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Autore: Framboise    19/09/2014    5 recensioni
Italia, anno domini 1381: Eufemia ha diciotto anni ed è figlia di un macellaio piuttosto importante nella Corporazione dei Beccai. Non è come la vorrebbe suo padre, remissiva e pronta ad un buon matrimonio, ma gestisce la bottega di famiglia con pugno di ferro, proprio come un uomo. Quando però arriva un matrimonio combinato ad intralciare i suoi piani, la ragazza non ha che una soluzione: fuggire, nonostante la guerra che da anni insanguina la sua città ed il Comune vicino sia appena ricominciata...
Genere: Avventura, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Medioevo
Capitoli:
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CAPITOLO 12:


Dopo aver sentito l’offerta del messaggero, tutti i comandanti sembrarono valutarla attentamente.
«Un aumento del trenta per cento...»
Queste parole si formavano sulle labbra di tutti i presenti, mormorate, soppesate con la fronte corrugata o sillabate lentamente, come per gustarne il sapore. Le implicazioni di una tale cifra subito si fecero strada nella mente di Eufemia: certo, una tale quantità di denaro era difficile da rifiutare, soprattutto considerando che la fiducia che gli uomini nutrivano nella città per cui combattevano era stata minata da ciò che il messo aveva detto loro prima che lei ed il capitano li raggiungessero.
“Non possono farlo... pensò istintivamente, poi però dovette ricredersi. I soldati come lei, che erano cittadini che si erano uniti volontariamente all’esercito, erano pochissimi. La maggior parte dei mercenari non avevano alcun legame con il Comune e non avrebbero esitato a passare dalla parte dei nemici appena questi avessero offerto loro abbastanza denaro. “Ma io? Come posso tradire la mia città? Ho promesso che avrei vinto questa guerra!”
La ragazza lanciò uno sguardo stralunato ad Agilulf. Quest’ultimo la guardò negli occhi a sua volta: il suo volto non tradì alcuna emozione, rimanendo impenetrabile, ma per un attimo la sua mascella parve irrigidirsi impercettibilmente.
«Propongo di discutere la proposta tra di noi, prima di dare una risposta definitiva» disse in quel momento, con voce ferma e sicura nonostante il dolore che gli procuravano le ferite, tradito solo dal sudore che gli imperlava il volto. «Penso che voi possiate capirmi: abbiamo bisogno di valutare attentamente la vostra offerta» proseguì poi, rivolgendosi al messaggero in tono cortese ma freddo.
L’uomo sembrò sul punto di ribattere, poi però parve decidere che non sarebbe stata  una mossa saggia ed accettò la sconfitta, replicando altrettanto educatamente: «Naturalmente. Comprendo che è una decisione che richiede un consulto. Prendetevi pure tutto il tempo di cui avete bisogno, vi attenderò fuori». Detto ciò, chinò leggermente la testa in segno di saluto ed uscì dalla tenda.
«Agilulf!» esclamò l’uomo dalla voce melliflua, non appena lo straniero non scomparve  dalla loro vista. «Perché gli hai chiesto di andarsene? Non credo che ci sia molto da decidere...»
«A me invece pare di sì. Se dobbiamo davvero voltare le spalle ad una città che ci ha chiesto il suo aiuto, trovo che sia una decisione che merita una discussione» replicò bruscamente il capitano, con un tono tagliente che fece ritrarre istintivamente il suo interlocutore. I mormorii degli altri comandanti erano improvvisamente svaniti, sostituiti da un silenzio carico di tensione.
«Andiamo, Agilulf...» intervenne un soldato robusto dal volto arrossato e glabro. «Non puoi prendere sul personale ogni cambiamento di fronte. Siamo mercenari! Combattiamo fino a quando ci pagano, ma se i soldi finiscono niente ci impedisce di andarcene, lo sai anche tu. Stando a ciò che ci ha detto quell’uomo, i soldi della città cominciano a scarseggiare...»
«Quelle di cui vi ha parlato sono soltanto delle voci, che potrebbero rivelarsi false, oppure sono menzogne che ci hanno propinato per indurci ad accettare l’accordo. Fino a quando non saranno confermate, è nostro dovere rimanere!» ribatté l’altro.
«Insomma, ragazzo, hai il cuore troppo tenero. E pensare che non sei un novellino! Non puoi pensare che dovremmo rinunciare ad un’occasione del genere solo perché tu non vuoi lasciare indifesa questa città. È la vita, rassegnati. Le persone tradiscono sempre ed i mercenari non sono da meno!» sibilò in quel momento un anziano militare.
«Non potete!» mormorò in quel momento Femia, senza riuscire a trattenersi. Si sentiva frastornata: certo, quando si era unita all’esercito si era resa conto che il  cambiamento di fronte era una possibilità da mettere in conto. Dopo una vita passata gestendo una bottega sapeva che, quando si trattava di denaro, gli uomini più insospettabili potevano buttare alle ortiche la legge, l’onore e gli affetti, eppure non riusciva a non sentirsi tradita. Forse era per le vittorie che avevano riportato contro i nemici, o per la furia che sembrava animare tanto lei stessa quanto i suoi commilitoni che non avevano nulla a che fare con il suo Comune, ma nonostante ciò non riusciva ad accettare che potessero abbandonare a cuor leggero tante persone che contavano sulla loro protezione. Forse era per le parole che le aveva rivolto il capitano, quel giorno di vari mesi prima...

