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Autore: Nat_Matryoshka    06/10/2014    5 recensioni
"Il ciondolo di lei tintinna appena, un piccolo campanello che fende l’aria tiepida.
Un uccellino."

[SanSan sperimentale, decisamente AU]
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Sandor Clegane, Sansa Stark
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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- Nightingale -





Nella stanza dalle tapparelle abbassate la luce filtra sotto forma di una lama sottile, aranciata. È il tramonto: dalla strada di sotto provengono solo rumori ovattati, lo stereo di un’automobile acceso a tutto volume sembra un ronzio indistinto di zanzara, il brusio del traffico scompare, inghiottito dalla calma della sera incombente.
In quel microcosmo formato da quattro pareti regna una calma perfetta. Il grosso abat-jour al lato del letto è spento, la moquette liscia e in ordine, persino sul piccolo tavolo di fronte alla finestra tutto è allineato, e neppure un oggetto fuoriposto turba quell’equilibrio. Neanche un granellino di polvere. Una volta varcata la soglia, sembra di entrare in una sorta di santuario, un luogo staccato dal normale scorrere del tempo nel quale vigono regole diverse, cicli vitali particolari. Come se la stanza stesse riposando da tutto il giorno e aspettasse solo quell’attimo per animarsi e riempirsi di sole.
 
Sul letto a due piazze, le gambe raccolte al lato del corpo, c’è seduta lei
 
Capelli rossi, lunghi e rosso sfumato, raccolti in una treccia lenta. La pelle chiara, mani bianchissime che lisciano appena, avanti e indietro, le pieghe del copriletto, come a volerlo muovere un po’, aggiungere un lievissimo tocco di disordine ad una stanza fin troppo ordinata. Indossa un semplice vestito estivo color pervinca di tessuto leggero, con le maniche morbide e una sorta di fusciacca in vita, ed è scalza. Non porta gioielli, a parte una minuscola catenina con due ciondoli d’oro: una S e un uccellino, realizzati con molta cura, che le ricadono sulla clavicola con grazia, come se fossero stati dipinti lì apposta da un pittore che si è deliziato nel riprodurre una figura femminile in un luogo inusuale. Non è truccata, e sul viso delicato – infantile, eppure allo stesso tempo anche adulto – spunta una fioritura di piccole lentiggini, proprio sul naso e sulle guance. Tutta la sua figura trasmette un’idea di bellezza distratta, quella di chi non fa nulla per essere così grazioso, eppure lo è. O forse di chi in passato ha tenuto il proprio aspetto in gran conto, ma ora non è più abituato a farlo.
 La ragazza sussurra qualcosa a bassa voce, muovendo le dita a ritmo. Per un attimo, quella musica appena accennata copre tutti gli altri rumori e contribuisce a creare un’atmosfera particolare, sospesa. Non sappiamo perché la ragazza sia lì, quale sia il suo scopo, né quanti anni abbia, né come si chiami: sappiamo solo che è una ragazza, e che siede sul letto aspettando qualcosa, ingannando l’attesa guardandosi intorno e continuando a canticchiare. E noi, insieme a lei, aspettiamo.
 
All’improvviso la porta si spalanca: una figura alta e massiccia rompe la calma immobile dell’ambiente, come uno squillo di tromba nel più perfetto dei silenzi. Un uomo dai capelli lunghi e spettinati, il volto segnato dalla fatica e da una grossa cicatrice irregolare che va dalla fronte alla parte sinistra del mento, la barba corta ma poco curata. Sembra non sapere bene cosa fare una volta varcata la soglia e chiusa la porta alle sue spalle, anche se un’occhiata della ragazza sembra farglielo tornare in mente. Si toglie la lunga giacca, la butta sull’appendiabiti e resta lì, all’ingresso, ancora incerto su cosa fare, ancora nuovo alla stanza e al suo segreto meccanismo interno.
Ora che la lama di luce sottile gli illumina il volto, si vedono bene gli occhi fieri, scuri, che provocherebbero senz’altro inquietudine in chi li guarda se non fossero così stanchi, e in qualche modo anche disperati. Ha gli abiti in disordine e un aspetto trascurato quasi quanto la ragazza è graziosa ed elegante, ma in qualche modo il contrasto non è spiacevole: potrebbero essere stati messi accanto apposta, come a mostrare un campionario dei tipi umani che è possibile incontrare in un pomeriggio di tarda primavera come quello. Due persone che sembrano non avere nulla a che fare l’una con l’altra, ma che qualcosa quasi sicuramente unisce. Altrimenti, cosa ci farebbe una ragazza seduta sul letto di una stanza d’albergo, con un uomo dall’aria affranta di fronte a sé?
Lei alza gli occhi e guarda nei suoi, grigi come le nuvole portatrici di tempesta, e li abbassa poco dopo, come se avesse osato troppo. L’uomo le si siede davanti, lentamente, come se si trovasse al cospetto della statua di una divinità custodita in un luogo di culto. Porta una mano in alto, verso il viso di lei, e fa scorrere il palmo largo – sembra enorme contro quella guancia così piccola – sulla pelle liscia, saggiandone la consistenza, verificando che sia fatta davvero di carne e sangue e non di marmo o di porcellana, come fin troppo spesso ha temuto. Rassicurato da ciò che i suoi polpastrelli callosi hanno incontrato, tenta un sorriso, ma i muscoli del viso sembrano non voler obbedire ai suoi ordini e restano fermi, bloccati in una smorfia difficile da interpretare.
 
