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Autore: virgilio66    28/09/2014    0 recensioni
Un frammento di una vita difficile, un'esperienza dell'animo che si consuma tra le evocative rovine di Pompei antica
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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~~Antonio Sena


                                       DULCIS AMOR PERIAS

 

Aveva imboccato strade fuori mano, varcando sconnessi cancelletti di legno che sembravano aperti ma forse erano rotti, e si trovava ora lì, dove la città morta riportata in vita, con i suoi cartelli e la macine divenute cestini, ritorna morta. Non sepolta ma come sospesa, e inghiottita da una vegetazione vitale e possente non meno dei materiali del vulcano.
Andrea era lì, sotto una tettoia moderna abbandonata, di un vetro che forse non era vetro e dava caldo, in un luogo dove forse non avrebbe dovuto fermarsi, tra calchi di corpi dalle forme incerte, le braccia spezzate, qualche pezzo sparso sulla polvere, frutto degli ultimi scavi di una decina di anni prima. Ricordava le foto sui giornali ma non risentiva, in quell’angolo frugato dal sole, l’eco dello stupore e dell’eccitazione: la città finiva tra strade sterrate e polverose, cieche su macchie di edera o di cardi che svelavano a tratti la dura linea grigia di un muro, non più archeologia ma natura: polvere alla polvere, pensò.
Il ragazzo si profilò da lontano, sagoma bruna sui pantaloni a tre quarti. Per averlo già visto in mattinata che si toglieva la maglietta al quadrivio di Olconio o si arrampicava sulle gradinate del Teatro Grande alla ricerca dell’angolo giusto per inquadrare una piccola comitiva che posava per lui sulla scena, gli sembrava di conoscerlo. Ci sono figure che ti restano subito dentro, non sai fino a quando, come una macchia sulla camicia  o un graffio alla mano.
Ritornò all’angolo che lo reimmetteva nel flusso e lo fissò per un istante, da pochi metri: la maglietta attorcigliata alla vita, lo zainetto che gli segnava le spalle nude, i glabri pettorali arrossati ben delineati in un corpo esile ma forte, precedeva di poco una ragazza, cercando di tenerle ancora la mano.
Adesso gli passava davanti: ne rivide le labbra sottili sugli zigomi rilevati e ne colse poi il guizzo delle scapole e del muscolo del braccio mentre portava alle labbra una bottiglietta d’acqua. E seppe di essere stanco.
La tasca gli vibrò, in un primo momento cercò un calabrone da scacciare lungo la gamba ma poi pensò al cellulare cacciato da qualche parte, a qualche tasto schiacciato che gli aveva disinserito la suoneria. Mentre il ragazzo da un muretto lanciava lontano lo sguardo con la cartina in mano, lui stava ascoltando al telefono una voce spiritosa.
«Ma che hai fatto? Al tuo numero mi ha risposto un ragazzo tutto compito, “Sì dottore, Andrea è andato a fare un giro suo, poi aveva appuntamento con voi o vi avrebbe chiamato”. Poi mi ha dato un numero, “Se lo cercate adesso potete chiamarlo”».
«Sì, sì, è Enzo, uno dei miei studenti. Ho scambiato i telefonini ma non me ne ero accorto. Adesso vedo i suoi avvisi di messaggi ma farò il signore e non entrerò nei suoi affari. Ma tu non eri libero alle quattro?»
«Ho finito prima, o meglio, mi hanno chiamato in ufficio da quello scavo americano al tempio di Iside, sondaggi stratigrafici. Vogliono informazioni o che so io... Ci passiamo insieme e poi andiamo dai tuoi ragazzi. Può essere interessante anche per te».
Aveva visto passando quel cantiere, ragazzi e ragazze che avevano in media una quindicina di anni meno di lui, venti, venticinque al massimo, e di Pompei sapevano certo di più. Setacciavano il terreno e sondavano con incisioni chirurgiche diversi punti dell’edificio, tutti con i caschi, i ragazzi a torso nudo, precisi e sicuri come tecnici di laboratorio, bruni sulle spalle e sporchi come muratori.
Non voglio venire con te, Guido, non chiedermelo, non puoi. Non voglio andare col mio ex-collega di Università ispettore a Pompei in mezzo a dei ragazzi che hanno le idee più chiare di me e ascoltarti senza capire una parola di inglese e aspettare che tu mi spieghi cose che non farò mai e ancora una volta vedere gli altri che fanno, vedere vedere vedere.
«Forse è meglio che io raggiunga i ragazzi. Li ho lasciati già da un po’ fuori Porta Vesuvio, alla tomba di Vestorio Prisco, è meglio che li raggiunga, spiego ancora qualcosa e poi ti aspettiamo o dimmi tu».
«Ma scusa, non eri venuto incontro a me? Sono ormai quasi le tre e mezzo e poi volevamo parlare un po’ noi... comunque avviatevi tra una mezz’ora verso Via dell’Abbondanza e poi... ma vieni al tempio di Iside con loro, così poi parliamo un po’ mentre andiamo a vedere lo scavo che volevo mostrarvi».
«Va bene Guido, facciamo così, a più tardi».
