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Autore: lamialadradilibri    02/10/2014    0 recensioni
Susan e la madre Rose sono in fuga. A cercare di raggiungerle, il passato.
Dopo il tradimento del marito, Rose capisce che nel paesino dove viveva con la figlia non c'è più spazio per loro. Quello è un luogo piccolo, sperduto, fuori dal mondo, dove nessuna delle due potrà trovare il proprio posto. E' così che Rose e Susan si trasferiscono in una lontana città, in una casa dall'aria sinistra e cupa.
Ma questa non è la parte peggiore. Loro credono d'aver posto fine ai loro problemi, al loro passato: non è così. Non solo dovranno fare i conti con ciò che accadde nel paese, ma dovranno anche sopravvivere a ciò che le attende per il futuro.
In questo macabro scenario entra in gioco Tate, un ragazzo strano, taciturno, incoerente.
Quale sarà l'epilogo della storia delle due donne?
LAMIALADRADILIBRI
Genere: Suspence, Thriller, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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Ci hai mai pensato? Le cose più belle accadono all’improvviso, ti lasciano senza fiato, senza parole. Non riesci neppure più a parlare, puoi solo pensare “Oh, mio dio”.
E la sai un’altra cosa? È così anche per le cose peggiori, le più brutte. Amen.

CAPITOLO UNO.
L'arrivo nella nuova casa.

Quando mia mamma mi svegliò prestissimo, quella mattina, mi sembrò che il mondo dovesse crollarmi addosso. Proprio così, quella mattina ero un’egocentrica catastrofista leggermente instabile. Perché quella non era una mattina, no – quella era la mattina.
La mattina dei miei sedici anni,
la mattina della partenza.
Io, mamma e nessun altro avremmo lasciato la nostra casa.
Mamma diceva che era perché non le piaceva più vivere nel nostro paesino, che era troppo chiuso e le stava stretto. E poi, aggiungeva sempre con un’aria solenne, cosa mai potrei trovare io, adolescente piena di sogni e speranze, in un buco – sì, usava proprio questo termine – come questo? No, no, così non poteva andare. Per niente! Bisognava scappare via prima che l’intero paese ci inghiottisse nel suo tran tran quotidiano, così arretrato.
Ma ora ecco la verità. Tutto è cominciato un’estate fa, quando mio padre – ormai stento a chiamarlo ancora così – ha tradito mia mamma. Lei l'ha scoperto molto presto, ovviamente – ho già detto che vivevamo in un buco, dove tutti sapevano di tutto di chiunque? Bene, perché era così.
Nell’arco di una giornata, mia mamma sapeva già tutto. Mi correggo: mezzo paese sapeva già tutto – la restante metà lo scoprì soltanto il giorno dopo ed il motivo di questo strano ritardo non ci è, ahimè, noto. Io lo scoprii quella sera stessa, sentendone parlare da due anziane al parco. Mi bastarono pochi minuti, e già sapevo il nome della donna, la sua età, dove viveva, se aveva figli o animali domestici. Ho cercato in ogni modo di eliminare quegli istanti dalla mia mente, ma mi è impossibile. È stato tutto così umiliante, disgustoso, terribile. Ed è tutto nella mia mente. Tutto. E la voce di Marge che mormorava: “Oh, povera Rose. Perché è capitato proprio a lei”.
Ecco perché mia madre voleva scappare. Ma volevo scappare anch’io. Mi sentivo anch’io tradita e ne avevo tutte le ragioni. Volevo fuggire, certo, ma non volevo perdere i miei amici del paese. Quando l’avevo confessato a mia mamma,  lei aveva riso. «Sai quanto ci metterai a scordarli, Susan? Meno di una settimana. Te lo prometto.»
Ma la sua voce celava un'altra accusa. Un'accusa non rivolta a me, ovviamente – non avevo colpe, né mai ne avrei avute. Era un'accusa verso mio padre, Luke. “Come lui ha scordato me, anche tu scorderai loro!”. Ma io non volevo essere così, non volevo essere una traditrice.
Lo sarei diventata.
Lo diventano tutti, prima o poi.
Mamma aveva preparato tè, caffè, latte caldo ed una gran quantità di biscotti. Lo aveva fatto perché dovevamo eliminare un po' di cibo, prima di partire – lanciai un'occhiata alla dispensa, piena. Mamma non doveva aver progettato di partire così presto ma chissà, forse non era più riuscita a sopportare le occhiate di tutti. Nemmeno io ci riuscivo più.
Anche i miei amici stavano iniziando a guardarmi con pietà.
“Povera, suo padre si è fatto un'altra.”
Solo Amy, oh Amy, dolce piccola Amy, mi era rimasta accanto. Solo lei, fra tutti.
Mi fiondai sul mio latte – sono una che, la mattina, ha molta fame. Anche quella, mattina. Nonostante tutto.
“Allora, pronta?” mi domandò mia mamma. Pensavo avrebbe iniziato ancora una volta la solita pappardella – nuova casa, nuova città, nuova vita –, ma non andò così. Basta mentirci, mamma. Soffriamo.
“Sì. Più o meno.” Lasciai cadere giù nel latte un biscotto. Affoga, affoga. Amy. “Vorrei salutare Amy, prima di andarmene. Ma immagino sia un po' presto”. Erano le 5:49, e sapevo che Amy era già sveglia, sotto casa mia, da ore. Il suo ultimo sms, delle 5:21, diceva così: “Senza il mio saluto, non scappi. Sono fuori, ti aspetto. Ah, buongiorno.”  Come potesse essere un 'buongiorno', lo sapeva solo lei.
“L'ho vista, giù. Esci, dai.” Mi sorrise mia mamma. Il suo primo vero sorriso, dopo giorni.
“Grazie, mamma!”
Uscii, dimenticandomi completamente del biscotto che avevo lasciato nel latte.