Il ciondolo di lei tintinna appena, un piccolo campanello che fende l’aria tiepida.
Un uccellino.
 
L’uomo dagli occhi feroci posa la testa in grembo alla fanciulla dai capelli rossi, e si abbandona come un bambino stremato dopo una giornata di giochi, chiudendo gli occhi alla luce calda della stanza.
 
“Canta, uccellino” le chiede, senza troppi preamboli.
“Ti prego” aggiunge un attimo dopo.
 
Lei fissa ancora una volta gli occhi in tempesta con il cielo sereno nei suoi, chiedendosi cosa possa cantare ancora che lui già non conosca. Come possa lenire la solitudine e l’amarezza dell’uomo che ormai vuole incontrarla praticamente ogni giorno in quella stanza solo per sentirla cantare, poggiandole la testa accanto al ventre, chiudendo gli occhi, lasciandosi trasportare dal suono dolce della sua voce come un naufrago ad uno dei resti della sua nave, convinto che solo quel gesto potrà portarlo al sicuro lontano da dove si trova. Poi capisce che è inutile rifletterci finché Sandor è lì accanto a lei, fragile come non l’ha mai visto, fatto di vetro, altrettanto trasparente, e delicato.
Così canta, canta fino a confondere un ritornello con un altro, una canzone con quella che l’ha preceduta, un personaggio con altri mille, ma a lui non importa, la ascolterà. Canta e accarezza i capelli disordinati dell’uomo che ha scoperto la sua anima per lei, e le parole diventano una musica lieve e indistinta, uguale a quella prodotta dal vento che a volte entra e fa frusciare le tapparelle. Le belle e i loro principi narrano le loro storie dalla radio, le creature magiche corrono accanto alle automobili, e gli alberi del parco sono maestosi come quelli delle foreste incantate, eppure non si sono mai mossi da quella stanza: l’incantesimo prodotto dal suo canto sembra restare intatto solo tra quelle pareti. E, come ogni incantesimo che si rispetti, sembra scaturire dall’incontro di quei due spiriti così differenti, eppure uniti da un senso di abbandono, di ricerca di qualcosa che solo insieme riescono a trovare.
 
L’uomo si addormenta appoggiato a lei, come ha sempre fatto. La ragazza continua a sfiorargli piano la fronte con le dita, osservandolo mentre dorme, aggiungendo al canto solo qualche nota dolce. Silenzio, sembra chiedere la stanza alla luce quasi estiva, e alla strada lì sotto.
 
Sansa preme le sue labbra sulla fronte di lui, imprimendo un piccolo bacio. Quel guerriero stanco e triste sembra un bambino stremato da una giornata di giochi, reso docile dal sonno e dalla sua presenza: i suoi momenti di riposo non hanno tutti la stessa durata, ma in quegli istanti è come se il tempo si fermasse, cristallizzandosi in un quadro dipinto con pennellate d’oro e di nero, fatte di ombre e di luce brillante, che sfumano in una sera limpida, tesa e fragile come una lastra di vetro. La ragazza sorride e il suo sguardo si perde lontano, fuori dalla finestra, dove le ore continuano a scorrere e a rincorrersi, lasciando per un attimo da parte Sandor Clegane e la sua vita strappata, disordinata. Quante volte l’ha visto arrabbiarsi, diventare spaventoso come una bestia feroce? E quante volta l’ha consolato nei suoi momenti più duri, quelli in cui ogni parola sarebbe stata solo un pizzico di sale sparso sempre sulle stesse ferite?
 
A lei va bene così. Lo guarda riposare e resta in silenzio, in compagnia delle nuvole e del sole.
Qualche nota del suo canto ancora aleggia nell’aria, ed è come se un piccolo usignolo fosse stato riaccompagnato nella sua gabbia, in attesa di liberarlo il giorno dopo, alla stessa ora: la sua voce trema ancora, resta sospesa, poi scompare dolcemente, mentre il grande cane respira con regolarità nel suo sonno leggero, più sereno.









Questa storia fa parte di quelle che ho riesumato dai meandri del mio pc in un momento di "grande pulizia", una di quelle storie scritte millenni fa e mai pubblicate, per una ragione o per l'altra. L'idea è nata per caso, come per tutte le altre mie storie, più in particolare da un viaggio in autobus verso l'Università e dalla lettura di Haruki Murakami: le sue atmosfere oniriche, misteriose e inspiegabili, mi hanno fatto venire voglia di sperimentare e di trasferire Sansa e Sandor in un contesto completamente AU, muovendoli come due personaggi usciti fuori dal nulla ma legati da qualcosa, che li porta a condividere un semplice momento di tranquillità assieme. In realtà si tratta di un esercizio di stile senza troppe pretese, per cui potete interpretarlo come volete ;P
Come al solito, critiche e consigli sono benaccettissimi!

Nat
   
 
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