Aveva intanto continuato a camminare e aveva cominciato a salire per il nuovo percorso che dall’esterno della città collega le diverse porte a Nord.
Bravo Guido, bel capolavoro. Un gruppetto eterogeneo di liceali che fanno lezioni private di italiano, latino o greco, a Pompei per caso con il loro insegnante privato che non si capisce perché ce li ha portati, che è uno che non si capisce che fa, li mettiamo insieme a dei ragazzi di un’Università americana che setacciano, catalogano, schedano. Tutti ragazzi, loro, ma noi, Guido, noi siamo nella linea d’ombra di Conrad, quando dopo i trent’anni ti prende quella smania e potresti fare una pazzia ma forse solo se hai un passato, altrimenti continua la notte. Io non voglio vederli tutti insieme...
Voleva sedersi adesso, dovevano esserci delle panche lì, in una sorta di radura, ma le aveva già oltrepassate, non si era accorto che cominciava già l’ultima lieve salita prima di sboccare fuori Porta Vesuvio. Si fermò comunque, doveva fermarsi, non era ancora pronto a ricominciare.
Chi sa dove sarà adesso quel ragazzo di prima... quell’Antinoo che sembrava a suo agio nel mondo come una foglia sull’albero, elegante nei suoi sandali bianchi di polvere, con la sua maglietta spiegazzata... come questi del resto che sto raggiungendo adesso. E io invece con questo jeans lungo che ci crepo dentro e la camicia bianca un po’ attillata e stropicciata come si portano adesso che mi ci sento ridicolo dentro... ci voleva la polo, io sono uno con la polo, magari Lacoste o Elle Kappa ma polo, con i bottoncini.
Arretrò presso un cespuglio e accese una sigaretta: il fumo gli rallentava il battito del pensiero.
E seppe perché era stanco.


«Le avete viste tutte le pitture della tomba? Forse quella di Vestorio che amministra la giustizia non avete potuto osservarla bene perché dall’altro lato non ci sono pietre su cui salire».
«E perché no? Bastava arrampicarsi sulla base della colonna dietro quella cosa semicircolare lì». Enzo, naturalmente, quello compito, che non si sarebbe mai tirato indietro in una prova del genere.
«Cosa che tu ovviamente hai fatto, spero con un po’ di prudenza. E poi quella “cosa” si chiama schola, è un termine che indica proprio la tomba semicircolare ad esedra, che serve anche da sedile per la sosta e il riposo. Mettiamoci proprio lì e diciamo qualcosa.»
  Si fece descrivere alla meglio le pitture, precisò qualcosa, poi passò il suo quaderno a Michele, che era quello che meno incespicava sulle parole e poi gli piaceva quella voce un po’ nasale che si andava assestando giorno per giorno e sembrava arrossire ogni volta che doveva prendere un tono più deciso o valicare una vetta più alta.
Disse qualcosa su Petronio e sul contesto del brano, poi lasciò leggere: “Me la stai costruendo la tomba a quel modo che ti ho ordinato? Guarda, proprio ti prego che ai piedi della mia statua ci dipingi la cagnetta e corone e profumi e tutti i combattimenti del gladiatore Petraite, così per tuo merito mi sarà dato di vivere anche dopo morto... Dunque voglio aggiungerci scritto prima di tutto: “Questo sepolcro non passi all’erede”. Ma ci starò attento, con disposizione testamentaria, a che da morto non riceva qualche affronto. E così metterò un liberto a guardia fissa della mia tomba, perché sul sepolcro la gente non corra a cacarci sopra. Mi raccomando anche di scolpirci sopra navi che vanno a gonfie vele, e me seduto in tribunale, con tanto di toga pretesta e cinque anelli d’oro alle dita e che semino dalla mia borsa soldi in mezzo al popolo; infatti lo sai che ho dato un banchetto con due denari a testa. Se ti garba, facci anche i triclini. E facci pure tutta la marmaglia che se la spassa”.
«Leggetevi poi voi il seguito che è divertente e vediamo un po’. Vestorio Prisco, edile, morto a soli ventidue anni, non era certo ricco come Trimalchione però c’è questa smania di rappresentare, con ostentazione, la propria condizione sociale, ad un livello provinciale certo, con degli elementi simili, perché fanno parte di quella società che non era cambiata nell’arco di dieci anni. E quali sono questi elementi?»
«I gladiatori, che stanno anche qui sulla tomba, e perché poi?»
«Per ricordare gli spettacoli offerti probabilmente dal defunto per la sua elezione o poi dalla famiglia in suo nome, ma vai avanti, Luca, vai avanti.»
«E poi il defunto è raffigurato in atto di amministrare la giustizia... e Trimalchione vuol farsi raffigurare sul tribunale che dispensa denaro al popolo.» «Non è proprio la stessa cosa, Trimalchione non amministra la giustizia però non è detto che Vestorio amministri la giustizia e non faccia anche lui elargizioni al popolo... comunque la funzione delle due scene è in parte simile... avanti.»
