Serie TV > Nikita
Ricorda la storia  |      
Autore: mikyintheclouds    08/10/2014    2 recensioni
Dieci passi per conoscere Amanda.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Amanda
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Dieci.
Il totale delle volte in cui ho visto la luce del sole prima di scappare, quelle rare volte in cui mio padre usciva per un periodo abbastanza lungo da permettermi di sgattaiolare fuori dalla mia stanza di prigionia cui ero stata confinata dalla nascita.
Mi avvicinavo cauta alle finestre e, spostando di pochi centimetri le tende, ammiravo il cielo, i raggi del sole che lo illuminavano, le nuvole che giocavano a rincorrersi.
Immaginavo che profumo potesse avere l’aria, cosa si provasse ad avere freddo o caldo, quale fosse la sensazione della pioggia sulla pelle, del vento tra i capelli, l’ebrezza di correre gettando le braccia in aria, di ridere e giocare con gli altri bambini.
Immaginavo cosa volesse dire vivere.
I miei occhi si deliziavano per pochi minuti di quella vista, scrutando tutti i colori, i particolari, memorizzando i dettagli, osservando la gente che passava mentre cercavo di capire cosa pensasse guardando i lineamenti di viso, notando la diversità delle stagioni.
“Torna di sotto. Se ti vede papà non sarà contento. Un giorno ti porterò fuori, te lo prometto”.
Quante bugie.
 
Nove.
I gradini che gli servivano per scendere e raggiungermi.
La pesantezza delle scarpe che calpestavano il legno, il rumore sempre più vicino, l’angoscia che mi attanagliava il petto.
-No, non di nuovo.- Pensavo. –Questa volta non ce la farò a sopportarlo. Ma forse sarebbe meglio morire.-
E lui entrava.
E sorrideva.
Un sorriso rassicurante all’inizio, voleva salutarmi, mettermi a mio agio, quasi ringraziarmi per l’aiuto che gli davo.
Poi quel sorriso diventava sempre più perverso, una smorfia che gli si paralizzava in faccia ed io morivo di paura e lui era soddisfatto.
Leggeva le analisi degli esperimenti del giorno prima e si congratulava con se stesso, poi si sedeva, accendeva i macchinari, si chinava su di me e l’incubo iniziava.
“No, papà, ti prego!”
Dormivo, per la maggior parte del tempo, ignara di quello che succedeva nel mio cervello, di cosa avrei ricordato una volta sveglia, di come mi sarei sentita, di come avessi reagito.
Quando mi svegliavo, ero immersa nell’oscurità e lui non c’era, nessuno c’era, solo io e la rabbia che cresceva.
 
Otto.
I minuti che separavano le nostre nascite e che mi erano stati fatali.
Altrimenti ci sarebbe stata lei al posto mio.
 
Sette.
I giorni della settimana in cui mi manipolava, dal lunedì alla domenica, nessuno escluso.
Riservava ogni momento libero a me.
In altre circostanze, diciamo pure in un universo parallelo, sarei stata contenta di questo trattamento. Quale padre passa così tanto tempo con la figlia?
Peccato che le nostre attività non fossero ludiche.
 
Sei.
Le volte al giorno in cui pensavo che sarebbe stato meglio morire, all’inizio e alla fine di ogni trattamento.
Quando quel piccolo aghetto si avvicinava al mio naso, i lacci stringevano attorni ai polsi e alle caviglie perché tentavo di liberarmi da quella prigionia, le mie urla si spegnevano nella stanza insonorizzata, si libravano in aria come farfalle, pronte a volare alte, ma poi ricadevano pesantemente a terra e giacevano li, sempre di più, inudite e incomprese, mentre le mani di mio padre mi tenevano ferma e m’iniettavano un sonnifero per farmi addormentare, mischiato a qualche altra sostanza che gli sarebbe servita per verificare una delle sue ipotesi.
 
Cinque.
Le coltellate che inflissi loro.
Una netta, a mio padre. Gli tagliai la gola.
Godetti nel vedere il sangue che sgorgava denso, macchiava la pelle, il colletto della sua camicia e poi tutti i vestiti e il tappeto, giusto qualche attimo prima che gli occhi perdessero la tipica lucentezza che li rende vitali, il cuore smettesse di battere e il suo corpo si accasciasse senza vita ai miei piedi, tra le urla terrorizzate di mia sorella.
Quella bastarda.
L’avevo sempre invidiata per non essere lei e lei si divertiva a vedermi soffrire.
Mi prometteva la libertà, che saremmo scappate, si sarebbe ribellata, ma tutto questo non avvenne mai.
O meglio, mi liberai, ma lei pagò con la vita.
La pugnalai nel petto e per altre tre volte conficcai la lama sempre più all’interno, lacerando la carne, i muscoli, gli organi, rovinando quella perfezione principesca, mentre la guardavo negli occhi che si spegnevano pian piano liberando qualche lacrima.
Non ho mai provato rimorso per quel gesto.
 
Quattro.
I minuti che aspettai prima di dare fuoco alle tende.
Poco tempo e sarebbe bruciata tutta la casa.
Presi quello di cui avevo bisogno e scappai.
La mia vita iniziava in quel momento.
 
