Capitolo 3
(CALL ME)
Non c’era male,
per essere il giorno che era.
Così considerava
Danny tra sé e sé, mentre camminava, a passo per lui insolitamente moderato nel
ritmo, lungo la strada principale di Castle Mac’Hearty. In effetti, era la
stanchezza a renderlo tanto calmo nel procedere, e forse anche la causa di
quelle sue considerazioni quasi malinconiche. Forse c’entrava qualcosa anche il
fatto che era ormai sera, e il sole estivo stava tramontando, diffondendo un
soffuso colore rosato sull’orizzonte che si intravedeva al di sopra delle
colline.
Sulla cima della
collina di modesta altezza più vicina alla cittadina, il ragazzo poteva
indovinare il contorno già piuttosto in ombra di casa.
Lo spirare del
leggero vento fresco lo fece appena rabbrividire. Ma era più che altro una
reazione da effetto placebo, perché lui non soffriva così tanto il freddo,
specialmente per la sua condizione non completamente umana. Quasi di riflesso,
si strinse un po’ nelle spalle, facendo muovere il giubbotto di jeans scuro
ricoperto quasi interamente di toppe di gruppi e di motti punk che indossava,
più che altro per affezione che per reale bisogno, sopra alla maglietta. Di
tanto in tanto, estraeva una mano dalla tasca dei jeans per staccarsi dalla
bocca la sigaretta che stava distrattamente fumando.
Era decisamente
perso nei suoi pensieri, perlopiù impegnati a riconsiderare gli eventi delle
ultime ore.
Di prima mattina
aveva accompagnato Andrea all’aeroporto. Un viaggio di ben due ore, perché Castle Mac’Hearty
era, in fin dei conti, una località piuttosto sperduta, almeno a livello
geografico. Qualcosa che gliela faceva apprezzare, dopotutto. Ma più che
ritrovarsi in mezzo al traffico umano e di macchine di un aeroporto, cosa che
non aveva mai provato prima nella sua vita, era stato il viaggio di ritorno
senza Andrea a stranirlo. Ed era ancora estraniante pensare che non l’avrebbe
vista per quasi due mesi. Sempre che lei non decidesse di ritornare prima, come
aveva insistito a ricordargli fino all’ultimo saluto, per rassicurare lui o
forse anche se stessa.
Certo, Danny
poteva capire. Poteva capire che la madre di Andrea, costretta a vedere la
figlia solo due volte all’anno visto che lei era rimasta a vivere in Germania,
volesse cercare di farla restare là il più a lungo possibile. E, nonostante i
suoi dubbi e la sua ansia di cercare di capire se Andrea era sincera fino in
fondo a questo proposito, lei sembrava concordare con lui sul fatto che non
fosse il caso – non ancora perlomeno – che lui andasse con lei. Non era tanto
per la faccenda di conoscere la madre di lei, a dirla tutta, quanto per il
fatto che affrontare due viaggi in aereo e quasi due mesi di immersione in una
‘vita normale’, probabilmente avrebbe fatto sentire Danny così fuori luogo che
avrebbe iniziato a subire qualcosa di simile ad un vero e proprio shock.
Il resto della
giornata che si stava avviando verso la fine era stata una questione di comune
routine, anche se per lui la sola concezione di ‘routine’ era già di per sé
qualcosa di bizzarro. Ma come altro chiamarla, dopotutto?
Così, era stato
da un paio di clienti lì a Castle Mac’Hearty, a raccogliere le descrizioni fin troppo minuziose e
a tratti tragicamente teatrali dei loro animali domestici scomparsi. Poi aveva
rintracciato un cane scomparso. A quanto pare, l’animale aveva pensato bene di
fare una scappatella, ma si era perso dopo diversi chilometri percorsi più o
meno a casaccio, ed era finito dietro le sbarre di un canile a diverse miglia
da lì. Nel mentre aveva pensato bene di smarrire, o forse di liberarsi
deliberatamente, del suo collare, rendendo impossibile ai volontari del canile
rintracciarne il proprietario. Per fortuna di Danny, del cane e dei suoi
affezionati proprietari, la fuga era avvenuta solo un paio di giorni prima, e
la stagione calda aveva lasciato le tracce odorose del cane abbastanza vivide
da permettere al ragazzo di seguirle almeno fino al punto in cui erano
scomparse. Doveva essere il punto dove i volontari del canile lo avevano
trovato e caricato su uno dei loro autoveicoli. A quel punto, era stata
questione di intuizione e ricerca. Danny aveva dovuto esplorare due canili
della zona in cui si perdevano le tracce prima di ritrovare il fuggitivo
involontario, e consegnare ai volontari del canile il numero di telefono dei
proprietari. Se non altro, aveva potuto beneficiare di un passaggio nell’auto
del volontario che aveva riportato il cane e lui a Castle
Mac’Hearty. I proprietari
gli avevano dato il suo compenso e lui ne aveva approfittato per pagare qualche
provvista al supermercato.