«Capitano... li fermeremo, vero? Non lasceremo che lo facciano di nuovo. Non li faremo arrivare alla città».
«Certo che no. Non li lasceremo entrare in città. Anche a costo di dover resistere fino all’ultimo uomo».

«Sei un ingenuo, ragazzino» la schernì il vecchio, guardandola con disprezzo e distogliendola dai ricordi. «Devi mettere da parte l’idealismo. L’onore, la morale... sono tutte parole: qui contano i soldi, non i buoni sentimenti. Avresti dovuto pensarci due volte, prima di arruolarti!»
Furiosa, la ragazza per un attimo fu sul punto di alzarsi in piedi ed insultarlo, poi però riuscì a impedirselo mordendosi le labbra, tanto forte che sentì il sapore del sangue sulla lingua.
«Lodovico, grazie per il tuo aiuto. Ora però esci, per piacere» le disse Agilulf, posandole una mano sul braccio.
«Ma signore, voi avevate detto...» tentò di ribattere lei.
«Avevo detto che saresti rimasto in caso avessi avuto bisogno di aiuto, lo so, ma  posso cavarmela da solo. Adesso vai» la interruppe l’uomo, passandosi le dita tra i sottili capelli rossicci. Era un gesto lento che sembrava riunire in sé tutta la stanchezza ed il senso di impotenza che il comandante doveva provare, ma i suoi occhi chiari erano decisi come sempre, mentre la osservavano. Avevano un’espressione  intensa, come se Agilulf stesse cercando di comunicarle qualcosa. Sembravano scusarsi, ma allo stesso tempo erano attraversati dal lampo fiero di chi non si arrenderà senza prima combattere. Quello sguardo era una promessa.
«Sissignore» replicò Eufemia, poi si alzò ed uscì dalla tenda.

