Carlos scoprì quella porta poco dopo aver traslocato con la famiglia.
La casa era molto vecchia, con una soffitta, una cantina, e un giardino pieno di erbacce e di grossi e vecchi alberi.
Date le sue notevoli dimensioni, però, non era occupata esclusivamente dalla famiglia di Carlos. I suoi ne possedevano solo una parte.
Nel resto dell’edificio abitavano altre persone.
Nell’appartamento al pian terreno, sotto quello di Carlos, viveva l’anziana signora Josie. La donna viveva in compagnia di creature – a detta sua – che chiamava angeli e che –sempre secondo lei – andavano tutte sotto il nome di Erika. In passato Josie aveva fatto parte di una squadra di bowling ed era stata nominata campionessa per diverse volte di seguito – come lei stessa aveva rivelato a Carlos non appena si erano conosciuti.
Nell’appartamento sopra quello di Carlos, viveva uno strano uomo mezzo calvo, un barbiere in pensione, che sosteneva di essere capace di acconciare i capelli di chiunque, ma la realtà era che non era neanche capace di distinguere tra persone e piante, o per lo meno si confondeva spesso, e i suoi ultimi clienti, diciamo negli ultimi vent’anni, erano stati per lo più cactus.
«Un giorno, piccolo Carlo, quando lo riterremo opportuno, ti taglierò i capelli. Mi domanderai perché non posso tagliarteli adesso… – in realtà Carlos non aveva chiesto niente, aveva solo ribadito che il suo nome finisce con la “s”: Carlosss – beh, non è ancora il caso. Voglio sperimentare dei nuovi tagli prima, ma non riesco a trovare persone disposte a fare da cavie. Eppure le ultime con cui ho lavorato si sono dette più che soddisfatte… Vedrai, sarà fantastico!»
Carlos era più che convinto che questi fantomatici clienti non fossero altro che malcapitati arbusti, dato che da quel poco che era riuscito a sbirciare nell’appartamento c’erano rami tagliuzzati su tutto il pavimento, inoltre la stanza emanava un tale odore di piante rancide, così acre e nauseabondo, che non aveva avrebbe avuto il coraggio di mettere un piede all’interno neanche volendo.
Esplorò anche nei dintorni, in cerca di qualcosa di interessante per poter fare un po’ di scienza – il suo sogno era diventare uno scienziato, dopo tutto. Scoprì che in fondo al giardino c’era un’ampia foresta che stranamente sembrava sussurrare quando ci si passava vicino. Non era sicuro di cosa dicesse, né che parlasse affatto, ma ebbe l’impressione che quei sussurri fossero dei complimenti e si sentì inspiegabilmente edificato nel riceverli. C’era anche un parco per cani, a vederlo si sarebbe detto che nessuno ci entrasse da una vita, anche se Carlos era abbastanza sicuro di aver intravisto delle figure incappucciate aggirarsi al suo interno. Comunque avevano un’aria poco rassicurante e per il momento decise di non indagare perché doveva finire il suo giro di ricognizione. C’era anche un cerchio di eliotropio, rocce di un verde scuro che sotto la luce risplendevano di particolari riflessi rossi che le facevano sembrare coperte di sangue. Non aveva idea di come fossero finite lì o di chi avesse fatto il lavoro di metterle in cerchio, ma eccole lì. In fine, c’era una casa che non esisteva. Avrebbe avuto senso che esistesse, dato che era situata tra altre due case perfettamente identiche, ma non esisteva. La signora Josie l’aveva avvertito di stare alla larga perché poteva essere pericoloso, ma non aveva resistito ed era andato subito a cercarla. Del resto doveva sapere dov’era, se voleva starle lontano, giusto? Ebbene, eppure sembrava una casa normalissima, a parte per il fatto che sbirciando dentro attraverso la finestra si vedeva una casa completamente vuota, con dentro solo uno strano uomo che fissava una figura in cornice, mentre se si entrava dalla porta – Carlos aveva bussato e gli era stato aperto – la casa appariva abitata e ad aprire veniva una simpatica signora.
