tibet... -

John si bloccò: - Mi hai... portato un souvenir? - Sentiva che gli stava tornando la rabbia, ma prima che potesse dirgli qualcosa, il detective si affrettò: - Te lo lascio qui sul letto, devo scappare... - e quando il dottore si voltò, l’altro era già sparito.

Gli cadde lo sguardo sul pacchetto: era piccolo, quadrato, avvolto in una carta velina verde smeraldo e legato con dello spago. C’era un bigliettino bianco e rettangolare attaccato.

John continuò a fissarlo per un po’, poi si decise, lo prese e senza neanche aprirlo lo gettò in un cassetto.

 

Il giorno dopo il dottore ricevette un messaggio sul cellulare. Sherlock. In parte si rallegrò di non aver cambiato numero e che entrambi avessero conservato quello dell’altro, ma si irritò istintivamente poiché sapeva che con tutta probabilità voleva dargli degli ordini.

Invece lesse queste poche righe: “Ho bisogno di parlarti. SH”

Gli inviò la sua risposta: “Di che cosa? JW”

“Vieni al Saint Bart alle 15 e ti spiego. SH”

John si trovò all’ingresso dell’ospedale all’ora stabilita. Aspettò qualche minuto, finchè il cellulare non squillò. Era di nuovo Sherlock.

-Pronto? -

-John, dove sei? - La voce del detective sembrava preoccupata.

-Davanti al Saint Bart- -

-Va’ dentro l’edificio, è una trappola!!! -

Sherlock non aveva finito di dirlo che qualcosa sibilò a tutta velocità vicinissimo all’orecchio di John, per poi conficcarsi in un lato della porta dell’ospedale. Il dottore si scansò d’istinto, riconoscendo l’oggetto misterioso: un proiettile. Un proiettile da cecchino.

-John! John! - continuava a gridare Sherlock dall’altro capo del telefono.

Il dottore schizzò dentro l’ingresso principale, dimenticandosi del dolore alla gamba, e continuò a correre per il lungo corridoio fino al centro della sala d’aspetto. Si fermò solo allora, piegandosi con le mani appoggiate sulle ginocchia.

-John! Stai bene?!? -

John, ansimante per la corsa e lo spavento, riprese il telefono: - Sto bene... Sherlock, non ti preoccupare... -

-Sei ferito? -

-No. -

-Resta dove sei, io e Lestrade veniamo a prenderti subito! -

 

In breve l’ospedale fu circondato dai poliziotti. John venne scortato fuori dall’edificio fino a una macchina d’ordinanza, al cui interno c’era Sherlock, di nuovo padrone di sé.

Rimasero qualche minuto in silenzio. Poi il detective esordì: - Non mi aspettavo una mossa del genere da Sebastian Moran. Jim gli ha insegnato bene. -

-E’ stato Moran? -

-Ha clonato il mio numero e ti ha teso un’imboscata. Grazie al cielo sono andato a Baker Street e la signora Hudson mi ha detto che eri uscito, o... -

-Davvero non te l’aspettavi? -

Sherlock abbassò lo sguardo: - Non così presto, diciamo. Sapevo che avrebbe provato a farti del male per arrivare a me, ma è stato impulsivo. -

-Tu dici? A me sembrava tutto calcolato. -

Il detective prese il cellulare da una tasca del cappotto: - So dove si trova. Avendo usato il mio numero, si è tradito. Ora posso stendere la mia tela per prendere la nostra mosca in trappola. E giusto in tempo. -

Rimasero in silenzio per un po’, poi Sherlock, dopo aver mandato un messaggio, iniziò a parlare di nuovo: - Non hai aperto il pacchetto, vero? -

-No. -

Seguì un altro lungo silenzio fino a Baker Street. John scese dall’auto senza neanche salutare l’altro e si avviò su, verso l’appartamento. Voleva solo dimenticare il fatto di essere stato quasi ammazzato come se fosse ancora in Afghanistan.

Trovò la signora Hudson intenta ad armeggiare con qualcosa alla finestra.

-Signora, va tutto bene? -

La padrona di casa si scostò, lasciando intravedere un manichino di cera. La cosa insolita era la somiglianza straordinaria e molto inquietante con Sherlock.