Non appena scostò il lembo di stoffa che fungeva da porta, venne accecata dalla luce del sole che le colpì il viso. In quel momento, la ferita al petto incominciò a pulsare: era stata tanto impegnata a seguire la discussione che si era dimenticata del dolore, ma ora che aveva lasciato la tenda esso tornava prepotentemente a farsi sentire. Non appena i suoi occhi si furono nuovamente abituati alla luce, andò a sedersi sull’erba secca e giallastra che ancora spuntava dal terreno. Poco lontano da lei era seduto il messaggero, che la osservò con la coda dell’occhio con uno sguardo penetrante ma indecifrabile; vedendolo, la ragazza si sentì invadere da una vampata di odio profondo.
“Se non fosse stato per lui, adesso non saremmo in questa situazione” rifletté, strappando con un gesto involontario un ciuffo d’erba e riducendolo poi in piccoli pezzi, che gettò davanti a sé. Mentre li vedeva fluttuare nell’aria e cadere per terra, ripensò alla sera in cui aveva rivisto Maria, quando era tornata in città durante la licenza.
«Per favore, vincete questa guerra» le aveva detto, carezzandosi la pancia come per proteggere suo figlio. Chissà se il bambino era già nato... forse sì, oppure mancavano poche settimane. Femia sperava che sua sorella stesse bene. Erano così tante le cose che avrebbero potuto andare storte, durante un parto. Sicuramente avrebbero chiamato la levatrice: tutti nel borgo la apprezzavano e di tanto in tanto lodavano il suo lavoro. La ragazza ricordava dialoghi del genere, che si svolgevano al mercato, al lavatoio o in qualunque posto le donne si incontrassero.
«Non preoccuparti» diceva una di loro, mostrando il corpo sformato dai molti parti ad una giovane intimidita. «Giuseppina mi ha aiutato a far nascere cinque dei miei figli e sono tutti usciti sani come pesci!» continuava poi, accennando ai tre o quattro marmocchi che giocavano gridando poco lontano da lei, in un confuso guazzabuglio di mani, gambe e strilli eccitati.
«Sì, anche due dei miei» si univa un’altra comare. «Uno però è morto, ma questo è successo un anno dopo. Dissenteria» spiegava, una smorfia triste sul volto.
«Una volta ha aiutato una ragazza durante un parto difficile ed ha salvato sia lei che il bambino! Sarai in buone mani, figliola» concludeva una terza, con un sorriso incoraggiante che le increspava il volto invecchiato precocemente.

Questi ricordi ne portarono altri, uniti tra di loro da un filo invisibile. Nomi, volti e gesti di persone che conosceva, o che aveva visto qualche volta in città. Lo zoppo che vendeva i cesti di paglia al mercato, l’apprendista del panettiere, le vecchie signore che spettegolavano in piazza... non aveva più niente a che fare con loro. Di molti non sapeva neppure il nome e certi non le piacevano particolarmente, ma non poteva abbandonarli: tutte quelle persone contavano sui mercenari per continuare a vivere. La maggior parte di loro non sapeva nemmeno prendere in mano una spada, certo non sarebbero stati in grado di difendersi da un attacco nemico. Andarsene sarebbe equivalso a condannarli a morte. Sapeva di che cosa fossero capaci gli uomini del Comune rivale e non riusciva a sopportare l’idea di lasciare i suoi concittadini in balia degli avversari.
Le parole della sorella le rimbombavano nella testa. Quella sera, che le sembrava lontana secoli, non le aveva risposto, ma nel profondo sapeva che in quel momento aveva giurato a sé stessa che non avrebbe lasciato che i nemici invadessero la città.
“Mai fare promesse che non si è in grado di mantenere” pensò amaramente.
Che cosa avrebbe fatto, se i comandanti avessero deciso di tradire? Dove sarebbe potuta andare? Forse in un’altra città... magari avrebbe persino trovato un altro esercito in cui arruolarsi, in un modo o nell’altro i Comuni trovavano sempre un motivo per scontrarsi. Lasciare coloro che ormai poteva chiamare amici le sarebbe dispiaciuto, certo, ma non era la prima volta che si lasciava tutto alle spalle. Sapeva che ce l’avrebbe fatta. Anche la certezza che sarebbe stata etichettata come una codarda la infastidiva, ma avrebbe sopportato anche il peso dell’infamia. Poteva quasi sentire le voci dei suoi compagni: “Hai sentito di Lodovico? Ha disertato... e pensare che non sembrava il genere di persona che scappa...”
La ragazza sospirò, dando una rapida occhiata alla tenda. Quando le voci al suo interno di tanto in tanto si alzavano di tono riusciva a cogliere alcune parole, ma il resto della conversazione non era che un mormorio incomprensibile. Notò che anche il messo stava tendendo le orecchie, tentando di udire la discussione, ma dopo pochi secondi rinunciò, scuotendo la testa e tornando a fissare un punto indefinito davanti a sé.