Era anche stato a caccia di animali e aveva trovato diversi cani selvatici dall’aspetto spaventoso, che però non sembravano aver voglia di fare alcun danno, se non disegnare qualche graffito qua e là con delle bombolette spray. C’era anche un gatto, un po’ schivo, che lo seguiva e lo osservava da lontano, ma non si lasciava toccare per cui era impossibile giocarci.
Dopo qualche settimana aveva esplorato tutto il possibile e forse anche un po’ dell’impossibile e avrebbe cominciato con l’improbabile se non fosse che il tempo decise che quel giorno non se ne parlava proprio di uscire di casa: pioveva a dirotto.
La madre di Carlos era impegnata nei suoi ultimi esperimenti e se ne stava tutto il giorno a fare calcoli e a far esplodere cose, per cui non aveva tempo per dare retta a Carlos che la assillava.
«Se
ti annoi trova qualcosa
da fare in casa. Ad esempio svuotare gli scatoloni. Viviamo qui da tre
settimane ormai e la tua cameretta è ancora un
cantiere!» fu l’unica cosa che
gli disse prima di smettere nuovamente di ascoltarlo.
Stanco
di chiedere e
richiedere il permesso di uscire, si arrese e provò a
rivolgersi al padre. Non
ottenne risposte molto differenti, ma almeno gli fece una proposta che
Carlos
ritenne più costruttiva: «Un bravo scienziato deve
innanzitutto raccogliere i
dati. Perciò fai un giro della casa e conta tutte le porte,
tutte le finestre,
e tutte le cose che razionalmente non dovrebbero esistere ma esistono
lo
stesso.»
Eccitato,
Carlos afferrò un
blocchetto e una penna e corse per il corridoio. Dopo poco tempo aveva
già
raccolto tutte le informazioni e le aveva appuntate sul blocchetto.
Una
delle porte che aveva
trovato, però, aveva attirato la sua attenzione,
perché non era certo a quale
lista appartenesse: quella delle porte o quella degli oggetti che non
dovrebbero esistere razionalmente ma esistono lo stesso.
Provò ad aprirla, ma
scoprì che era chiusa, quindi chiese la chiave a sua madre e
tornò in soggiorno
per aprirla. Con sua sorpresa, la porta si apriva sul vuoto. Il vuoto
più totale.
Non luce, non oscurità, semplicemente vuoto. Un
po’ deluso la richiuse, ma
senza inchiavarla, e sbuffò tra sé scribacchiando
sul blocchetto.
✓
Cose
che non dovrebbero esistere
razionalmente eppure esistono lo stesso: 13
Quella
sera andò a letto
presto, ma il suo sonno fu disturbato da strani fruscii. Quando
aprì gli occhi,
gli parve di vedere un’ombra sgusciare via nel buio e decise
di seguirla. La
seguì fino in soggiorno, dove l’ombra
sparì nell’angolo più buio della
stanza,
quello dove c’era la porta. Incuriosito, Carlos
aprì la porta, ma non vide
altro che il vuoto. Pensò di essersi sognato tutto, la
richiuse e tornò nel suo
letto, dove si addormentò subito.
Sognò
di ombre che correvano
nel buio, con le loro migliaia di zampine e di occhi e di zanne.
Il
giorno dopo il tempo era
migliorato – per così dire, in realtà
c’era molta nebbia, ma Carlos decise di
uscire lo stesso.
Vagò
nel giardino, usando un
bastone per orientarsi, dato che non si riusciva a vedere niente a
più di un
palmo dal naso, finché non inciampò in qualcosa.
Qualcosa che si rivelò essere
un qualcuno.
«Ahi!»
esclamò una voce
dispersa nel grigiore della foschia.
«Scusa!»
rispose come per
riflesso il bambino dalla pelle olivastra, senza neanche sapere a chi
si stesse
rivolgendo.
«Mi
dispiace per
l’inconveniente, ascoltatori, ma sembra che io mi sia
scontrato con… con…»
continuò la voce, finché non si interruppe nel
momento in cui un leggero
venticello estivo diradò leggermente la nebbia. La voce
sembrava appartenere ad
un bambino probabilmente dell’età di Carlos, anche
se leggermente più alto. Un
ciuffo di capelli biondi faceva capolino tra la nebbia, mentre i suoi
occhi
sembrarono illuminarsi quando vide delinearsi la sagoma di Carlos.