Quest’ultimo apparve poco dopo alle spalle di John: - Non mi hai lasciato il tempo di dirtelo: il mio piano prevede l’utilizzo di un pupazzo di cera per ingannare Moran. - Si avvicinò al falso e lo squadrò, per poi esclamare: - Ah, che roba! Non gli hanno fatto il naso giusto! -

John osservò i due volti: - A me sembrate identici... -

-C’è una differenza di cinque millimetri fa i nostri setti nasali; ma va bene così, l’importante è che inganni il nostro cecchino. -

John trattenne una risata: ammise che in fondo gli mancava la pignoleria del suo amico.

Il detective si rivolse alla signora Hudson: - Ha capito cosa deve fare, signora? -

Lei annuì: - Devo cambiare posa al manichino a partire da domani mattina presto ogni dieci minuti senza farmi vedere dalla finestra. -

-Perfetto. - Tornò a parlare con John: - Ho fatto in modo di far sapere a Moran che mi sono reinsediato a Baker Street. Domani usciremo di nascosto dall’appartamento e gli tenderemo un agguato assieme a Lestrade, al suo punto strategico. -

-Come fai a sapere quale sia il suo punto strategico? -

-Ho perlustrato il quartiere da cima a fondo per cercare il posto più probabile dal quale un cecchino dalla mira praticamente infallibile possa sparare un colpo alla testa di un uomo uccidendolo all’istante. Però, John... - All’improvviso Sherlock si ammutolì.

-Che cosa c’è? - Il dottore corrugò la fronte, sorpreso dallo strano atteggiamento dell’altro.

-Signora Hudson, può lasciarci soli, per cortesia? -

La buona signora si congedò con un sorriso, e Sherlock aspettò qualche minuto prima di parlare di nuovo: - Ecco... Avrei bisogno di dormire qui, stanotte. -

John sgranò gli occhi: era tutto lì?

Quello che lo sorprese ancora di più era il tono praticamente implorante del detective.

-Si può sapere che ti è successo in questi tre anni? - sbottò.

-Che intendi dire? -

-Sei... Diverso, Sherlock. Non sembri più tu, ti sei... -

-Rammollito? -

-Stavo per dire ammorbidito. -

-Come ti ho già detto, sono stato in Tibet. E in tanti altri posti a dire il vero. Ma in quel paese in particolare ho avuto modo di trovare un po’ di serenità nella meditazione in un tempio buddhista, e questo mi ha reso più... Come dire... tranquillo. Sono guarito dal vizio del fumo, e i miei attacchi di nervi sono diminuiti. -

-Non è solo quello. C’è qualcos’altro che non dici ma che si vede nel tuo atteggiamento. -

Sherlock sospirò e lasciò passare qualche secondo prima di rispondere: - Vorrei raccontarti tutto, John, ma per quello avremo tempo dopo la cattura di Moran. Ora è la tua sicurezza e quella di tutte le persone che conosco la cosa che mi preme di più. Mi capisci? -

Il dottore fece per dire qualcosa, ma si rassegnò: - Va bene, ho capito. E comunque è ovvio che puoi dormire qui stanotte. La tua stanza è rimasta la stessa, perciò... -

Sherlock sorrise: - Grazie, John. -

 

Più tardi quella sera, John si era ritirato nella sua stanza molto presto. Non aveva sonno, e tendeva l’orecchio per captare i movimenti nella stanza accanto.

Movimenti che per troppo tempo, ammise, gli erano mancati: i passi di Sherlock su e giù per la stanza, i suoi borbottii sommessi...

Si ricordò allora del pacchetto verde. Tornò al cassetto dove lo aveva buttato e lo aprì. Fissò l’oggetto per un po’ prima di prenderlo e leggere il bigliettino, scritto con una grafia minuta e precisa: “A John: nella tradizione asiatica, questo è un simbolo di buona fortuna. Spero che ne porti a te così come me ne ha portata a me fino ad ora permettendomi di tornare. SH.”

Incuriosito, sciolse lo spago, scartò la carta verde e aprì le alette di cartone. Prese in mano un grazioso panda di porcellana, rifinito con grande cura e dal musetto simpatico.

“Un panda? Sul serio?” Gli scappò da ridere: di certo Sherlock non era il tipo abituato a fare regali, ma apprezzò il pensiero. Posò il panda sul ripiano della cassettiera. Poi notò un foglietto in fondo alla scatola di cartone, di color giallo ocra, tipo una pergamena.

Lo prese e vide che vi era raffigurato un dragone rosso di finissima fattura, disegnato sempre nello stesso tratto minuto del biglietto.