Era ancora immersa nei propri pensieri, quando d’un tratto udì un fruscio di stoffa: i comandanti stavano uscendo dalla tenda. Alcuni di loro sembravano indispettiti, altri assolutamente furiosi. Uno di loro si diresse verso lo straniero per comunicargli le decisioni prese e poco dopo Eufemia venne raggiunta da Agilulf. L’uomo era molto pallido, i suoi occhi erano lucidi di febbre ed i movimenti erano rigidi per il dolore causato dagli sforzi.
«Lodovico» disse in fretta, prima che lei riuscisse a fargli anche solo una delle domande che premevano per uscirle dalla bocca. «Abbiamo due giorni, non un minuto di più. Sono riuscito a convincerli a mandare qualcuno al Comune per dare ai governanti un ultimatum: se vorranno che continuiamo a combattere per loro, dovranno dimostrarci che hanno ancora del denaro a disposizione. Andrei io, ma non posso cavalcare in queste condizioni, per questo ho proposto il tuo nome. Gli altri comandanti hanno accettato. Dovrai consegnare questo ai Consoli, poi fornire loro una spiegazione» continuò, porgendole un rotolo di pergamena sigillato ed una bisaccia in cui riporlo.
La ragazza annuì con determinazione: non aveva bisogno di altre informazioni per decidere cosa fare.
«Accetto» rispose, prendendo i due oggetti. “Non che io stia molto meglio di lui, ma almeno ho il vantaggio di conoscere la città. Impiegherò meno tempo di quanto non ne servirebbe a loro” pensò.
«Partirai subito, qualcuno ti porterà un cavallo. So che non hai alcuna esperienza di missioni diplomatiche, ma ormai sai che in guerra bisogna imparare tutto in fretta: finora ce l’hai fatta ed ho fiducia nel fatto che riuscirai anche in questo».
Il capitano aveva appena finito di parlare, quando uno degli altri comandanti si avvicinò a loro, accompagnato da un soldato che stringeva in mano le briglie di un cavallo baio. Era un bell’animale che emise un nitrito basso non appena si affiancò a loro. Il suo pelo lucido era color castagna, tranne che per una macchia bianca su una delle zampe anteriori.
 «Ecco il cavallo. Immagino che Agilulf ti abbia già spiegato tutto...» disse acido l’ufficiale, rivolto a Femia.
Quest’ultima annuì, avvicinandosi lentamente al baio. Infilò un piede nella staffa, per poi issarsi sulla sua groppa con uno scatto. Il movimento era risultato piuttosto goffo, ma efficace: non era la prima volta che cavalcava. Quando ancora viveva con la sua famiglia, infatti, talvolta doveva accompagnare suo padre fuori città per alcuni affari. In quei casi, mastro Cavadecchi noleggiava dei cavalli, per questo ricordava ancora i movimenti necessari ed i comandi. La ragazza strinse le briglie in una mano, mentre con l’altra si aggiustò la bisaccia attorno alla cintura.
«In bocca al lupo» le augurò Agilulf, guardandola dal basso con un sorriso sghembo. Alle sue spalle, l’altro capitano sbuffò, ma lei non ci fece caso.
«Crepi. Grazie di tutto, signore» replicò, cercando di dimostrare in quelle poche parole tutta la sua gratitudine per l’uomo.
Il comandante annuì, poi le voltò e si incamminò verso l’infermeria con passo leggermente malfermo. Eufemia spronò il cavallo, che partì al galoppo.