Tre.
Le persone cui mi ero veramente affezionata.
Pensavo di poterle aiutare, di cambiarle.
Volevo essere rispettata, temuta e amata. Ma volevo anche essere una buona amica, un’amante e una collega leale.
Non ero cattiva, non lo sono mai stata. Nessuno nasce cattivo, qualcuno lo rende tale.
Volevo bene a quelle persone, due uomini e una donna.
Quando avevo conosciuto per la prima volta Percy, lo ammirai all’istante per il suo carisma, il suo carattere, i modi di fare risoluti, schietti, senza un’ombra di paura a intaccare le sue azioni.
Volevo imparare da lui, volevo che lui mi rispettasse e si fidasse. Iniziai a fargli vedere di cosa ero capace e, ironia della sorte, utilizzai proprio i metodi che mio padre usava su di me.
Manipolavo la gente, ma il mio scopo era giusto. Volevo aiutare le persone, non ero una pazza.
Vedevo quei ragazzi che finivano alla Divisione soffrire e sapevo, speravo, di poter dar loro sollievo, li avrei resi migliori, più capaci, attivi, svegli.
Erano derelitti, sarebbero morti se non ci fossimo stati noi a salvarli. Il nostro era un gesto nobile.
Non avevano idea di cosa voleva dire essere salvati, avere una seconda possibilità, essere accuditi e far parte di un gruppo.
Quando si fossero resi conto del servizio che avevo reso loro, mi avrebbero ringraziato per questo, mi avrebbero guardata con rispetto e mi avrebbero amata.
Parlavo con loro anche, loro si confidavano ed io cercavo di essere giusta, equa, in modo che mi rispettassero e mi temessero e mi amassero.
Ero come una mamma, come quella mamma che non avevo mai avuto, e loro erano i miei bambini e li curavo.
In alcuni casi li sgridavo, li torturavo se erano cattivi o se qualcuno di loro tradiva la nostra grande famiglia.
Ero precisa, perfetta, ambiziosa e piacqui subito a Percy, ma poi le cose cambiarono, quando capii che non era intenzionato a dividere il comando con me, quando notò che volevo di più che essere una semplice sottoposta, che meritavo di essere riconosciuta per le mie capacità, la mia classe e l’eleganza, non gli ero più utile e mi scaricò.
Fece la fine che meritava.
La seconda persona cui mi affezionai fu Nikita.
Mi sembrava di guardarmi allo specchio.
Stessi abiti, stessa espressione persa, disperata, abbandonata.
La presi sotto la mia ala protettiva, la trasformai, le insegnai tutto quello che ora conosce e cercai in tutti i modi di farmi volere bene, di esserle amica, di diventare la sua confidente personale, l’unica di cui si sarebbe potuta fidare.
Nessuno aveva mai aiutato me, ma io potevo aiutare lei, tutti gli altri.
Ci fu un periodo in cui mi venerava, mi temeva, ma non mi aveva mai voluto bene.
Mi tradì, ci tradì, ma le volevo bene, perché in fondo era come me, anche se lei non l’avrebbe mai ammesso.
Facevamo le stesse cose, eravamo molto simili, ma lei era amata, io no. Lei era quello che non ero riuscita a diventare.
La terza persona era Ari, l’uomo che amavo quasi più di me stessa.
Per vent’anni siamo stati insieme, come sposati, ci siamo amati, ho fatto il doppio gioco per lui, quando mi guardavo allo specchio, volevo sempre essere perfetta perché lui mi facesse i complimenti.
Amavo essere bella, sentirmi bella, amare ed essere amata.
Avevamo sogni, progetti.
Ma anche lui mi tradì, come avevano fatto tutti gli altri nella mia vita.
E non mi rimase altro da fare che ucciderlo.
Amo troppo me stessa per permettere a qualcun altro di farmi sentire nuovamente inferiore.
Dopo quel gesto, quando mi guardavo allo specchio, vedevo dei piccoli segni vicino gli occhi e sulla fronte che non avevo mai avuto. Stavo cambiando, non ero più perfetta.
Il rimorso per aver premuto il grilletto si faceva sentire, era la prima volta che uccidere una persona mi tormentava e dovevo fare un respiro profondo per ritrovare il mio autocontrollo e passare al piano successivo.
Un viso sereno mi rendeva ancora amabile e mascherava tutto.
 
Due.
I nomi che ho avuto.
Il primo riguardava la mia vita in quella stanza bianca, asettica, dove non ero nessuno, dove non ero amata, dove ero soltanto Helen, la gemella mai registrata.
L’altro nome, quello che usai dopo i miei primi due omicidi, era quello di mia sorella e rappresentava quello che volevo essere.
 
Uno.
Quello che uso da allora.
Amanda.
Deriva dal latino.
Significa “da amare”.
Perché in fondo questo volevo.
Essere amata.
 
 
 
Ciao! Il mio personaggio preferito è Birkhoff, ma amo da impazzire i cattivi, quindi anche Amanda che trovo un personaggio complesso, affascinate, ben fatto e geniale.
Dopo aver conosciuto la sua storia, non potevo non scrivere qualcosa su di lei ;)
Fatemi sapere! Baci!
  
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Nikita / Vai alla pagina dell'autore: mikyintheclouds