Perplesso, lo posò accanto alla statuina con delicatezza, chiedendosi se fosse opera di Sherlock o se fosse un altro souvenir.


La mattina seguente John fu svegliato bruscamente da Sherlock, che lo scuoteva per le spalle, vestito già di tutto punto: -John? John! -

-Cosa? Che? -

-E’ ora, dobbiamo muoverci. -

John guardò l’orologio: - Ma sei impazzito? Sono le sei! -

-Non possiamo perdere tempo, John, cambiati in fretta e seguimi. -

Il povero e assonnato dottore non potè che ubbidire, e in meno di dieci minuti era pronto. Raggiunse Sherlock in salotto, dove stava aspettando anche Lestrade.

-Signori, dobbiamo essere discreti quando usciremo da questo edificio - annunciò il detective, - e vi chiedo la massima pazienza da parte vostra. Probabilmente la nostra preda arriverà col favore del buio, ma noi saremo lì ad aspettarlo. -

-E allora perchè mi hai fatto alzare a quest’ora? - brontolò John esasperato.

-Dobbiamo fare un sopralluogo, mi pare ovvio, e trovare il posto più adatto a nascondere un ispettore, un detective e un dottore. -

-Mi sembra una barzelletta... - commentò Lestrade senza emozione.

-Vedrà, ispettore, non riderà quando ci troveremo Moran davanti. È assetato di vendetta, e proverà in tutti i modi a opporre resistenza. Siate pronti al peggio. -

 

Una volta usciti dal retro, Lestrade fece notare a John che non aveva portato il bastone con sé.

-Ah, sì... - mormorò il dottore, - diciamo che la gamba fa meno male. -

Sapeva che non era per quello. Ma sapeva anche che Lestrade l’avrebbe presa per buona.

Così camminarono in silenzio fino ad un edificio disabitato e un po’ malridotto, a circa 300 metri dal 221B. La porta era aperta, così entrarono e Sherlock li condusse con passo sicuro verso i piani alti. Si fermarono al secondo piano, in una stanza polverosa e col soffitto ammuffito. Una sola grande finestra illuminava l’ambiente spoglio.

-Come fai ad essere certo che Moran verrà qui? - chiese Lestrade, scettico.

-Le impronte che avete così maldestramente calpestato appartengono a un uomo che porta stivali militari numero 43, che fuma sigarette fatte a mano e ha il passo piuttosto deciso, e trasportava qualcosa di pesante, un fucile ad alta precisione per l’esattezza. E’ già stato qui, a fare quel che stiamo facendo noi. E vedete la finestra? È perfettamente in linea obliqua con quella del nostro appartamento, e riesco a vedere chiaramente il manichino che mi raffigura. -

-Perchè pensi che agirà durante le ore buie? - chiese John.

-Durante il giorno la strada è troppo affollata, si farebbe notare. La notte è tutto molto più tranquillo, terribilmente e noiosamente tranquillo, perciò avrebbe tutto il tempo di organizzare il suo agguato. Ma ora noi dobbiamo giocare d’anticipo, preparargli un’imboscata e... -

-E dove ci dovremmo nascondere? Nella stanza non c’è neanche un armadio. -

All’obiezione del dottore Sherlock sorrise e si avvicinò alla parete laterale di destra, spinse un punto su di essa e apparve una porta nascosta, alta poco più di un metro e venti.

-Che diavolo è? - si stupì Lestrade.

-Una porta comunicante, probabilmente ideata dagli ultimi proprietari dell’appartamento. Molto comoda, se si vuole nascondersi. Seguitemi. - Si infilò nel vano chinandosi con uno sbuffo, e dietro di lui John e Lestrade. I tre sbucarono in una stanza in condizioni ancora peggiori della prima, dove l’aria era irrespirabile e l’unica finestra aveva i vetri rotti e crepati.

John tossì: - Ma che cos’è... Questo odore nauseabondo? -

-Un topo morto, molto probabilmente... - rispose Lestrade.

-Non è un topo, è un gufo - precisò Sherlock, indicando un angolo della stanza dove giaceva un mucchio scomposto di piume marroncine.

-Che schifo... - si lamentò il dottore.