Cavalcò per tutto il giorno, percorrendo a tutta velocità distanze che a piedi avevano richiesto giorni di cammino. Di tanto in tanto rallentava o si fermava, per permettere al cavallo di riposare, ma queste soste duravano solo lo stretto necessario: non appena quest’ultimo era abbastanza riposato, subito ripartivano. La ragazza si rendeva conto che si trattava di un ritmo massacrante per entrambi e le dispiaceva per il povero animale, ma voleva arrivare il prima possibile al Comune.
“Solo due giorni... fai presto! Corri!” si diceva, stringendo più forte le briglie tra le dita, tanto da imprimersi nella pelle i segni  a mezzaluna delle unghie. Non riusciva a pensare ad altro che a quella frase, o forse non voleva: ogni volta che le veniva in mente tutto ciò che durante il viaggio poteva andare storto, infatti, scuoteva la testa come a cacciare via il pensiero.
Quando calò il buio era arrivata nei pressi di una delle fattorie abbandonate dagli abitanti in fuga dai nemici, perciò decise che per quella notte avrebbe dormito lì. Proseguire di notte sarebbe stato pericoloso, inoltre lei era stanca ed assetata ed il cavallo non sarebbe mai riuscito a proseguire: aveva gli occhi fuori dalle orbite per la fatica e la bava alla bocca, il manto scuro ricoperto di sudore dall’odore pungente. Dolorante, Femia scivolò a fatica dalla groppa della sua cavalcatura e si diresse con movimenti impacciati verso il pozzo in pietra che si trovava fuori dalla cascina. Il secchio era ancora attaccato alla catena arrugginita, che la ragazza cominciò a calare: quando udì il tonfo che esso produsse toccando l’acqua, sorrise involontariamente. Dopo che lo ebbe issato sul bordo del pozzo, bevve avidamente, quindi lo riempì di nuovo e fece bere anche il cavallo. Quando anche lui ebbe finito di dissetarsi, legò le sue briglie ad un albero che spuntava nel cortile e per qualche secondo lo guardò brucare l’erba circostante, dopodiché entrò nella casa abbandonata e si distese a terra, con l’elsa della spada stretta nel pugno in caso di un attacco a sorpresa. Il sonno non tardò ad arrivare, infatti le servirono solo pochi secondi per addormentarsi.
Il giorno seguente Eufemia si svegliò alle prime luci dell’alba. Alzandosi, fece una smorfia: al dolore che le procurava la ferita si era aggiunto quello causato dalla lunga cavalcata del giorno prima.
“Non sono abituata a stare a cavallo tanto a lungo... ma adesso devo ripartire. Devo arrivare il prima possibile!” si disse, stringendo i denti e dirigendosi verso l’albero a cui aveva legato l’animale: quest’ultimo dormiva, ma aprì di scatto gli occhi sentendola arrivare. La ragazza lo accarezzò sul muso, con aria di scusa.
«Mi dispiace, bello, dobbiamo andare. Lo so, anche io vorrei fermarmi...» disse, montando sulla sua groppa, quindi lo colpì leggermente sui fianchi con i talloni e subito il baio partì.
Quando finalmente arrivò in vista della città, era ormai mezzogiorno inoltrato: non appena scorse le prime case, la ragazza spronò il cavallo. Entrò nel Comune al trotto, gli zoccoli dell’animale che rimbombavano colpendo il selciato delle strade deserte, dirigendosi verso la casa di Francesco Pellegrino, il console ritenuto da tutti i cittadini  il più rispettabile. Ricordava che, quando era piccola, un giorno stava passeggiando con suo padre quando quest’ultimo aveva salutato con deferenza un uomo piuttosto anziano dalla barba grigia e curata. Quando gli aveva domandato chi fosse quel vecchio, lui le aveva risposto che era una persona molto importante in città e che meritava rispetto.
Non appena arrivò a destinazione, bussò alla porta. Le aprì il padrone di casa in persona. Era più vecchio e più curvo di quanto ricordasse, ma conservava un portamento altero ed uno sguardo acuto. Se fu stupito di trovarsi davanti un ragazzo sudato e scarmigliato che reggeva in mano un foglio di pergamena, non lo diede a vedere.
«Signor Pellegrino, porto una comunicazione urgente da parte dei capitani dell’esercito mercenario! Bisogna convocare l’assemblea!» gridò Femia non appena lo vide, estraendo dalla bisaccia la pergamena sigillata.
«Che cosa? Calmati, ragazzo!» replicò l’uomo.
«Hanno ricevuto una proposta dai nemici... vogliono che noi soldati combattiamo per loro! Dicono che non potete più pagarci. Se è davvero così, nulla impedirà all’esercito di rivoltarsi contro la città. Avete tempo fino a domani per comunicare la decisione agli ufficiali!» spiegò lei, porgendogli il rotolo.
Il console parve comprendere la gravità della situazione, perché afferrò la pergamena e chiamò a gran voce: «Domenico! Vieni qui, presto!»
A quelle parole si sentirono dei passi affrettati provenire dall’interno della casa e poco dopo apparve un ragazzino di forse tredici anni.
«Sì, nonno?»
«Corri ad avvertire gli altri consoli che devono trovarsi il prima possibile al palazzo della Ragione e che bisogna riunire l’assemblea: siamo in pericolo!»
Il bambino spalancò gli occhi e sembrò sul punto di chiedere una spiegazione, ma nell’udire l’urgenza nel tono dell’uomo obbedì e corse via. Francesco lo guardò allontanarsi, poi si voltò verso Eufemia.
«Seguimi, ragazzo. Dovrai spiegare ai reggenti ciò che sta succedendo. Come ti chiami? Come facevi a sapere dove vivo?»
«Mi chiamo Lodovico, signore. Sono nato in questa città, è per questo che sapevo dove trovarvi» rispose la ragazza, incamminandosi dietro di lui verso il palazzo della ragione. L’edificio, nel quale si tenevano le assemblee per discutere le decisioni più importanti per il Comune, era un’imponente costruzione di mattoni rossi priva di fronzoli o decorazioni: incombeva sulla piazza principale proiettandovi la sua lunga ombra e la sua austerità incuteva rispetto ed un certo timore agli osservatori. Pellegrino armeggiò un po’ con un mazzo di chiavi, poi finalmente trovò quella che cercava ed aprì il pesante portone di quercia. Eufemia, sentendosi vagamente intimidita, fece un profondo respiro e varcò la soglia.

