Sedeva al tavolo della cucina, i gomiti poggiati sulla tovaglia di plastica.
Con gli indici delle mani, poggiate sulle tempie, si stropicciava gli occhi chiusi fino a far apparire lampi rossastri nell’interno delle palpebre.
Tenere gli occhi ostinatamente serrati lo liberava dall’obbligo di guardare la tazzina di cattivo caffè solubile, la cucina economica dai fornelli macchiati, i granelli di zucchero sparsi sul tavolo.
Il rubinetto lasciava cadere, con regolarità esasperante, una goccia d’acqua sulla pila di piatti sporchi nel lavello; un solitario calzino grigio, appallottolato sul pavimento, aggiungeva un senso d’abbandono alla stanza spoglia.
Sospirò, tenendo sempre le dita sugli occhi.
Era stato tanto più semplice, tanto più bello, quando viveva assieme a Keith: nel suo attico luminoso, coi quadri d’arte moderna alle pareti e i mobili d’antiquariato; e una donna delle pulizie che veniva a rifare i letti, lavare i pesanti bicchieri da long drink e le tazzine, svuotare i portacenere déco.
Entrambi pranzavano fuori casa, e andavano a cena in un ristorantino, o una pizzeria; ma il caffè lo prendevano sempre insieme.
Keith usava le zollette, per dolcificarlo: due zollette. “Come una vecchia signora inglese”, lo aveva preso in giro lui.
Era diventato una specie di rito, fra loro, un gioco. Se erano di buon umore, lui imitava l’accento britannico di Keith per chiedergli quante zollette di zucchero volesse.
E Keith gli rivolgeva un sorriso condiscendente, si accendeva una sigaretta senza filtro inclinando la testa, o lo guardava da dietro la frangia, assorto; poi si accomodava meglio sulla sedia, lisciava le pieghe del pigiama di cotone egiziano, o si stringeva la cintura dell’accappatoio col monogramma, con una rapida torsione del polso.
L’ultima volta che aveva visto quell’accappatoio, ricordò d’improvviso, sul polsino c’era - perfettamente rotonda - una macchiolina di caffè.
Era caffè italiano (“Espresso”, diceva Keith), che avevano bevuto in quelle mattine serene, parlando, ridendo, i visi inondati dalla luce del mattino; e Keith lo preparava nella moka che suo padre aveva acquistato durante un suo viaggio a Napoli.
Bere il caffè era un piacere, allora; non lasciava il sapore polveroso del Folger’s in bocca, né la tazzina tracciava cerchi appiccicosi sulla tovaglia; non c’erano granelli di zucchero fra le pagine del programma, né il secco risuonare dei suoi passi solitari sul linoleum di un appartamento dozzinale.
Lo squillo del telefonino lo riscosse dai suoi pensieri: con un mugolio di fastidio, si alzò dalla sedia e sbatté le palpebre per scacciare i puntini luminosi.
Si guardò intorno, cercando di individuare la provenienza del trillo. Il pulviscolo dorato danzava nelle lame di luce che entravano dalle veneziane socchiuse; qualcuno suonava insistentemente il clacson nella strada sottostante. Passandosi una mano sul viso sudato, cercò di riscuotersi dal flusso dei suoi pensieri.
Allungò il braccio, striato di luce giallastra, per afferrare il cellulare.
“Pronto”, rispose stancamente.
“Parlo con Mr. Williams?”
Richard Williams esitò, colto alla sprovvista. Non aveva riconosciuto il numero apparso sul display, ma aveva immaginato che fosse uno dei suoi nuovi colleghi, con cui aveva scambiato da poco i numeri di telefono. I membri della compagnia erano quasi tutti allegri e amichevoli, e lo avevano già chiamato altre volte, per invitarlo a bere qualcosa insieme.
Però, stavolta, era sicuro che quella cortese voce maschile gli fosse sconosciuta.
“Sì. Sono io. Chi parla?”, rispose, cercando di non apparire troppo sorpreso: da fanatico della privacy qual’era, il suo numero di cellulare non compariva sugli elenchi telefonici, e alle agenzie di collocamento aveva sempre fornito soltanto l’indirizzo e-mail.
“Sono il sergente Patrick O’Malley, Mr. Williams. La chiamo a proposito di Keith Finnegan.”