Sherlock, senza scomporsi, si avvicinò all’uccello morto e lo esaminò: - Morte naturale, non ci sono sangue o ferite... Direi che è qui da almeno una settimana, dieci giorni al massimo... -

-Mi ero dimenticato di quanto tu fossi inquietante... - commentò l’ispettore, - Al pensiero che dobbiamo passare qui la notte ho il mal di stomaco. -

 

Passarono almeno un’ora a scegliere la strategia giusta da adottare. Stabilirono infine che sarebbero tornati lì poco prima di sera, e che si sarebbero dati il cambio ogni due ore per sorvegliare la stanza nella quale si sarebbe appostato Moran.

Si congedarono sul retro del vecchio edificio, lasciando che Lestrade tornasse al suo lavoro.

-Cosa vuoi fare, John? - domandò il detective.

-In che senso? -

-Abbiamo tutto il giorno e il pomeriggio. Se vuoi... ecco, potremmo fare una passeggiata come i vecchi tempi... -

John notò il tono incerto dell’altro, ma si limitò a rispondere: - Perchè no? Basta che non diventi un bersaglio mobile un’altra volta. -

-Non credo. Moran non agirà fino a stasera. Se consideriamo i fatti dal suo punto di vista tu sei un elemento secondario nel suo piano. In questo momento sta preparandosi per quello che crede essere il gran finale, come una tigre che affila gli artigli in attesa della sua prossima vittima. -

-Mi spieghi come mai vuole vendicare Moriarty così disperatamente? -

-Ecco... So che erano amici, oltre che “colleghi”. -

-Come noi? -

-Una specie. Ma noi siamo i buoni. -

Sherlok prese un paio di occhiali scuri, un berretto e dei baffi finti dalla tasca del cappotto e si mascherò: - E’ giusto per precauzione. Andiamo a fare colazione da Speedy’s? -

 

 

Il tempo trascorse in fretta. John sentiva che il risentimento (aveva trovato il modo di definirlo) che provava nei confronti del detective si stava attenuando.

Sherlock gli raccontò dei posti nel quale era stato: Cina, Tibet, Russia e addirittura l’India. Gli accennò degli splendidi templi dedicati a Buddha, ai monumenti e ai luoghi di culto orientali, le tradizioni e le usanze.

John si limitò a raccontargli che per tre anni aveva esercitato la professione di medico privato, che era rimasto a Baker Street perchè non se l’era sentita di andarsene etc.

Così arrivò presto il tramonto. Stavano passeggiando sul ponte di Londra, quando il cellulare di Sherlock squillò. Era Lestrade.

-Pronto? -

-E’ quasi ora, Sherlock. Vi aspetto a Baker Street? -

-Sì, ispettore, arriviamo subito. - Buttò giù e si rivolse a John: - Prendiamo un taxi e torniamo indietro, sta arrivando il momento. -

Una volta trovato un cab, Sherlock si tolse gli occhiali e si massaggiò le tempie: - Deve funzionare, altrimenti questo incubo non avrà mai fine. -

John notò la sua preoccupazione, e cercò di dire qualcosa: - Sherlock... Vedrai che ci riusciremo... -

Un terzo passeggero, una donna anziana piuttosto corpulenta, venne caricata nel taxi, spingendo John praticamente addosso al detective. I due, così appiccicati, cercarono di assestarsi in modo da poter stare comodi, ma fu tutto inutile.

-Inizio ad avere i crampi... - si lamentò John.

-Resisti, fra poco scendiamo... Aspetta, ho un’idea... -

Sherlock fece scivolare un braccio attorno alle spalle di John, e lo tirò a sé.

Il povero dottore si sentì tremendamente in imbarazzo, ma dovette arrendersi all’evidenza che così stava un pochino più comodo.

Il tragitto, che sembrava interminabile, finalmente terminò al 221B. I due scesero di corsa dal taxi ed entrarono nell’ingresso, dove li attendeva Lestrade.

Quest’ultimo li guardò sorpreso: - Avete un aspetto terribile, che vi è successo? -

-E’ successo che è vero che i casi di obesità in questo Paese sono in aumento... - brontolò il detective.

-Che cosa? -

-Lasciamo perdere... - bofonchiò John, - allora, è tutto pronto? -

-I miei uomini sono appostati in punti strategici come stabilito. -

Sherlock si fregò le mani: - Allora muoviamoci. Signora Hudson? -

La donna apparve dal piano di sopra.