Un’ora dopo, la sala dove doveva tenersi la riunione era gremita. Oltre ai sette consoli, erano presenti tutte le personalità più importanti della città ed i rappresentanti delle Corporazioni: guardandosi intorno, Femia riconobbe alcuni volti a lei noti. Tra di essi c’era anche suo padre, che sembrava invecchiato dall’ultima volta che l’aveva visto. Il suo sguardo vagava inquieto dai consoli ai suoi colleghi, con i quali stava discutendo a mezza voce. Di tanto in tanto i suoi occhi si posavano anche su di lei, ma non si soffermavano mai ad esaminarla e passavano subito oltre.
“In fondo, sono soltanto l’ennesimo soldato di ventura sporco ed inaffidabile. Non ho nulla di speciale” constatò lei, sollevata, anche se la cosa le procurava una punta di tristezza.
Ad un tratto, la voce tonante di uno dei Consoli sovrastò il brusio circostante.
«Concittadini, ascoltatemi. Siamo in pericolo: le truppe mercenarie a cui ci siamo affidati hanno ricevuto una proposta molto allettante dai nostri nemici e rischiamo di trovarci senza difesa contro i loro attacchi».
Non appena terminò la frase, che era stata accolta da un silenzio profondo, molti uomini ricominciarono a parlare.
«Hanno mandato un messaggero per spiegarci la situazione. Silenzio!» gridò a quel punto Pellegrino, facendoli tacere per la seconda volta. Tutti gli sguardi si spostarono verso Eufemia, che poteva leggervi rabbia, dolore, paura.
«Allora, che parli!» esclamò qualcuno con veemenza.
A quel punto la ragazza si mosse, in modo da fronteggiare tutti i suoi interlocutori. Ogni movimento le procurava dolore, ma strinse i denti ed alzò la testa in un gesto quasi di sfida.
«Sono Lodovico e sono stato mandato qui come portavoce dei miei commilitoni» cominciò. Inizialmente parlava a bassa voce, sentendosi intimidita, ma man mano che proseguiva il discorso acquistava sicurezza. «Ieri un messo della città avversaria è venuto ed offrirci un... accordo. Ha proposto ai nostri comandanti un aumento di stipendio del trenta per cento: se lo accettassimo, dovremmo combattere dalla loro parte. Li ha informati che sembra risaputo che tra poco voi non potrete più pagarci, per questo hanno pensato di prendere in considerazione l’offerta... ma prima vogliono sapere se ciò che ci hanno riferito è vero».
«Cosa?» domandò Francesco Pellegrino, incredulo.
«Il messaggero ha detto che la vostra situazione economica non è delle migliori».
«Questa informazione è falsa!» gridò uno dei consoli. In effetti, la notizia sembrava essere stata accolta da tutti i presenti da autentico stupore. Eufemia non poté fare a meno di sentirsi sollevata.
«In questo caso, dovrete dimostrarlo... ma soprattutto, dovrete farci un’offerta ancora più alta: i nostri comandanti non sono persone particolarmente propense a combattere per pura bontà d’animo, se capite cosa intendo» replicò. Si rendeva conto che la sua proposta sarebbe risultata molto sgradita agli uomini e che avrebbe dovuto formularla con più tatto, ma sapeva che era quello l’unico modo per assicurarsi davvero la lealtà dei mercenari ed il tempo stringeva: non poteva perdersi in fronzoli inutili.
Tutti i presenti ricominciarono a parlare, stavolta quasi gridando. Si udivano alcuni insulti, molti dei quali erano rivolti a lei.
«È inammissibile!»
«Non se ne parla, sarebbe un furto...»