Entrare in quel
supermercato lo faceva ancora ridere sotto i baffi, nel ricordare quando lui,
Andrea, Uther e Justin lo avevano saccheggiato per
necessità e divertimento durante l’emergenza “zombie” di pochi mesi prima. Ma
questa volta, invece, si era ritrovato più triste del solito. Questa volta non
c’era con lui Andrea, che ridacchiasse con lui ogni tanto mentre facevano la
spesa. Erano soliti scambiarsi appena uno sguardo di complice e segreta
comprensione tra loro e iniziare a ridacchiare senza riuscire a trattenersi,
mentre gli sguardi perplessi di chiunque li sentisse e non riuscisse a
comprendere il motivo del loro divertimento non faceva che rendere il tutto
ancora più divertente. E quel giorno, di colpo, Danny aveva realizzato che
avrebbe dovuto fare a meno di quel modo un po’ meno tedioso di fare la spesa
per quasi due interi mesi.
Era così
ingarbugliato in questi pensieri, che inizialmente non notò affatto la sagoma
seduta sul bordo del marciapiede. Almeno finché il suo sguardo distratto non
intercettò il movimento convulso e precipitoso con il quale la sagoma suddetta
balzò in piedi quando lui era a pochi metri da essa. Immediatamente i suoi
occhi saettarono sulla figura umana che reagiva a quel modo al suo appressarsi,
e i suoi muscoli si tesero d’istinto, pronti a reagire. Poi, però, si rilassò
immediatamente, nonostante la figura gli stesse correndo incontro come se
volesse buttarglisi addosso con tutto il suo
trafelato peso.
«Danny! Oh,
grazie al cielo, Danny, sei tu! Sei proprio tu!» gridò Justin, fermandosi ad
appena pochi centimetri da lui, frenando a fatica il suo impeto disperato nel
cogliere l’occhiata con cui l’altro lo fece tornare abbastanza in sé da evitare
di buttargli le braccia al collo sull’onda del suo enorme sollievo.
«Justin…» lo salutò Danny, considerandolo con un accenno di
sorriso a metà tra il divertito e l’incuriosito. Le sopracciglia appena alzate,
lo esaminò sommariamente da capo a piedi, come se cercasse indizi di tanta
gioia nel rivederlo. Era abituato alle scene melodrammatiche di Justin, ma esse
erano rare come la neve in agosto, essendo l’altro un tipo più che mai atono,
pigro e insofferentemente passivo.
«Che cosa
succede?» continuò perciò Danny, in modo quasi sospettosamente ma tutto sommato
gentilmente comprensivo «Non mi pare di aver visto del fumo sollevarsi dalla casa…» ironizzò, considerando che tutta quell’emotività
poteva essere generata magari da qualche danno che Justin aveva appena suo
malgrado prodotto a qualcosa che lo potesse riguardare da vicino.
«Oh, non sai
quanto sono felice di vederti, mio dio, credo di essere morto…»
continuò tuttavia teatralmente Justin.
Danny gli dedicò
uno sguardo ancora più sarcasticamente perplesso, e ancora non abbastanza
preoccupato. Sapeva bene che Justin tendeva a farsi prendere un po’ troppo dalle
sue rare dimostrazioni di emozione, al punto da risultare ben più teatrale di
quanto richiedeva un’oggettiva considerazione della situazione.
«Oh, beh… Sono felice che la tua idea di aldilà mi comprenda, ma… insomma, ti dispiacerebbe dirmi semplicemente cosa
succede?» cercò di insistere, anche se sperare di indurre un Justin in quelle
condizioni a esprimersi chiaramente era sempre qualcosa di un po’ troppo
ottimistico, almeno per lui.
Tuttavia, il
contegno del suo coinquilino cambiò di colpo dal giorno alla notte. Da
estremamente sollevato e pieno di buone speranze di salvezza da chissà che
cosa, si fece disperato e terrorizzato come se sentisse l’alito del Tristo Mietitore* sui peli della nuca.
«E’ terribile!»
disse Justin, gli occhi spalancati e spiritati e il tono da oscura Sibilla.
«Terribile, terribile, davvero…»
Danny sospirò
appena, quindi, con un fulmineo movimento, fece scattare in avanti il braccio
al quale non teneva appesa per i manici la sporta di plastica semi-piena del
supermercato. Afferrò saldamente per il colletto della maglia Justin, avendo
cura di rendere il suo gesto tranquillamente fermo e autoritario e non
particolarmente violento.
