Cap. 1
Ho
sempre odiato volare. Fare quelle
file interminabili all'aeroporto e salire su un aereo per andare
lontano.
Eppure lo stavo facendo, stavo scappando da un luogo che non sentivo
più mio,
da qualcuno che non sentivo più mio.
Baltimora
era sempre stata la mia
città, lì avevo la mia casa, i miei amici, il mio
lavoro. La mia fidanzata.
Già, avevo. Fino a poche ore prima di salire sul volo B215
per Los Angeles,
dall'altro lato del continente, seduta di fianco ad un uomo sulla
cinquantina
abbastanza in carne e un po' imbranato. Almeno, però, mi
trovavo dal lato del
finestrino, così potevo godere del panorama.
Il
volo fu tranquillo, dormii per
circa tre ore e passai il tempo a scorrere tracce sul mio iPod poco
aggiornato,
in cerca di qualche canzone che rispecchiasse il mio umore.
Atterrai
nell'aeroporto di Los Angeles
alle 11.20 di una notte di luglio. Era la città degli
angeli, la città in cui
tutto è possibile e, chissà, magari sarebbe stato
possibile per me dimenticare
la persona che mi aveva spezzato il cuore.
La sera prima della partenza avevo
prenotato una stanza in un hotel nel cuore di Santa Monica. L'ironia
della
sorte volle che l'hotel si trovasse proprio sulla
“mia” strada, l'Arizona
Avenue*.
Così,
uscita dall'aeroporto, mi
diressi verso la stazione dei taxi lì vicino. Impiegai poco
meno di un'ora per
arrivare all'hotel. Avevo con me solo una valigia e uno zaino. Non
avevo avuto
né tempo né voglia di raccogliere tutti i miei
averi, perciò portai con me solo
l'indispensabile.
Pagai
il tassista molto cortese e mi
avviai all'ingresso dell'hotel. Porsi i documenti alla receptionist, la
quale,
subito dopo, mi consegnò la chiave della mia camera. Era una
doppia al quarto
piano, una delle poche rimaste libere, con un letto matrimoniale
collocato
sulla destra, il bagno e un armadio sulla sinistra e una grande
finestra di
fronte che si affacciava sulla città.
Era
una camera abbastanza spaziosa ed
ero certa che sarebbe stata anche luminosa con la luce del giorno.
Pur
essendo tardi, paradossalmente non
ero per niente stanca nonostante il pessimo umore e il lungo viaggio,
così
sistemai la valigia e lo zaino ai piedi del letto e decisi di farmi una
doccia
veloce e un breve giro della zona in cui era collocato l'hotel.
L'edificio
in cui alloggiavo era situato
all'angolo con la 3rd Street Promenade**, un
lungo e largo viale
pedonale pieno di negozi, locali e di gente che passeggiava
chiacchierando e
divertendosi.
Cominciai
a camminare chiedendomi se
davvero fossi l'unica in giro da sola per le vie della
città. Mi guardai
attorno: c'erano molti alberi sui lati del viale e delle strane fontane
a forma
di animali diversi al centro di esso. Mi sentii improvvisamente
malinconica,
quale ero in realtà. Mi venne, quindi, un'improvvisa voglia
di bere qualcosa
perché, in quel momento, vedevo in un po' d'alcool il mio
migliore compagno per
la serata.
Entrai
in un pub a caso a quattro
isolati dall'hotel. Non era molto luminoso, le luci erano soffuse, ma
non era
di certo un locale elegante. C'era la musica alta che pompava nelle
casse appese
agli angoli del soffitto e molti giovani seduti ai tavolini sulla
destra che si
perdevano in risate tra un drink e l'altro. Al centro della sala erano
appesi
dei teleschermi che trasmettevano una partita dei Dodgers. Alla mia
sinistra,
invece, c'era il bancone, molto lungo, al quale ci si poteva appoggiare
sedendosi sugli sgabelli lungo il lato. Notai molte bottiglie di
alcolici poste
su una mensola dietro al bancone. Erano disposte per colore e
ciò provocava un
effetto affascinante. Si passava dal giallo del Limoncello, al rosso
del
Campari, al blu intenso del Curaçao, fino al marrone scuro
delle bottiglie di
vari amari.
Mi
feci avanti e andai a sedermi su
uno sgabello stranamente libero; il locale era molto affollato. Un
giovane
ragazzo dietro al bancone si avvicinò. Oltre alla musica
assordante, c'era
molto chiasso in quel momento perché un giocatore dei
Dodgers stava velocemente
avanzando sulle quattro basi del diamante in cerca di un ulteriore
punto per la
sua squadra.