Anche
Carlos restò a fissarlo
per un momento, un po’ indeciso su cosa fare, un
po’ colto di sorpresa. Il
bambino teneva stretto un vecchio apparecchio che pareva essere un
registratore, al quale probabilmente stava parlando prima di fermarsi,
aveva la
faccia piena di lentiggini e gli occhiali appoggiati sul nasino.
Appena
sembrò riprendersi da
qualunque fosse l’emozione che lo aveva preso, il bambino si
avvicinò
nuovamente il registratore alla bocca e disse:
«…ascoltatori, ho appena
incontrato un estraneo. Probabilmente si tratta di uno scienziato,
visto che
indossa un camice…»
Nel
sentire quelle parole il
piccolo Carlos si riempì di orgoglio perché
sì, certo che lui era uno
scienziato! E andava anche piuttosto fiero del suo piccolo camice su
misura che
i suoi gli avevano regalato ad un certo punto, dopo tanta insistenza da
parte
sua.
«Tu
sei uno scienziato, vero?»
gli chiese lo strano bambino.
«Ma
certo! Il mio nome è
Carlos, Carlos lo scienziato. Mi
sono
trasferito qui da poco e ho intenzione di studiare questo posto e
capire che
cosa succede qui intorno» rispose con tono solenne, drizzando
la schiena per
apparire più alto e più importante, e non
riuscendo a trattenere la
soddisfazione, sorrise mostrando tutti i denti.
Il
che sembrò avere uno
strano effetto sull’altro, Carlos non seppe subito dire se
positivo o negativo,
perché quello sgranò gli occhi e fece un
lunghissimo sospiro che terminò con un
grande sorriso.
«Piacere
di conoscerti! Io
sono Cecil e un giorno diventerò il più famoso
presentatore radio della città!»
annunciò quindi il bambino – Cecil
a
quanto pare – e gli porse la mano. Carlos la strinse
più forte che poté. Dopo
di che Cecil corse via saltellando e da quel poco che riuscì
a capire, perché
la nebbia sembrava attutire i suoni, stava dicendo al registratore:
«Il nuovo
arrivato è uno scienziato. Si chiama Carlos e mi ha stretto
la mano. E’
perfetto e… i suoi capelli sono perfetti.»
Non
seppe cosa fare e restò a
vederlo scomparire, poi alzò i tacchi ed era in procinto di
proseguire la sua
esplorazione, ma un’altra voce attirò la sua
attenzione. Era la signora Josie,
del piano terra.
«Carlo!
Carlo! Gli angeli
hanno un messaggio per te!» gli urlò dal
pianerottolo di casa.
«Gli
angeli?» ripeté Carlos
più che sorpreso – anche perché, da
quel che ne sapeva lui, gli angeli potevano
benissimo non esistere, dato che non ne aveva mai visto uno. Anche se
Josie
sosteneva che uno l’avesse aiutata a cambiare una lampadina
proprio la
settimana prima.
«Il
messaggio dice: “stai
lontano dalla porta”. Ti dice niente?»
Carlos
non era sicuro di come
questo lo facesse sentire.
«No»
rispose comunque, perché
se c’era qualcosa da scoprire voleva essere sicuro di
arrivarci la solo.
L’anziana
signora sembrò
confusa e forse un po’ delusa per un momento, poi, non troppo
convinta, fece
spallucce.
«Che
vuoi farci? Delle volte
gli angeli si confondono…» e così
dicendo si ritirò e la sua sagoma scomparve
prima nella nebbia e poi dietro la porta.
Carlos
rientrò in casa, ma presto
riprese ad annoiarsi. I genitori gli consigliarono di andare a trovare
la
signora Josie.
«Ma
ci ho appena parlato!»
provò a lamentarsi, ma si rese conto che in fondo non aveva
davvero niente di
meglio da fare, e poi perché no? Magari avrebbe finalmente
visto questi
fantomatici angeli.