-E’ pronta, signora? -

-Sì, credo di sì. -

-Bene. Andiamo. -

 

Lestrade fornì a John un manganello d’ordinanza. I tre si appostarono poi nella stanzetta maleodorante. Anche se il gufo morto era stato rimosso, l’aria era permeata della puzza, anche se meno acuta.

Le prime due ore a fare da vedetta toccarono a Sherlock. Lestrade aveva portato un mazzo di carte per passare il tempo, così lui e John iniziarono a giocare a poker mentre i minuti passavano.

Si susseguirono i turni di John, di Lestrade, poi ancora di Sherlock. Arrivarono così fino a mezzanotte, ma ancora Moran non si era fatto vedere. Baker Street intanto era andata man mano ad addormentarsi, e in quel momento si sarebbe potuta sentir volare una mosca dal silenzio che c’era.

-Rassegniamoci, ci ha fregati... - borbottò l’ispettore.

-Verrà. Deve venire. - rispose secco Sherlock.

Il Big Ben suonò la mezz’ora. John si era addormentato, così non si rese subito conto dei movimenti concitati attorno a sé.

Fu il detective a scuoterlo e svegliarlo, parlando a voce bassa: - John? John! -

-Che c’è? -

-E’ il momento. -

Lestrade osservava da una fessura della porta la stanza accanto, e con un gesto della mano avvisò i compagni che c’era qualcuno dall’altra parte.

John e Sherlock si avvicinarono con cautela, senza fare rumore. Il dottore vide la figura di un uomo alto e robusto che si stagliava contro la luce del lampione fuori della finestra.

Distinse poi anche l’ombra di un oggetto sottile con il fondo che si allargava, e ne riconobbe il suono metallico mentre lo sconosciuto lo montava: un fucile da cecchino. Lo montò in fretta e con grande precisione, con quel tocco che solo un professionista può avere. Lo stava calibrando, con la canna puntata verso il 221B. John ebbe paura per la signora Hudson: cosa sarebbe successo se il manichino non avesse ingannato l’assassino?

Stava per dire qualcosa, ma Sherlock gli tappò la bocca con una mano e gli fece cenno di non fiatare. Lestrade armò la sua pistola il più silenziosamente possibile, ma qualcosa andò storto: la figura scura si bloccò, allarmata.

-ADESSO!!! - gridò Sherlock, balzando fuori dalla porticina e scagliandosi sull’uomo per bloccarlo.

Quest’ultimo si agitò, colto alla sprovvista, e diede un poderoso gancio destro al viso del detective, buttandolo a terra. Intervenì Lestrade, puntandogli la pistola contro, ma l’uomo diede un poderoso calcio alla mano dell’ispettore e scaraventò l’arma lontano. Sherlock allora si rialzò e tentò ancora di bloccarlo, e stavolta John fu pronto a colpire con il manganello, prendendo in pieno lo sconosciuto sulla testa. L’uomo cadde a terra, e Lestrade fu pronto a mettergli le manette.

-Qualcuno accenda la luce! - gridò Sherlock, dopo aver aperto la finestra per attirare l’attenzione degli agenti di Lestrade.

Fu come un flash improvviso, che confuse tutti per qualche secondo. Nel frattempo arrivarono i poliziotti.

Quando John si fu abituato alla luce, in realtà non molto potente, vide che aveva steso un uomo dai capelli biondo scuro, ora percorsi da un rivoletto di sangue che scorreva dal punto nel quale lo aveva colpito, dal taglio militare. Era un tipo robusto, alto più o meno come Sherlock, e quando alzò la testa vide due freddi occhi azzurri che lo fissavano con odio e rabbia.

-Sebastian Moran... - mormorò Sherlock, con una punta di soddisfazione che non sfuggì al dottore.

-Detective... - rispose ironicamente il cecchino.

-Hai finito di commettere crimini. E stavolta per sempre. -

Il tono freddo del detective era percorso da una sfumatura di disprezzo.

-Portatelo via - ordinò Lestrade ai suoi uomini.

Mentre lo facevano alzare, Moran proruppe in una risata amara, rivolto a John: - Dimmi, dottore: tu cosa faresti se non avessi più nulla da perdere? -

-Che cosa? -

Sorridendo in modo sinistro, Moran fu portato via. Perplesso, John si rivolse allora a Sherlock: - Ma che cosa intendeva? -

-Vendetta, John. A quanto pare il legame fra Moriarty e Moran era più saldo di quello che credevo. -


 

Scesero in strada per seguire Lestrade e dare la loro deposizione su ciò che era accaduto.