Amy era seduta sul muretto di casa mia. Cioè, in realtà non era casa mia, non più. L'avevamo già venduta.
L'offerente? Un uomo obeso, ricco sfondato, disposto a pagare anche il triplo del prezzo della casa perché gli piaceva il boschetto che c'era dietro. E così ci eravamo ritrovate ricche in pochissimo tempo.
Mi si avvicinò, con quella sua aria sbarazzina e lievemente alla francese. Aveva i capelli corti appiccicati alla fronte, più scuri del solito; gli occhi erano cerchiati da un alone scuro ed erano tristi, distrutti. Tra noi due chi era la più forte? Probabilmente, nessuna.
“Amy...”
Sorrise debolmente. “E così, è la mattina”.
Scrollando le spalle, borbottai un “sì” non molto convinto. La abbraccia così forte che le mie ossa scricchiolarono o, chissà, forse erano le sue. Eravamo così vicine da essere un'unica persona.
“Buon compleanno, Susy.”
E che bel compleanno.

Mia madre uscì di casa poco dopo. Aveva con sé due grandi borse e trascinava rumorosamente un trolley nero – il mio trolley, che avevo comprato un anno prima,  in Spagna. “Susan! Susan, dai, vieni. C'è  ancora molto da sistemare”.
“Vi aiuto!” si propose Amy, correndo verso mia madre. Lasciò dietro di sé una scia di profumo alla lavanda misto a lacrime, il profumo di un addio inaspettato.
In meno di mezz'ora tutti i nostri averi più cari erano già stati caricati nelľauto di mamma, una Punto nera ma ben funzionante. “Ecco qua”, esclamò infine Amy, uscendo dal bagagliaio dell'auto. Mamma le lanciò uno sguardo grato.
“Non c'è niente che possa fare per ringraziarti?”
“Oh, no... per favore”.
Mia mamma annuì e si lasciò sfuggire un sorrisino. “Monta su, Susan” mi incitò, senza però guardarmi. E poi, più piano – ma la sentii comunque – aggiunse: “Ora su, va da mio marito e dì lui che sua moglie è scappata”. Amy incassò silenziosamente il colpo, senza muovere un muscolo. Sapeva che mia mamma non odiava lei, ma il paese interno, ed Amy ne faceva parte.
“Lo farò. Buon viaggio. Ah, verrò a trovarvi, appena posso”.
Appena posso. Cioè “mai più”.
Saremmo andate dall'altra parte dell'America, in una città grande e caotica. Amy non sarebbe mai venuta, né nessun altro. Nessuno. Lo sapevo io, lo sapeva mia mamma e lo sapeva la mia amica, ma nessuna osò sollevare alcun commento.
“Ti aspettiamo.” dissi per entrambe, mentre facevo il giro dell'auto. Lei mi seguì.
Mi afferrò il polso. “Ehi, verrò. Credimi” sussurrò, con gli occhi lucidi.
Oh Amy. Non la avevo mai vista piangere.
“Scusa per mia mamma. È fatta così.”
Lei scosse il capo. Mi abbracciò l'ennesima volta e, con un singhiozzo, scappò via. Scappa, Amy.