La
porta gli fu aperta
subito, e fu fatto accomodare in un piccolo salottino. C’era
un gradevole odore
e infatti la donna gli rivelò che aveva appena sfornato una
crostata ed erano
stati proprio gli angeli a farla. Carlos si guardava intorno da quando
era
entrato, ma degli angeli neanche l’ombra. Iniziò a
pensare che la donna fosse
pazza, ma preferì non farglielo notare perché
aveva sentito da qualche parte
che ai matti non piace sentirsi chiamare matti. Accettò
comunque la crostata:
angelica o no, era deliziosa. Gli fu offerto anche del tè.
Non che ne andasse
pazzo, ma non se la sentì di rifiutare.
Quando
lo ebbe bevuto quasi
tutto, Josie gli tolse la tazza dalle mani annunciando che gli avrebbe
letto i
fondi. Disse che gli angeli avevano il potere ci vedere il futuro nel
tè e che
lo avevano insegnato anche a lei. Scrutò per bene la tazza
per del tempo.
«Carlo!
Piccolo Carlo, sei in
grave pericolo!» esclamò decisamente preoccupata,
mettendo agitazione anche al
bambino. Non è che credesse in queste scemenze superstiziose
come leggere i
fondi, o leggere la mano, o il procedere lineare del tempo, ma la
preoccupazione della donna fu tale da contagiarlo.
Cercò
di cavarle qualche
informazione in più, ma tutto ciò che fece fu
blaterare su come gli angeli
dicano solo ciò che vogliono dire e niente di
più, e poi il tè non è mai
affidabile, e così via.
Una
cosa la fece però, ossia
regalargli un oggetto che secondo lei gli sarebbe tornato utile in
situazioni
difficili.
Questo
era un piccolo
orologio da taschino, dall’aria molto vecchia,
tant’è che quando provò ad
aprirlo ne uscì una piccola nuvola di polvere che lo fece
tossire. Non era
certo di cosa avrebbe dovuto farsene di un vecchio orologio, ma
accettò il dono
fatto in buona fede.
Il
giorno dopo fu giorno di
compere. Dato che l’estate stava finendo, c’era
bisogno di comprare vestiti
nuovi e altre cose utili, quindi uscì con sua madre, mentre
suo padre usciva a
sua volta, ma per recarsi ad una riunione speciale di scienziati che
aveva
convocato per condividere qualche scoperta.
Quella
mattina si annoiò
moltissimo perché non gli piaceva andare per negozi, e in
più sua madre si
ostinava a non volergli comprare l’unica cosa che gli
piaceva: una bella felpa
verde con disegnato un alligatore e la scritta:
«“Gli alligatori possono
mangiare i vostri figli?”
“Sì.”»
Una
cosa molto sciocca, ma se
non altro diversa da tutti i vestiti monotoni e banali con cui sua
madre stava
riempiendo il cestino – che, inoltre, gli andavano anche
grandi, ma sua madre
sperava che ci crescesse dentro.
Quando
tornarono a casa,
Carlos aveva lo stomaco che brontolava, ma con suo grande disappunto
nel
frigorifero c’era solo un po’ di verdura andata a
male che puzzava quasi quanto
l’appartamento del signor Telly e del formaggio ammuffito. Il
bambino avrebbe
quasi giurato di aver visto qualcosa muoversi, ma sua madre gli aveva
risposto
che non c’era bisogno di essere così
melodrammatico e che sarebbe tornata
presto con del cibo vero. Dopo aver detto questo era semplicemente
uscita di
corsa, lasciandolo solo.
La
casa era abbastanza grande
e non era un gran che stare da solo, perché con tutto quello
spazio a
disposizione, senza nessuno, la casa sembrava ancora più
grande e vuota.
Ovviamente iniziò presto ad annoiarsi di nuovo e stava
giusto infilandosi il
piccolo camice per uscire fuori, quando il campanello suonò.
Aprendo
la porta si trovò
davanti un grande solare sorriso circondato da un’esplosione
di lentiggini.
«Ciao,
Cecil» salutò
piacevolmente sorpreso. In quel momento notò qualcosa
sgusciare tra le gambe
dell’ospite e capì subito che si trattava del
gatto che spesso vedeva aggirarsi
nel giardino.
«Quel
gatto è tuo?» chiese
immediatamente.