“Ciao,
ti porto qualcosa?” urlò chinandosi
verso di me.
“Vorrei
un Martini con la vodka, per
favore!” con lo
stesso tono.
Lui
non fece in tempo a girarsi per
prepararmi quello che avevo ordinato, che subito fu chiamato da un
responsabile
per andare nel magazzino a prendere un altro barile di birra, quasi
esaurita.
Mi
guardò dispiaciuto, “Scusami,
ti faccio servire da lei!”,
disse due parole ad una collega e corse via.
Lei
si mise di fronte a me asciugando
un bicchiere.
“Ciao,
hai ordinato un Martini?”
“Con
la vodka per favore” annuii.
“Vodka
eh? Ci andiamo giù pesante
stasera” mi sorrise.
Ricambiai
il sorriso, ma un po'
forzatamente. Mi versò ciò che avevo richiesto,
ma quei minuti sembrarono
interminabili. In quegli attimi quasi infiniti mi soffermai a guardarla.
Aveva
lunghi capelli neri, scuri,
avvolti in una coda alta con due piccole ciocche fuori posto. Portava
degli
orecchini dorati a forma di cerchio e indossava una camicetta bianca a
maniche
corte, dietro ad un grembiule bordeaux che faceva intravedere
l’importante
scollatura.
“Ecco
a te!” sollevò lo
sguardo e mi sorrise.
I
suoi occhi erano scuri, profondi,
come non ne avevo mai visti prima. E aveva delle labbra carnose, e un
sorriso
splendido.
Afferrai
il bicchiere e bevvi tutto
d’un sorso. D’un tratto sussultai a causa delle
esultanze degli altri clienti
dovute alla vittoria del match da parte della squadra di casa.
“C’è
sempre così tanta confusione qui?”
“Sempre.
Ma quando c’è una partita ancora di
più.”
Capii,
quindi, che doveva essere un
locale molto alla buona, uno in cui si andava per bere e divertirsi con
gli
amici per passare una piacevole serata in compagnia.
“Scusami
ti devo lasciare, ci vediamo eh!”
e si allontanò andando a servire una coppia di amici.
Le
feci cenno di saluto con una mano,
finii il mio drink, ma rimasi ugualmente seduta a guardarmi intorno.
Mi
erano rimasti impressi i suoi
occhi, il suo sguardo. E doveva essere di certo latina
perché la sua carnagione
era leggermente più scura della mia.
Dopo
qualche minuto afferrai la borsa,
pagai il conto, mi alzai e mi avviai verso l’uscita del
locale. Feci pochi
metri rendendomi conto solo dopo di non aver letto nemmeno il nome del
bar in
cui ero appena stata. Così tornai indietro, più
che altro per curiosità.
Sollevai la testa verso l’insegna e lessi “The
Dark Brown Bar”***.
Come
il colore dei suoi occhi. Rimasi
un po’ spiazzata, ma feci un sorriso spontaneo, e lentamente
mi incamminai
facendo ritorno verso l’hotel.
to be continued…
*Arizona
Avenue: per chi non lo
sapesse esiste davvero a Santa Monica e l’ho scoperto per
caso! Così l’ho fatta
diventare pura coincidenza.
**3rd
Street Promenade:
anche questa esiste davvero ed è un viale perpendicolare
all’Arizona Avenue. È esattamente
come l’ho descritto. Se volete farvi un’idea
dell’ambientazione della storia
cercate queste due vie su Internet u.u
***“The Dark Brown Bar”: questo non esiste, me lo sono inventato u.u
Note dell’autrice:
Dunque, dunque, dunque.
È un po’ di giorni che mi frulla in testa questa idea, perciò ho deciso di farci una fanfiction :3
È
la prima che scrivo e non so ancora bene come si concluderà,
quanti capitoli saranno ecc.
Fino
ad un certo punto della storia ho
le idee chiare, poi…il vuoto! Non so ancora quando
aggiornerò, ma avendo già
idee per i prossimi, magari si scrivono in fretta e magari una volta
alla
settimana potrei essere con voi. Forse anche prima!
Ditemi
se vi piace, se siete curiosi,
se volete che continui, se vi fa schifo...magari tramite una
recensione,
insomma u.u
Detto
ciò vi lascio e corro a scrivere
il secondo *_* Alla prossima!
#acca#