-Preparatevi ad essere sommersi dai giornalisti, domani, ragazzi... - commentò quest’ultimo,

-Moran dovrà essere processato e condannato. Sarà facile senza la protezione del suo capo. -

-Vedremo, Lestrade, vedremo... - rispose Sherlock.

John si era messo in disparte, appoggiato al muro del 221B.

Osservava il detective parlare con l’ispettore, e una domanda gli sorse spontanea: e adesso?

Sherlock gli si avvicinò: - Beh, è finita. Non sei più un bersaglio John, e Moran finirà presto in prigione. Vincono tutti. -

Quelle ultime due parole erano velate d’amarezza, e il dottore se ne accorse. Così si affrettò a dire:

-Cosa farai adesso, Sherlock? -

-Credo che riprenderò il mio lavoro. -

-Da solo? -

Sherlock si lasciò sfuggire un sorriso strano: - Direi di sì. -

-Perchè? -

-Mi pare ovvio. Ti ho già fatto stare male abbastanza John, e il tuo comportamento mi ha fatto capire che la mia presenza ti da fastidio. -

Fastidio? John era sorpreso oltre ogni dire.

Il detective continuò: - Per questo lavorerò da solo d’ora in poi. Penso che troverò un altro posto dove stare, Baker Street non è più la mia casa ormai. Non ti disturberò più, John. -

Si voltò e accennò ad andarsene.

“Fermalo, idiota!” pensò il dottore, che lo richiamò indietro: - Sherlock? -

Lui si fermò.

-Senti... Perchè non rimani qui? Sarai stanco dopo tutte queste ore d’appostamento... -

L’invito suonava impacciato e insicuro, ma il detective si voltò e sorrise: - Volentieri... -

 

John non riusciva a chiudere occhio. Si rigirava nel letto, ma più cercava di prendere sonno meno ci riusciva. Sentiva che mancava qualcosa... Ma cosa?

Si alzò, pensando che un bicchiere d’acqua potesse servire, ma prima di arrivare in cucina si rese conto che Sherlock era rannicchiato su se stesso sulla sua poltrona.

-Anche tu... sveglio? - domandò il dottore.

-Mh-mh... -

-Vuoi... del the? -

-Grazie, sì... -

Ma John non si avviò a preparare il the. Rimase a fissare Sherlock, che non muoveva un muscolo e continuava a guardare fisso davanti a sé.

Alla fine il detective si decise a rompere il silenzio: - Vuoi dirmi qualcosa, John? -

-Sì... In effetti sì... -

Si accomodò sull’altra poltrona: - E’ il tuo atteggiamento che non mi convince. Che cos’hai? -

Sherlock abbassò il viso, nascondendolo sulle ginocchia. Sospirò profondamente prima di rispondere con un’altra domanda: - Tu mi odi, John? -

-Cosa? -

-So che fingermi morto ti ha fatto del male, sei il mio migliore amico e il nostro legame... E’ speciale. Perciò dimmelo chiaramente, John: tu mi odi? -

Il dottore non sapeva che rispondere. Passò un altro lungo momento di silenzio.

“Se ti odio? Cavolo sì! Quando sei morto tu, sono morto anch’io!” voleva rispondere, ma non se la sentiva. Lo vedeva che l’altro stava male per davvero, che gli dispiaceva.

Per cui si limitò ad un quasi sincero: - No. Non ti odio, Sherlock. Solo... Io... -

L’altro non accennava nessuna reazione, così il medico riprese il discorso: - Mi sono arrabbiato. Sono ancora furibondo con te... per avermi lasciato solo. -

Allora Sherlock alzò la testa: - Non volevo, John, e lo sai bene... -

-Fammi finire. Capisco che tu non abbia avuto scelta, quindi... credo... di poterti perdonare. -

-Sul serio? -

-Torna qui a Baker Street. Ricominciamo da dove eravamo rimasti, insomma... Come se fosse stato tutto solo un brutto sogno. Proviamoci almeno. A meno che tu non voglia tornare in quella baracca che tu stesso hai definito il tuo rifugio sicuro. Lo so perchè me l’ha raccontato Mycroft. Che mi dici? -

-Che ti dico? - Sherlock sorrise: - Che speravo tanto di sentirti dire queste esatte parole, John. -

  
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