Eppure, sentire, nei fiori e tra l'asfalto, nei cieli di cobalto c'è...  Un senso di te...”
Mamma spense la radio. Aveva gli occhi lucidi.x
“Cosa è questa lagna?”
“Elisa, ma'. Non ti piace?” Troppi ricordi?
Scosse il capo e continuò a guidare. Eravamo già uscite dal paese, non che ci volesse molto, ovviamente; mi sembrava di dover girare la pagina troppo pesante di un libro che nessuno aveva più voglia di leggere. Ma io dovevo girarla, quella pagina.
“Per niente, no. È un po' triste, ecco.”
Un po' triste. Un po' come noi due.
“A me sì, invece...”
Stavo finendo quella frase, quando un'auto passò accanto a noi, sfrecciando veloce. L'autista suonò il clacson prepotentemente, e poi urlò.
“Dove scappate, eh? Non potete! Tutti sbagliano!”
Mio padre. Un uomo di mezz'età su un'Audi nuova, fiammante, rossa. Sguardo stanco e due occhi neri, piccoli, lucidi.
“Ho anche io diritto ad una seconda possibilità!” strillò forte.
Okay, la situazione stava diventando un po' troppo melodrammatica, mi sembrava di essere in uno di quei libri strappalacrime e decisamente troppo romanzati, che leggi solo perché ti sono stati regalati da un caro amico che, presto o tardi, ti chiederà: “Allora?  Lo hai finito? E com'era?”. Ma eccomi qua, Susan, sedicenne da poche ore, tante lacrime tenute a stento dentro me, per sembrare più forte. Io non leggerò quel libro patetico, porrò lui fine.
“Mamma, va avanti”. Dissi seria. Mamma stava rallentando. “Su, il viaggio è lungo”.
Lei annuì, ingranando la marcia. Mio papà, nella sua bella audi fiammante, rimase fermo al semaforo, che urlava ancora. Pietà. Provai pietà. Null'altro.
“Vita nuova” esordì mia mamma l'ennesima volta, più per convincere sé stessa che me.
“Ci piacerà” aggiunsi. Ma non sapevo quanto mi stavo sbagliando, non potevo ancora saperlo.

Arrivammo alla nostra nuova casa dopo troppe ore. Se io ero a pezzi, mia mamma non riusciva neppure più a reggersi in piedi. Non eravamo abituate né ai traslochi, né a fare viaggi così lunghi e tormentati, così decidemmo di lasciare tutti i bagagli in auto, portandoci dietro solo lo stretto necessario per una notte, ed entrammo nella nostra nuova dimora.
Non l'avevo immaginata così. Per niente. Era totalmente diversa dalla nostra villetta in paese nella quale, da un anno circa, mio papà non abitava più. Questa, era un'enorme casa in stile vittoriano – ipotizzai, non essendo un'esperta d'architettura –, doveva avere più piani – almeno tre – ed era interamente circondata da un giardino dell'erba verde e rigogliosa. Sembrava un po' una casa delle principesse, se non fosse stato per un'aura scura che sembrava circondarla.
“Bella” commentai, mentre entravamo. In realtà era tutťaltro che bella, alľinterno: era arredata in stile tetro, molti mobili erano ancora coperti da lunghi lenzuoli ed aveva l'aria di essere una casa dell'orrore.
Rose annuì. “Sì, molto bella, vero? Susan, la tua camera è su, al secondo piano. Non ricordo dove siano i bagni... So solo che ora mi butterò su questo divano a dormire.” Mi informò mamma, sedendosi sul divano in questione. Anch'esso era coperto da un lenzuolo, ma lei non ci badò e vi si gettò sopra in posizione fetale. Vista così sembrava più giovane ed ancor più bella, forse.
“Perché la casa ha già i mobili?” Domandai ancora, curiosa. Mia mamma non mi aveva praticamente parlato di questa casa e solo ora, all'ultimo momento, mi rendevo conto che avrei dovuto farle più domande – tuttavia ero stata così presa dal mio incubo personale, dal dover lasciare Amy, dall'insultare mio padre... E così, semplicemente, non mi ero resa conto di tutto ciò che avveniva attorno a me.
“Hmm, il precedente proprietario li ha lasciati qui... Non ricordo perché. Boh. Carini, ver” Mamma non riuscì a finire la frase, stremata, e si addormentò.
Mi guardai attorno. Stranamente mi sentivo osservata...  Chissà perché? Lì dentro non poteva – non doveva – esserci nessuno, la casa era stata disabitata per un bel po'.
Cominciai a salire le scale di legno. Scricchiolarono terribilmente, tanto che temetti di svegliare Rose, con quel fracasso. Ma non accadde: mia madre sembrava come morta, buttata lì su quel divano. Mi costrinsi a non tornare giù per controllare come stesse realmente. Perché dai, non poteva essere morta sul serio. No?
Oddio. Davvero stavo diventando così paranoica? Salii gli ultimi gradini più velocemente, stringendo in modo quasi doloroso la mia trousse ed il cellulare. Dovevo scrivere ad Amy, gliel'avevo giurato.