«Come ti permetti di venire a chiederci altri soldi? Combattere è il vostro lavoro!» esclamò una voce che sovrastò le altre. La ragazza la riconobbe subito: era quella di suo padre. Riuscì a scorgerlo nel mare di facce che vedeva davanti a sé, rosso in volto e con un’espressione di odio puro negli occhi che la scrutavano dall’alto in basso. Femia fece un respiro profondo, cercando di reprimere la rabbia che quello sguardo le aveva fatto crescere dentro. Era preda di sentimenti contrastanti: da un lato sapeva che non sarebbe mai riuscita a combattere contro i suoi stessi concittadini, dall’altro però non se la sentiva di addossare tutta la colpa ai mercenari. Sapeva che molti di loro erano stati costretti ad arruolarsi dalle circostanze o dalla povertà e contavano sullo stipendio garantito per mantenere se stessi e le loro famiglie.
«Signori, l’avete ammesso anche voi: si tratta di un lavoro e come tale deve essere retribuito. Credetemi, non tutti noi mercenari siamo tanto indifferenti alla vostra sorte come potreste credere. Se fosse stato davvero così, non sarei stato mandato qui a comunicarvi ciò che ci è stato proposto. So che tradire la città per la quale si è combattuto fino a poco tempo prima per denaro è immorale, ma la maggior parte di noi ha dovuto scegliere se unirsi all’esercito o morire di fame. Di fronte alla paura di non riuscire a vedere la prossima alba, gli scrupoli scompaiono...»
Inaspettatamente, nella sala era calato il silenzio.
«Se davvero non siete in difficoltà economiche, non sfidate la sorte e pagateci. So che si tratta di un vero e proprio ricatto, ma sapete anche voi che è l’unico modo per convincere i capitani a rimanervi fedeli. Sono nato in questa città: vi prego, non costringetemi a combattere contro di voi».
Per un attimo, tutti i presenti la osservarono senza parlare, poi uno dei Consoli prese la parola.
«Ora dobbiamo discutere tra di noi, ragazzo. Potresti aspettare fuori? Ti faremo chiamare quando avremo deciso».
Eufemia obbedì, incamminandosi fuori. La scena le sembrava irreale, tanto le ricordava quella avvenuta il giorno precedente all’accampamento. Un giorno... le sembravano passati secoli. Appena uscita dalla stanza, si sedette accanto alla porta, appoggiando la schiena contro il muro. Poco dopo, nonostante l’ansia che provava, la stanchezza causata dalla mancanza di sonno cominciò a farsi sentire e la ragazza si addormentò.
Non avrebbe saputo dire quanto tempo era passato, quando sentì qualcuno scuoterla. Svegliandosi di soprassalto, si trovò davanti il volto di un anziano mercante che la scrutava con simpatia.
“È il fruttivendolo... ha una bottega vicino alla chiesa. Un giorno, quando ero bambina, mi aveva regalato una mela”  pensò confusamente, prima di alzarsi in piedi.
«Vieni, ragazzo. Adesso i Consoli ti comunicheranno la nostra decisione. C’è voluto del bello e del buono per mettere tutti d’accordo, ma alla fine ce l’hanno fatta...» le disse, spingendola gentilmente nella sala delle assemblee.
«Dopo esserci consultati a lungo ed aver esaminato la situazione, abbiamo deciso che la vostra paga verrà aumentata del quaranta per cento. Questa è la cifra più alta che possiamo permetterci. Dovrai accompagnare un nostro messo dai comandanti dell’esercito, per portare loro un accordo da sottoscrivere in cui garantiamo il pagamento a voi soldati. Questo è quanto abbiamo deciso» le spiegò senza preamboli Pellegrino, mentre imprimeva il proprio sigillo sulla ceralacca calda che chiudeva un rotolo di pergamena.
La ragazza impiegò qualche secondo prima di comprendere appieno ciò che le aveva appena detto, quindi un sorriso si fece strada sulle sue labbra.
«Grazie» mormorò, senza rivolgersi a nessuno in particolare. «Dovremo affrettarci: abbiamo tempo solo fino a domani mattina».
L’anziano annuì gravemente. «Lo sappiamo. Il messaggero arriverà tra poco».