«Non
proprio. In realtà sì,
perché gli do da mangiare, ma non è proprio proprio
mio. L’ho chiamato Khoshekh.»
Carlos
annuì e si sporse per
accarezzare il gatto che inizialmente cercò di allontanarsi,
ma poi annusò con
diffidenza le dita del bambino ed infine gli concesse di grattargli
l’orecchio,
anche se brevemente.
Entrambi
i bambini risero.
«Ti
ho portato questa. Lo so
che molti considerano le bambole una cosa da femmina, ma questa ti
assomigliava
così tanto che ho voluto mostrartela.»
spiegò Cecil porgendogli il giocattolo.
Era
vero, la bambola gli
assomigliava in maniera spaventosa. Era più una sorta di
robot, ma aveva la
faccia e le mani dipinte di un marrone non troppo scuro, aveva fluenti
capelli
neri fatti di un materiale sintetico e indossava perfino un piccolo
camice
bianco.
Osservò
l’oggetto con stupore
e crescente curiosità.
«Dove
l’hai presa?»
Cecil
fece spallucce.
«L’ho
trovata, in realtà.
Credo sia caduta ad un tizio strano che si aggirava nei pressi di casa
mia.
Indossava una giacca marrone e portava una valigetta di pelle di cervo.
L’ho
visto aprirla e ne sono uscite tantissime mosche, poi è
andato via e questa
bambola è rimasta a terra.» si interruppe
pensieroso «la cosa buffa è che non
riesco proprio a ricordare la sua faccia.»
Uno
strano tizio con una
valigia piena di mosche possedeva una bambola identica a lui? Cosa
poteva
significare? Non riusciva a pensare ad una risposta intelligente e fu
anche
distratto da un grosso starnuto.
«Credo
di essere un po’
allergico ai gatti…» disse sovrappensiero,
asciugandosi il naso con il dorso
della mano.
«Adesso
devo andare, ma la bambola
puoi tenerla se vuoi» gli disse Cecil con un sorriso, prima
di allontanarsi
seguito a poca distanza anche dal gatto.
Prima
il tè degli angeli gli
aveva detto che era in pericolo, poi era arrivata una strana bambola.
Il
mistero di quella casa si stava infittendo e per Carlos questa non
poteva che
essere una gioia. Anzi, pensare all’ammonimento della signora
Josie gli ricordò
del regalo che gli era stato fatto.
Si
sedette al tavolo della
cucina con tutti gli attrezzi che riuscì a racimolare e si
mise a smontare
l’orologio che in un batter d’occhio
finì completamente scomposto sul tavolo.
Al
suo interno non sembrava
esserci un vero e proprio meccanismo, ma una particolare sostanza scura
e
densa. Non si spiegava come facesse l’oggetto a funzionare se
dentro era
ridotto in quel modo.
«Tu
cosa ne pensi, Piccolo
Me?» chiese alla bambola che aveva posto seduta di fronte al
disastro che erano
i pezzi dell’orologio.
«Non
mi rispondi è?»
Robot-Carlos
se ne stava lì
muto con quei suoi strani occhi neri che guardandoci dentro sembravano
profondissimi – letteralmente – come se non
finissero mai.
Improvvisamente
Carlos fece
un salto sulla sedia. Quella sostanza indecifrabile sembrava aver preso
vita e
le stavano crescendo piccole sporgenze che si rivelarono essere denti e
ciuffi
di peli. Spaventato, ma anche affascinato, rimase per un momento in
dubbio se
cercare di “uccidere” quella cosa in qualche modo
oppure se provare a darle del
cibo o altro. Giunse alla conclusione che se quella roba stava
nell’orologio
era perché doveva stare lì – inoltre
l’orologio funzionava, quindi non era
disturbato dalla presenza della sostanza, no? Quindi decise di
raccoglierla e
rimetterla a posto. L’orologio riprese a funzionare come se
nulla fosse
successo.
«Quest’orologio
non è reale…»
si disse tra sé e sé a bassa voce.
Lo
impostò con l’orario
giusto e si accorse che era passato molto tempo, ma di sua madre ancora
non
c’era traccia. Cosa poteva fare? Aveva davvero fame adesso,
ma non c’era nulla
di commestibile in casa.