 « E le navi, - intervenne Michele sinora come assente dopo la lettura - una nave l’abbiamo vista stamattina su una tomba dell’altra necropoli e tu hai detto che poteva riferirsi anche all’attività esercitata in vita dal defunto, come nel caso di Trimalchione, che aveva fatto fortuna con i commerci...» «O avere un’interpretazione allegorica, bene, abbiamo finito?» «C’è poi l’argenteria, Trimalchione ne è un patito, ne parla nella Cena, e nella tomba c’è tutto un servizio esposto a bella mostra sopra una tavola.» «Certo Enzo, va bene, finalmente quei brani della Cena li hai letti. Allora Trimalchione lo inseriamo nel percorso dell’esame?»
«Sì, sì, in fondo è una delle cose meno pesanti, poi te lo faccio vedere tutto il percorso la settimana prossima.»
«Sarebbe ora, tra due settimane cominciano gli scritti... E poi c’è un altro particolare. Non avete fatto caso a quella pittura in fondo alla strada, all’angolo del muro? Avviciniamoci.»
Ma perché dico tutto questo... forse sbaglio anche nei particolari. Ho questa smania di far rivivere tutto, di fare accostamenti, riesumare. I morti vanno lasciati stare o studiati come morti. Non ho il distacco dello studioso, non sarò mai come Guido che questa necropoli l’ha studiata per la tesi con tutte le rilevazioni, i paralleli con mezzo mondo romano e un mare di bibliografia in tutte le lingue, forse Vestorio Prisco non c’entra poi tanto con Trimalchione ed è morto pure dopo. La mia vita non mi basta non mi basta non mi basta. Perché sono qui? Solo perché sanno che scrivo di Pompei e uno di loro ha detto “facciamola insieme questa uscita quando chiude la scuola”  o gliel’ho imposto io perché volevo stupirli, mostrare che io non sono come i loro professori che con lo studio li tormentano, che io sono un’altra cosa e... io guardo Antinoo,  dove sarà adesso... ed anche loro.
Doppio binario, sempre: pochi metri di cammino e il pensiero che s’immerge fin dove si perde e tutto diventa uno sguardo opaco su dei ragazzi che ti fanno domande con gli occhi.
«Vedete quella scritta in bei caratteri neri? C’è scritto più o meno: “Cacasotto, possa tu stare bene al punto da oltrepassare questo luogo” e non fare quindi proprio quello che Trimalchione voleva impedire sulla sua tomba.»
Però un personaggio viene fuori anche da dettagli così, capisci che un personaggio di romanzo ha bisogno della realtà ma non per rappresentarla, perché la realtà tutta insieme crea l’irreale, l’incubo, Trimalchione diventerebbe a un certo punto un incubo se non ci fosse Petronio e, cazzo, dovrei scriverci un saggio e non accontentarmi della bella idea che resterà confusa nel mio cervello come tra queste pietre...Anche  la vostra vita è la costruzione di un personaggio, se ci mettete tutte cose vere senza un autore, che sia etica ironia amore, potrete ritrovarvi un mostro. Ditemi che almeno questo vi serve, ditemelo adesso.
«Ora avviatevi con la guida, la cartina ce l’avete, perlustrate il quartiere, io vengo dietro senza fretta.» Un modo come un altro per lasciarli liberi.
Enzo si staccò presto dal gruppetto. «Scusa, ti devo chiedere due cose, una che mi ha detto mamma. Per il fatto di mio fratello, voleva sapere se puoi. Vuole fare pure lui il liceo e cominciare un poco di latino in estate.»
Tuo fratello adesso. No tuo fratello no. E tanto per cominciare  non si dice “per il fatto di mio fratello”, come Trimalchione non era un “patito” di argenteria. Non fare il compito solo quando le parole che usi te le dettano le circostanze. Sceglile come hai scelto quel berrettino figo che stacca sulla maglietta che ti scende al punto giusto sui bicipiti, falle forma di te... E poi io non voglio continuare così, io devo smettere, non ti risponderò adesso, questa volta ecco non permetterò alle parole di anticiparmi perché le parole ingannano anche, lo so, come un jeans o una camicia strana danno un’immagine di te che poi non cambia più, ma io sono le mie parole e io ora ti guardo e poi vediamo, faccio come te, guardo e poi vediamo.
«E l'altra cosa è che ho ricominciato a lavorare al pub come gli altri anni. Magari per ora solo dal giovedì alla domenica, fino agli orali. A lezione potrei venire di mattina... ma se vuoi che io parli al proprietario...»
Cinque anni che faccio questo, e tu non ci pensavi al liceo, un’idea che ti ha tolto al professionale quando l’anno era già iniziato perché ti eri reso conto in qualche modo  che senza parole vai nel vuoto, lo senti da come parlano i tuoi, e dalla primavera fino a ottobre inoltrato da qualche anno questa storia del pub e per farti leggere un paio di libri in estate ce ne vuole... Ma tanto, quando mi sbatti in faccia quegli enormi occhi chiari, sguardo perduto con l’anima di ferro, alla fine dico sempre di sì. “Se vuoi che io parli”, buono quel congiuntivo, lo mettiamo nell’effetto finale... e mi fai fare quello che vuoi.