“Ehi, Amy. Sono arrivata alla nuova casa. Tu come stai? Io piuttosto male. Per di più Rose è sul divano, a pezzi. Mi sa che dovrò passare un po' di tempo sola. Mi manchi. X.”

Dopo, mi guardai attorno, preoccupata. Sì, qualcosa nella casa, o della casa, sembrava mi stesse osservando. Meno male che non credevo ai fantasmi, né ai fenomeni paranormali, perché lì dentro c'erano parecchi scricchiolii preoccupati.
Corsi per tutto il corridoio – no, non avevo mica paura, solo sonno! – e, non appena trovai una camera, mi ci fiondai dentro, sbattendo dietro di me la porta. Ero così terrorizzata da non rendermene neanche conto.

Era arrivata la nuova vicina. O meglio, le nuove vicine. Le avevo osservate, come solo io so osservare; silenzioso, mesto, attento. infondo, lo ero sempre stato ed era ciò ad avermi salvato. Quando sia Rose – così sia chiamava la donna più anziana, d'una bellezza quasi inaudita –, che la figlia Susan – non meno bella della madre, ma con qualcosa di misterioso sia dentro che fuori, nell'aspetto... Qualcosa che non riuscivo a decifrare neppure io che, solitamente, ero bravo a leggere le persone – si perso furono addormentate, osai allontanarmi dalla loro casa, e tornare alla mia. Mi dovevano i muscoli per il troppo tempi passato appeso all'albero ad osservare Susan. Così bella. Così dannata. Come me.






Fine primo capitolo.



Angolo dell'autrice
.

Rieccomi! Dopo un bel po', ricapito qui, su efp. Scrivere è la mia passione, il mio modo di sfogarmi... in sostanza, dubito vi libererete mai di me!
Un piccolo avvertimento: sì, lo so, sembra la trama di AHS. Non lo è! La storia si svolgerà in modo totalmente diverso, perciò non ho voluto classificarla come una ff.
Vi ispira? Vi piace? Spero non ci siano errori, perché ho dovuto scriverla con un'app sul telefono, essendo il mio pc leggermente scassato, va e viene, insomma. Povero piccolo!
Ed ora ecco qua un piccolo anticipo di ciò che leggerete nel Capitolo 2:

La raggiunsi all'ingresso e così vidi i suoi interlocutori. Una donna anziana, magra, con un sorriso molto largo e gli occhi sbarrati; una ragazza tazza, senza forme, con i capelli scuri e la bocca aperta in un'espressione inquietante; e poi c'era un ragazzo, biondo, alto. Già dalla mia distanza capii che doveva essere bellissimo, quel genere di bellezza senza tempo che non dipende solo dai muscoli e da un paio di occhiali da sole.
Spero che la storia v'intrighi e cominciate a seguirla. In ogni caso grazie per aver letto fin qua giù ( <3 ) e spero di leggere qualche vostra recesione! :)

Un bacio,
lamialadradilibri 
(per chi mi seguiva già da un po', sì, sono sempre io, meme1)

xx

 
  
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