Quando, dopo una lunga ed estenuante cavalcata, arrivarono all’accampamento, Eufemia guidò il suo concittadino fino alla tenda dei comandanti. All’interno scorse Agilulf, che aveva l’aria stanca ma le rivolse un sorriso non appena la vide comparire, seguita dal messo. Non poté presenziare alle trattative, perché, secondo gli altri comandanti, “era già stata coinvolta fin troppo”, perciò si incamminò faticosamente verso l’infermeria: doveva assolutamente sostituire la fasciatura della sua ferita, inoltre voleva controllare se il suo plotone aveva già fatto ritorno. Appena entrata, tutti gli occhi si voltarono verso di lei: in qualche modo dovevano essere venuti a sapere della sua missione, ma nessuno le fece domande.
“Devo avere l’aria davvero distrutta...” pensò, mentre si avvicinava ad un medico per domandargli di spiegarle ciò che era successo in sua assenza. In quel momento, udì una voce nota che la chiamava.
«Lodovico!»
Un ragazzo alto e biondo correva verso di lei, con un braccio al collo ed un tono tra il sollevato e l’indignato.
«Alois! Ero preoccupato, per fortuna stai bene... e gli altri? Avete avuto molte perdite? » gli domandò.
«Tu avevi promesso me che saresti stato qui, che avresti riposato te...» esclamò lui, ignorando le sue domande. «Quando sono arrivato non eri qui ed un uomo ha detto me che eri scomparso e che girava voce che ti avessero mandato in città a portare un messaggio, ma conosco lui e so che non c’è da fidarsi. Dov’eri?»
Sentendo queste parole, la ragazza lo guardò stupita e scoppiò a ridere, tanto che ad un tratto si sentì girare la testa.
«Lodovico, perché ridi? Ti senti bene? Lodovico!» la chiamò l’amico, preoccupato.
Femia annuì, sedendosi a terra e facendogli cenno perché la imitasse.
«Sto bene, davvero» mormorò, mentre lui si accomodava accanto a lei. «Sapessi quante cose devo raccontarti...»

 

 

 

 

 

 

 

NOTE DELL'AUTRICE:
Avevo in programma di pubblicare prima questo capitolo, ma tutti i miei impegni sono ricominciati e me l'hanno impedito, scuola in primis: mi dispiace! Ormai la storia è quasi finita: il prossimo capitolo, infatti, sarà anche l'ultimo (mi sembra così strano dire una cosa del genere...).
Dovrei riuscire a pubblicarlo entro la fine del mese, rispettando i due aggiornamenti previsti per settembre, ma se non dovessi riuscire arriverà comunque nei primi giorni di ottore.

  
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