«Se devi proprio lavorare... però manteniamo un po’ di concentrazione, cerchiamo di non perdere tutto in un mese.»
Adesso era tardi, Andrea lo sapeva anche senza guardare l’orologio, dovevano imboccare la via dei Teatri per andare al tempio di Iside ma li deviò ancora su via dell’Abbondanza a guardare le insegne delle botteghe, la lavanderia di Stefano, a parlare di Cibele, della Venere pompeiana e di Lucrezio. Poi si decise a ritornare indietro e riconobbe in lontananza una sagoma familiare che si faceva avanti al suo passo solito.
Perdonami, Guido, ma ormai ho perso la chiave e non so più farti entrare. Chiudiamo presto oggi e poi ti manderò come sempre il prossimo articolo e faremo senz’altro una conversazione intelligente, magari un’ora al telefono.
Sentì che il sudore gli si stava asciugando addosso, non era più esposto come a Porta Vesuvio. Piacevole quella sensazione, quando t’accorgi che la fronte e le braccia e le mani stanno perdendo quella patina d’unto. Per oggi era andata. Ma quando s’asciuga il sudore sai anche che ti sei fermato.


Il vicoletto fresco era inciso tra una parete terrazzata di contenimento e il complesso che stava riemergendo lentamente tra le ceneri: era un nuovo scavo sul lato Nord di via dell’Abbondanza lasciato in buona parte ancora alla terra, un completamento necessario che Guido stava dirigendo da alcuni anni e andava pubblicando ancora parzialmente sulla Rivista di archeologia pompeiana.
Loro si aggiravano nelle prime sale per uno sguardo d’insieme, senza penetrare in profondità, costeggiando i muri, dando uno sguardo alle pareti affrescate, osservando la fuga in prospettiva degli ambienti verso l’interno.
«Adesso viene Guido, che sta prendendo accordi con il custode, e vi spiegherà tutto lui, questa è zona sua. Vedete, lo scavo è ancora in corso, non sono state rifatte le coperture, oggi si tende a non intervenire con troppa disinvoltura, perciò sono state realizzate solo queste tettoie e quelle strutture di tubi per esigenze di immediata protezione.»
Luca, che a quanto lui aveva capito voleva fare architettura, si guardava intorno stupito, con quell’espressione tipica che assumeva quando perdeva il filo di un periodo latino e annaspava fra poche parole chiare in una costruzione disastrata. «Ma è un guazzabuglio, non è come le altre case e botteghe, non si capisce niente, cos’è di preciso?»
«Come vi ho detto stamattina, non è che le case siano state trovate come le vedete adesso, è un processo lungo, c’è lo scavo con la raccolta attenta di ogni elemento utile, lo studio con la formulazione di ipotesi attendibili insieme al restauro e alla soluzione di problemi urgenti di conservazione e poi dopo l’allestimento per il pubblico quando è possibile.
Anch’io non ci capisco niente, Luca, non ti preoccupare. In fondo vi spiego quello che dicono gli esperti. L’archeologia è così, disperante, non devi badare subito all’insieme ma romperti la testa sui particolari, e io non l’ho mai saputo fare nemmeno nella vita, i particolari mi sommergono, mi stancano, voglio l’insieme e poi non capisco niente di tutto, perché non si può partire dal tutto.
Non mi prendete alla lettera perché non sono un archeologo e nemmeno... lasciamo stare. Da quello che so, qui c’è una casa di un certo livello ristrutturata con l’ampliamento dell’ area del giardino, sia a scopi pratici per la coltivazione  di fiori per unguenti e profumi sia a scopi di svago, con l’allestimento di padiglioni ed exedrae, sale di soggiorno con particolare esposizione, decorate con quadri mitologici, e sale da riposo, cubicula diurni,  con raffinate pitture da giardino molto realistiche a giudicare dalle prime foto e al centro del secondo giardino un triclinio estivo in muratura... Enzo aspetta, ci muoviamo tutti insieme, potremo vederne solo una parte.»
«Di fesserie non ne hai dette tante, in verità, - intervenne Guido da dietro - allora, ragazzi, cominciamo la visita da questo atrio, che risale al primo impianto della casa e presenta pitture, molto deteriorate, più antiche di quelle del quartiere del giardino...»
Bravo Guido, vai tu adesso, portami fino alla fine, non voglio più parlare, non voglio più pensare. Vai, Guido, tra le fasi e gli stili ti muovi alla grande, gli edifici ti hanno sempre appassionato, le ristrutturazioni, i riutilizzi, il cumulo di calce nel giardino, le tracce di preparazione della parete da affrescare. I ragazzi sono affascinati da queste cose. Spiegalo a Enzo, che ha il padre giardiniere, come avete fatto i calchi di quelle radici, come avete individuato i tipi di piante e cosa sono quei germogli che cominciano a crescere. I segni del terremoto certo, non di quello del 62 ma di quelli dello “sciame sismico”, come lo chiamate, vi leggo sai, vi leggo ancora ancora ancora.