«Sì,
‘terribile’, ho capito. Ora, dimmi cosa, Justin!» ordinò perentorio. Non gli
arrideva particolarmente assumere quel contegno, ma sapeva per esperienza che
se non voleva passare un altro quarto d’ora cercando di calmarlo, e semmai si
fosse trattato di qualcosa di effettivamente importante nonostante le
farneticazioni dell’altro, quello era l’unico buon modo che conoscesse per
farlo parlare sensatamente.
E in effetti,
una volta che parte della sua maglia si ritrovò saldamente stretta nel pugno di
Danny, Justin sembrò guadagnare di colpo un’improvvisa lucidità verbale,
sebbene i suoi occhi rimanessero spiritati come se avesse appena visto in
faccia la morte.
«Ha squillato il
telefono. Era lui! Lui in persona, capisci? E ti cercava. Con urgenza, sì,
proprio così ha detto, con urgenza. Ha detto che era questione di vita o di
morte che ti trovassi immediatamente, non importa dove ti fossi cacciato, e che
ti portassi subito al telefono. Ha aggiunto che era questione della mia vita o morte!» iniziò a raccontare
Justin, mentre il suo tono diveniva via via più
piagnucolante e disperato «E allora io sono corso qui giù. Ho corso tutto il
giorno, non ho fatto altro che correre, ma non ti trovavo. E tutti quelli a cui
chiedevo facevano finta di non conoscerti, o mi ignoravano, o non mi
rispondevano. Molti credevano che volessi chiedere l’elemosina per drogarmi.
Io! Come se avessi abbastanza soldi per drogarmi. E poi, per un paio di canne
sì e no alla settimana, non capisco perché le persone devono essere così cattive… e ora sono già passate ore, e io non ti ho
trovato, e lui ormai avrà riagganciato e si sarà messo in viaggio. Starà
venendo qui! Starà venendo a cercarmi! Sono un morto che cammina, sono praticamente…»
«Justin…» lo chiamò Danny, in tono cantilenante e paziente,
scuotendolo leggermente avanti e indietro con molta delicatezza «Per favore,
concentrati ora. Solo un paio di domande, d’accordo? Chi mi cercava e quante
ore fa ha chiamato, esattamente?»
Justin lo
guardò, spalancando gli occhi, e mormorò il nome in tono bassissimo, come se
osasse a malapena pronunciarlo, o come se temesse che il solo dire quel nome lo
avrebbe evocato, facendolo materializzare lì accanto a lui per ucciderlo.
Per fortuna, le
orecchie di Danny erano abbastanza meno umane di quelle di molte altre persone
per poter distinguere quella parola anche se era solo un sussurro. Al contrario
di Justin, il suo viso si illuminò di un sorriso affettuoso, facendogli persino
balenare i denti tra le labbra felicemente piegate e appena aperte. Poi il suo
sorriso si trasformò in un sogghigno di comprensione, mentre rilasciava la sua
presa sulla maglia di Justin, lasciandolo andare.
«Ora capisco
tutta la tua paura…» motteggiò Danny. «Va bene. La
seconda domanda, Justin: quante ore fa ha chiamato?»
Justin lo fissò
come se la consapevolezza della morte imminente lo avesse stordito. «Che… che ore sono ora?»
Danny sospirò.
«D’accordo, forse è meglio che tu non lo sappia. Va bene, avanti, gambe in
spalla. Andiamo a casa. E non fare così… basterà che
io lo richiami e vedrai che non ti succederà niente. Sai com’è lui… con te è sempre un po’… hum…
eccessivo… non doveva essere poi una cosa così grave,
in fondo. Andrà tutto bene, d’accordo? Non morirai. Davvero.» tentò di
rassicurarlo, con fare sagacemente sicuro di sé.
Ma con sua
sorpresa, vide Justin impallidire ulteriormente. «Ma lui non mi ha lasciato
nessun numero…» mormorò, come se ora vedesse
chiaramente la falce della morte che si avvicinava alla sua gola millimetro
dopo millimetro.
Danny, che già
si stava incamminando verso casa, si fermò e si girò di nuovo verso di lui,
appena stupito. «Ah no? Beh, nessun problema, in fondo. Se era così urgente
certamente richiamerà prestissimo. Vedrai che entro stasera sarà tutto risolto.
E non ti succederà niente, te lo garantisco. Avanti, allora, vogliamo andare a
casa?»
Justin si tirò
indietro di qualche passo, barcollando e tremando, lo sguardo ancora spiritato
e preda del terrore. «A casa?!» gracchiò, come se avesse la gola secca e
stretta «No… oh, no no no! Quello sarà il primo posto dove verrà a cercarmi!