Per
distrarsi ebbe l’idea di
tornare alla porta misteriosa del soggiorno.
Prese
la chiave e si affrettò
ad andare ad aprirla. Infilò l’oggettino metallico
nella toppa e girò finché
non sentì uno scatto. Allora la spalancò, ma
questa volta il vuoto non c’era.
Era stato sostituito da un corridoio luminoso. Non resistette alla
curiosità e
ci si infilò subito dentro.
Si
chiese dove sarebbe andato
a finire e sperava di non finire dritto nel vuoto, ma questa opzione
gli
sembrava improbabile. Quando finalmente uscì, si
guardò intorno e non vide
altro che il soggiorno di casa sua.
«Oh,
fantastico!» esclamò
sarcasticamente, «un loop geografico!» per fortuna
aveva già imparato a scuola
come ci si deve comportare: mai evitare il centro del loop. Bisogna
camminare
dritti verso di esso e così facendo ci si troverà
alla sua destra o alla sua
sinistra.
Sì,
ma non era quello che
aveva fatto camminando nel corridoio? Aveva camminato dritto ed era
finito di
nuovo nel soggiorno! Si stava domandando come fare ad uscirne illeso,
con una
certa calma, sorprendentemente, quando sentì una voce
chiamarlo dalla cucina.
Sembrava la voce di sua madre. Evidentemente era tornata dalla spesa.
Decise
di dirigersi in
cucina, sperando di non ritrovarsi in soggiorno non appena varcata la
porta, ma
con sua grande sorpresa non subì interruzioni fino alla meta
e si ritrovò
proprio dove voleva essere. C’era un profumo buonissimo, il
che era strano
perché sua madre non cucinava mai nulla di particolare.
La
donna che l’aveva chiamato
era indaffarata ai fornelli e gli dava le spalle. Sembrava proprio sua
madre,
ma aveva una carnagione leggermente diversa. Quando quella si
voltò, vide con
orrore che i suoi occhi erano completamente neri, e aveva un sorriso
molto
ampio, un sorriso che però non era un sorriso, e aveva in
generale qualcosa di
molto strano e – diciamo – disturbante.
«Tu
non sei mia madre.» disse
con un tono un po’ incerto, ma non era una domanda.
«Certo
che sì, sciocchino,
sono la tua altra madre –
rispose
amorevolmente – ora vai a chiamare il tuo latro padre,
starà certamente morendo
di fame.»
Un
po’ sospettoso, uscì dalla
cucina per dirigersi verso lo studio del padre. Anche la casa era
uguale ma
diversa, era difficile da descrivere. Forse era più una
sensazione.
Bussò
alla porta ed entrò
senza aspettare il permesso – come era abituato a fare, tanto
nessuno si
preoccupava più di tanto della sua presenza.
«Ciao,
ehm… “altro padre”,
lei mi ha detto di chiamarti per cena e…» mentre
stava ancora parlando, l’uomo
si girò mostrando anche lui due occhi neri come la pece ed
un ampio sorriso,
anche questo, come quello dell’altra madre, con qualcosa
di… “non normale”.
«Ma
certo! Non vedo l’ora!
Che cosa si mangia di buono oggi?» chiese per poi ridere tra
sé, «Oh, Carlos,
ti stavamo aspettando, sai?» continuò mentre
usciva dalla stanza con il
bambino, appoggiando una mano sulla sua spalla.
«Che
cosa significa?» chiese
quando ormai erano entrati in cucina. Rimase estasiato nel vedere la
tavola
imbandita. C’erano talmente tante cose buone che non sapeva
da dove cominciare
e aveva una tale fame che quasi dimenticò di ascoltare la
risposta – ma lo fece
comunque.
«Ovviamente,
significa quello
che significa. Ti stavamo aspettando, questo è il tuo posto,
con noi. Non era
la stessa cosa senza di te…» spiegò
l’altra madre.
«…
ma per fortuna sei
arrivato!» terminò gongolando l’altro
padre, beccandosi un’impercettibile
occhiataccia da parte della donna – forse non le piaceva
venire interrotta.