Guido aveva finito: lucido, chiaro, molto comunicativo come sempre. I ragazzi domandavano ancora qualcosa, lui rispondeva con quell’attenzione ai dettagli, quella curiosità per i mestieri, le tecniche, che aveva affascinato Andrea sin da quando visitavano insieme gli scavi da ragazzi. Era un archeologo sul campo lui, i problemi li faceva scaturire sempre dai dati.
«Adesso potete rifare un giro, solo però sul percorso che abbiamo seguito sulle passerelle, senza entrare di nuovo negli ambienti, per favore.»
Si avvicinò ad Andrea che se ne stava a guardare una piccola natura morta in un angolo. «Simpatici i tuoi alunni, vivaci, belle domande...Li hai martellati con tutti gli autori collegabili, eh? Uno voleva sapere se quella porta in fondo poteva essere il posticum dell’Epistola di Orazio a Torquato. Domanda ingenua però... ma tu li hai sentiti, no? C’eri?»
«Solo in parte, Guido, lo sai. Complimenti comunque, bel lavoro qui.»
«Grazie, per tutte le volte che ti ho invitato e non sei venuto... Vieni qua, voglio farti vedere una cosa. Osserva quel tratto di intonaco del peristilio... qui, più giù.»
L’intonaco bianco-crema era fitto di segni graffiti, Andrea li guardava, gli sfuggivano, dovette abituare gli occhi a riconoscerli.
«Parte dall’alto e scende verso destra, metti a fuoco l’estensione della scritta e poi concentrati sulle lettere.»
Concentrati sul testo, lo dico sempre anch’io ma qui è in gioco altro. Cos’è, Guido, una trappola? Sto sudando, sono come scariche elettriche che aprono i pori, le lettere non stanno ferme, si allungano, si deformano... ma sono parole brevi, piene di i. Comincia con un ut.
«Ma è strano! Ut vi...di. Poi c’è un altro ut, questa poi è una p. Due i finali... Ut vidi ut perii. Ancora un altro ut... Ma questo è Virgilio! Ut vidi ut perii, ut me malus abstulit error, Appena ti vidi come mi sentii perduto, come una funesta follia mi travolse. È l’ottava Bucolica! Aspetta, c’è una citazione dallo stesso carme sull’Edificio di Eumachia, tratta dal secondo dei due canti di cui è costituito, quel verso che fa... carminibus... con i versi Circe mutò i compagni di Ulisse... Però qui l’ultima parola non è error, l’ha cambiata, è amor, vero Guido, lo scriptor l’ha cambiata,  tra l’altro qui metricamente non va, ha semplificato il testo... o non lo ricordava.»
Lo scavo era recente, sotto il muro si camminava ancora su uno spesso strato di lapilli, le scarpe facevano come uno scroscio ma Andrea non riusciva a stare fermo, poi si inginocchiò. Guido, chino accanto a lui, gli rivide negli occhi una luce di tempi lontani che gli apriva la bocca e la forzava in un sorriso, risentì quella voce dalla sua camera di studente, quando di sera tardi ripetevano rapidamente i versi tradotti durante il giorno, alternandosi nella lettura metrica.
«Guarda sotto, a metà della scritta grande.»
«In caratteri più piccoli c’è un altro breve testo.»
Guido gli prese il  braccio, poi la mano, la ricoprì con la sua e la portò verso l’angolo dove la scritta si perdeva in una piccola crepa. «Non toccare la parete, segui le lettere, ricomponile nella mente e confronta la grafia.»
Cosa stai facendo, Guido, mi tocchi, cosa vuoi fare con questo Virgilio? Mi porti indietro, indietro... Hai la camicia aperta, Guido, guarda che mi ricordo, non sei così cambiato. Tu sei uno di quelli che maturano bene, i lineamenti si sono raffermati, i capelli striati ma almeno ce li hai tutti ma io mi ricordo. Ti vedo quando rimanevo da te a studiare e mi svegliavo sempre presto e andavo a fumare fuori al balcone, dentro non si poteva perché tu volevi smettere e avevi l’ardore del neofita convertito all’astinenza, poi ti guardavo dormire in boxer con il braccio fuori dal letto e dopo le sette mi stendevo di nuovo e facevo poi finta di essermi svegliato poco prima di te e tu forse fingevi solo di crederci. Ora sono io forse che dormo e tu che fai, mi guardi, mi aspetti, da anni mi dici di ogni convegno, mi inviti alle vostre mostre, mi mandi tutti i libri che puoi. Ti senti in colpa, no non sei il tipo, vuoi aspettarmi come facevi agli esami, quando ti presentavi all’improvviso come per caso fuori dell’aula per assicurarti che non me ne andassi e io credevo...
«Confronta la grafia e procedi, non l’ho capita a fondo, non riesco a stabilire con certezza se è della stessa mano dell’altra. »
«C’è di nuovo amor, dulcis amor, è quest’ultima parola che non si capisce bene, l’ultima lettera è quasi abrasa, la terza sembra una a ma non è possibile... è una r, Guido, è una r, mi ricordo che a volte a e r quasi si confondono nel corsivo, dulcis amor perias, è un commento forse attualizzato, possa tu morire dolce amore. Straordinario!»
«Proprio sul perias avrei dei dubbi, l’ultima lettera in pratica è da integrare, l’intonaco poi è crollato e la scritta poteva quindi continuare...»
«Ma no, anche altre s sono un po’ abbozzate e questo potrebbe far pensare alla stessa mano, poi siamo nel clima della citazione, con la ripresa dello stesso verbo. Ha dedicato alla persona amata uno dei più bei versi di amore tragico e poi la maledice, conservandole però tutto il suo amore. Amore: aveva bisogno di quella parola e di nessun’altra, capisci Guido, perciò ha fatto saltare la metrica nella citazione, ha mandato all’aria un verso di Virgilio per una parola, per dire quella parola, altro che le banalità che ho detto anch’io, non ricordava, citava a mente, ha semplificato... è la stessa mano, Guido, lo so, non è scientifico dirlo così  e non te lo dico ma è la stessa mano, il centro di tutto non è il verso di Virgilio ma questa frasettina qui, che ha richiamato Virgilio... e amor... Vanno a puttane le vite per una parola...non capita non detta non accettata... lo so. E poi è bello questo uso diverso di amor, la passione e l’oggetto della passione, la passione l’ha travolto e lui invoca la morte della dolce creatura che questa passione incarnava.»
«Ecco, a queste vette noi archeologi arriviamo di rado. Bisognerebbe approfondire l’aspetto strettamente paleografico...Vedo che non ti muovi male sulla grafia, studiaci un po’ intorno.»
«Che stanchezza! Mi sembra di aver imparato il latino stamattina.»
«In verità, a giudicare anche da quei tuoi ragazzotti che stanno a Pompei da stamattina presto e forse in questa stagione e a quest’ora starebbero molto meglio sulla costiera, mi sembra che qualcosa tu già ne sapessi.»
 Bravo Guido, anche tu con queste cazzate, tanto sei bravo ti sottovaluti non vuoi affrontare la realtà, ma non capite che io ho perso la chiave e quando perdi la chiave ed entri dal balcone non è mai la stessa cosa. Aspetta...c’è qualcosa di Borges che va bene adesso, Le mie notti sono piene di Virgilio, no, prima o dopo, se è ancora Borges. Avere saputo e dimenticato il latino è un possesso, ma ora te lo dico, Guido, basta con i messaggi che non arrivano, te lo dico e cerco pure di spiegartelo.
«Avere saputo e dimenticato il latino è un possesso, perché l’oblio è una delle forme della memoria, il suo vago scantinato, l’altra faccia segreta della moneta. Borges. Hai capito, Guido? Anche la memoria nasce dall’oblio, lo presuppone. Dimenticare è a volte inevitabile per conservare molto in fondo qualcosa che fa male, e io mi sono dimenticato, ho dimenticato me stesso. Adesso è giunto il momento di ricordare, ricordare le cose che già faccio, le cose che già vedo, che già sento, come faccio a ricordare Antinoo, dov’era già dentro di me? Non te lo dico questo, Guido, in fondo sei uno che capisce e poi io sono sempre più stanco. Sto sudando agli occhi - scherzò imbarazzato-. Vengo da lontano, da un paese in cui c’eri anche tu.»
«Lo so, cosa credi? Non ho dimenticato mai ma non so parlarne. Credo anche di sapere perché non sei venuto al tempio di Iside, perché... di tante cose fra noi, ma non so parlarne. Preferisco metterti costantemente davanti quello che sei stato e continui ad essere, ti appendo vestiti intorno perché tu un giorno scelga quale mettere. E comincio tra l’altro a parlare come te, brutto segno.»
«Assolutamente, allora bisogna smettere, tanto più che si sta facendo tardi.»
«Prima però devo dirti ancora una cosa. Di questi testi, se vuoi, puoi parlare in uno dei tuoi prossimi articoli su Passatovivo, un po’ più avanti.»
«Ma dai, a che titolo?»
«Andre’, non cominciamo con le cazzate... nemmeno io sono epigrafista. Sono il responsabile di questo settore dello scavo e darò comunicazione anche di questa parete nel prossimo resoconto di scavo sulla rivista della Sovrintendenza, a fine anno, più o meno. Non ti sto chiedendo di fare la pubblicazione scientifica su Epigraphica, quella figurati, ci si butteranno gli epigrafisti e i filologi dell’Università. Tu in quella  serie di articoli che stai scrivendo sui nuovi scavi, le nuove prospettive di lettura della città che stanno emergendo, non avevi annunciato proprio un viaggio attraverso la cultura, diciamo così, pompeiana? Bene, tra qualche mese, puoi parlare anche di questi testi, sta a te vedere cosa puoi ricavarne, dal tuo punto di vista, rimanendo te stesso. Pompei non appartiene solo a noi archeologi, no? Lo dici sempre... Qui c’è del materiale che ti ho fotocopiato nella nostra biblioteca, qui in Sovrintendenza, articoli e relazioni di scavo sulle scoperte di graffiti virgiliani negli anni Trenta e Cinquanta, cose che forse stenteresti a trovare fuori, altro dovrai cercare tu. Studiati tutto il dossier e quando vuoi venire a fare sopralluoghi per approfondire aspetti che oggi abbiamo solo sfiorato, dimmelo e parti.»
«Bello questo! L’ho cercato già tempo fa ma alla Nazionale non avevano questa annata della rivista... Ci penserò. Sul serio. Non so che dirti adesso ma ci penserò... Ora che fai? Vieni a salutare i ragazzi, spero che non si siano allontanati troppo.»
«No, sono in giro nelle vicinanze, quando tu stavi in trance ho detto loro di rivolgersi al custode quando volessero uscire dallo scavo e li ho già salutati, abbiamo parlato a lungo, non ti sei accorto di niente, ho dato anche loro dei nuovi pieghevoli che abbiamo fatto per le scuole. Quello alto, Enzo, ha visto tutto il lavoro sui giardini e mi ha chiesto anche se qui ci sarebbe lavoro per il padre. Ho detto che avrei fatto sapere a te.»
« Perché... tu potresti...?»
« Non è una cosa all’ordine del giorno ma può capitare.»
«Quel ragazzo mi preoccupa, per questa storia del padre disoccupato, che va avanti già da un po’, si sente caricato di responsabilità oltre misura e rischia di sbandare... con la testa e con la scuola. Ma allora vieni?» 
«Vado dentro, devo parlare ancora col custode. A presto, spero.»
Andrea lo vide rientrare senza voltarsi. Si allontanò di pochi passi poi ritornò indietro e sbirciò dentro: del custode nessuna traccia.
Che stai facendo Guido? Lo so che non parli, hai fatto sempre così, a volte mi chiedevo perché fossimo amici ma ogni volta che ci rivedevamo trovavo comunque una risposta. Tanto l’ho capito che il custode è andato via, devi parlare con qualcun altro, ti metterai in un angolo e ascolterai e mi parlerai. Mi parli sempre tanto quando non ci sono.
Diede ancora uno sguardo alle fotocopie, si allontanò stringendole nella mano sudata  e del sudore sentiva sulla carta l’impronta. Anche lui continuava a parlare.


Vide i ragazzi da lontano che ritornavano dal Foro verso il quadrivio di Olconio. «Scusatemi ma con Guido ci vediamo così poco...»
«È forte il dottore, sa un sacco di cose, non solo di storia o di roba classica. Ma siete proprio amici?» chiese Luca quasi poi arrossendo.
«Sì, penso di sì, a volte sembra strano anche a me ma credo sia così» sorrise.«Ma voi da dove venite? Noi dobbiamo ritornare proprio da quella parte.»
«No, è che dovevamo prenderti una cosa lì, al negozio vicino alla biglietteria, una cosa che dobbiamo darti qua, prima di uscire dagli scavi... per un fatto di atmosfera» intervenne Enzo porgendogli una busta con il nuovo simbolo degli scavi che si vedeva un po’ dovunque. «Questa è da parte di tutti noi, anche di Paola e di Giovanni che non sono potuti venire oggi.»
Andrea, sorpreso, trasse meccanicamente dalla busta una maglietta bianca con una coloratissima vignetta: un grande sole giallo spalancava il suo sorriso sulle rovine di Pompei, in un angolo un Vesuvio dallo sguardo mortificato, con un sigaro in bocca, si scusava contrito in inglese del disastro, Sorry, mentre tra ruderi e colonne spezzate un archeologo in tenuta alla Indiana Jones, con casco e lente d’ingrandimento, mormorava impassibile Not for me.
«Questa te la vogliamo vedere addosso, in paese... Anzi, te la puoi mettere su un bel jeans quando verrai a salutarmi una sera al pub, ogni anno ne parliamo, dici che vieni e poi non ti vedo mai.» «Almeno quando veniamo noi... così ci ricorderemo sempre di questa giornata.» «Ecco, l’idea di Michele è senz’altro più realistica. Grazie ragazzi, non dovevate ma è un bel pensiero.»
 Adesso la città intorno lo chiamava a sé mentre i ragazzi continuavano a intrecciare commenti, battute leggere che quasi non ascoltava più. Era l’ora bella di Pompei: una grande luce come increspata dal vento veniva dalla via dei Teatri, la pietra battuta e illuminata dal sole calante non restituiva più calore, tutto era nitido nell’aria pulita e gli occhi potevano fissarsi meno stanchi sulle cose. Forse una coppia di passeri intesseva ora i suoi voli nel peristilio deserto accanto al verso di Virgilio. Della vita segreta della città che ora si schiudeva avrebbe voluto essere parte. Il distacco gli tirava dentro come un tendine infiammato. Seguiva gli ultimi fuochi di luce sul selciato e quella scia luminosa gli diede la dolcezza di un congedo, come quando sul mare al tramonto le mille stelle di luce che increspano la superficie delle acque sembrano unirti a terre lontane  e pensi che l’orizzonte esista e si possa raggiungere.
 Le parole dei ragazzi ripresero a poco a poco forma e suono nella sua mente lontana e si ritrovò senza sapere come a camminare dietro di loro, lentamente, a guardarli uno per uno, ad ascoltarne i discorsi, come un’eco che gli penetrava e risuonava dentro. Ebbe l’impressione che tra Enzo e Michele fosse scattata una certa complicità: «Ma vieni a giocare qualche volta con noi il sabato. Che te ne frega? Ti metti in difesa, lì siamo un poco scarsi, tu vai sui piedi e non ti preoccupare» sentì che diceva Enzo con una certa aria protettiva.
Forse possono diventare amici, chi sa, sono così diversi che gli potrebbe fare bene anche se Michele poi secondo me in fondo è uno tosto, dietro quell’aria allampanata c’è carattere. Ma che faccio? Voglio fare una specie di famiglia? Ma no, andranno via ognuno per la sua strada. Vedi? Li prendi e li perdi ad ogni angolo,  resterà questa maglia che forse non metterò mai... non sono il tipo... e quell’altro che vuole che me la metta per andare al pub e continua a insistere su questa storia del pub, buttandola lì come per caso, per non darle importanza forse, perché sembra importante che io ci vada?... e poi parla a Guido del padre disoccupato... però... appena un anno fa avrebbe considerato questa cosa umiliante. Mentre sbanda si scioglie, forse questo è un segreto della vita che la deriva ti smarca e quello che perdi poi ti ritorna da dentro.
Ad uno dei chioschi fuori degli scavi offrì una Coca-cola mentre il sibilo dei treni della Vesuviana li portava già verso casa. Il giovanotto al banco aveva ancora voglia di scherzare e i ragazzi ci stavano. Un’espressione più vivace con la quale a un certo punto si rivolse a qualcuno alla sua destra lo guidò verso un braccio ben modellato che posava sul banco un enorme bicchiere di spremuta. Quando alzò gli occhi, Antinoo gli rivolgeva già le spalle: aveva colto solo la cenere di un sorriso rivolto alla ragazza al suo fianco. Poi lo vide allontanarsi lentamente, ancora a torso nudo come di mattina, la maglia buttata con studiata noncuranza su una spalla.
Forse andrebbe bene a te questa maglietta qui che sa di ragazzo in gita, forse ne hai comprata una simile e ce l’hai in quello zainetto che ti segnava  le spalle. Sì, ti andrebbe bene, con i suoi colori, con la sua ironia... l’hanno regalata a me... ed ora te ne vai e forse non mi hai nemmeno visto... dulcis amor perias... muori ma senza lasciarmi, non andare via così, muori ma non prima non prima... non prima ch’io abbia saputo cosa di te mi resta dentro per sempre... Lasciami qualcosa, anche solo la memoria. Ero forse come lui, Guido, quando ti dissi Andiamo a fare le vacanze insieme e avevo paura, e tu mi dicesti No quest’anno vado in Germania a perfezionare il mio tedesco e non se ne fece niente... per sempre. E io avevo paura ma te lo avevo detto e non lo ricordavo più. Te l’avevo detto io, Guido, sono stato io a dirtelo... io allora avevo desideri e poi non più.
Una chiazza di luce sempre più larga era tra loro. I suoi ragazzi ormai lo coprivano. Michele invitò a muoversi perché era quasi ora del treno e si avviarono. Andrea  cercò ancora Antinoo con lo sguardo ma non riuscì più a trovarlo. Arrivò alla stazione svuotato,  forse anche leggero.
Su una panchina sfogliava distratto le fotocopie. Enzo gli si sedette accanto. «Al dottore ho parlato di mio padre, gli ho chiesto se c’è lavoro per lui al cantiere dello scavo... forse dovevo parlarne prima a te... lo sai come stanno le cose...» «Sì lo so,  ne abbiamo anche un po’ parlato, se vuoi ne riparliamo... Guido mi ha accennato qualcosa ma non c’è problema, hai fatto bene, poi glielo ricordo anch’io». «Cosa sono quei fogli? Devi scrivere un altro articolo?». I grandi occhi chiari, concentrati su di lui, sembravano ora taglienti, esigenti.
 Perché  cambi discorso e mi fai questa domanda, perché i tuoi occhi sono ora scuri e duri? C’è una soglia oltre la quale non si può andare, vero ragazzo? Meglio spostare su un altro le proprie domande. Cosa ti aspetti da me, chi devo essere per te? Cosa ti rispondo adesso se non so nemmeno cosa mi stai chiedendo? Bisogna darla una risposta comunque, non definitiva ma bisogna darla... Forse nemmeno la tua era definitiva allora, Guido, ci hai mai pensato?
 Sentì la sua voce rispondere: «Sì, me lo ha proposto Guido...»
Le porte del treno si aprirono di scatto mentre il ragazzo voleva dire ancora qualcosa e le parole gli si vedevano sul viso ma bisognava occupare subito quattro posti. Andrea lo vide sedersi assorto vicino al finestrino di fronte a lui e a Luca, accanto Michele gli poggiava delicatamente il capo sulla spalla. «Resta così, non ti muovere troppo, così non mi va il sole negli occhi». Sentì una fitta di tenerezza che era quasi dolore. Presto li avrebbe guardati dormire.

 

   
 
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