Magari è già lì che mi aspetta! No… devo… devo nascondermi, ecco, sì…
O forse… forse potrei scappare, sì, lontano da qui.
Fare perdere le mie tracce… Travestirmi, anche, sì
certo, aiuterebbe molto ne sono sicuro! E poi magari cambiare i documenti, sì.
A che ora parte l’ultima corriera per la stazione di Foelm?
No, forse dovrei andare a prendere un aereo, sì… E poi…»
Danny tornò a pararglisi di fronte, raccogliendo tutta la sua pazienza.
«Justin. Ascoltami attentamente. Quante possibilità credi di avere, seriamente,
di sfuggirgli, se volesse davvero trovarti?»
Il ragazzo lo
fissò, e la sua espressione si aprì nella pura assenza di speranza. «Nessuna…?» azzardò, in un mormorio incerto.
«Humm… sì, esatto, pressappoco.» annuì Danny «Ma!» esclamò,
rendendo il suo tono particolarmente significativo per accertarsi di mantenere
il più possibile la concentrazione di Justin sulle sue parole «Ma io sono
forte, no? Più forte di lui anche, parlando su un piano strettamente tecnico e
fisico. Quindi, non ti converrebbe forse restare invece vicino a me? Inoltre,
se c’è qualcuno che potrebbe riuscire nel convincerlo a lasciar perdere di
rifarsi su di te, quello sono sempre io, no? Mi segui? Quindi, se sono io la
persona che potrebbe meglio proteggerti, non ti conviene ora forse venire con
me a casa e restare con me?»
Justin si prese
diversi lunghi secondi per valutare attentamente quanto gli stava dicendo, in
modo quasi ossessivamente sospettoso. Quindi, lentamente e circospettosamente,
iniziò ad accennare un annuire insicuro «Sì… forse… forse sì…»
«Sicuramente
sì!» lo incoraggiò Danny, prendendolo sotto braccio e iniziando a portarselo
appresso mentre si dirigevano verso casa. «Avanti, il Conte si starà chiedendo
che fine abbiamo fatto. E non preoccuparti. Andrà tutto bene. Promesso!»
Attraverso le
finestre polverose del ‘Bone’s’, Gus seguì la scena
dei due ragazzi che si incamminavano su per il sentiero che portava alla loro
abitazione, l’uno più che altro trascinandosi dietro l’altro oltre che
trasportando una sporta della spesa. Ben attento a non farsi notare da nessuno
dei suoi avventori, Gus tirò tra sé e sé un sospiro di sollievo mentale.
Nell’imperscrutabile
modo in cui poteva talvolta sapere tutto ciò che accadeva all’esterno, sempre
nella cerchia ristretta di qualche metro di perimetro al di fuori del suo
locale, sapeva che quel ragazzetto che si era precipitato la mattina nel suo
bar creando tanto scompiglio, aveva poi passato tutta la giornata correndo in
giro per la città, tornando sempre speranzosamente nei dintorni del ‘Bone’s’. Un paio di ore prima, esausto e privo di speranze,
si era accasciato a sedere sul gradino del marciapiede, a qualche metro dalla
porta del bar, la testa abbandonata tra le mani come se non avesse più niente
da perdere nella vita. Salvo schizzare ad un certo punto in piedi, illuminato
da un’ultima, sottile e preziosissima speranza alla quale aggrapparsi
disperatamente, come qualcuno in procinto di annegare. Era tornato dentro il
bar, stavolta con un contegno molto più timido e dimesso, e con la scusa di
pagare la birra che aveva bevuto quella mattina e di scusarsi per non averla
pagata subito, aveva accennato a chiedere di nuovo se si fosse visto Danny da
quelle parti. Di fronte alla risposta negativa grugnita da Gus, sembrava essere
definitivamente scivolato nella fossa della sua disperazione, a giudicare da
come si era trascinato di nuovo fuori come se il suo corpo fosse privo di ossa,
e dal fatto che si era di nuovo lasciato crollare sul gradino del marciapiede
con la faccia tra le mani.
Nemmeno il fatto
che Gus avesse fatto qualcosa che non aveva mai fatto prima in tutta la sua
vita, ovvero non accettare il pagamento tardivo della birra dichiarando senza
cerimonie che gliel’aveva offerta, sembrava aver scalfito la sua nube di
disperazione. Invece, tale avvenimento aveva improvvisamente lasciato il bar, o
meglio tutti gli avventori allora presenti, completamente senza parole. Ma
l’incredibile gesto di Gus aveva anche avuto il potere di dare un’improvvisa
credibilità alle parole di Pete, il quale fin dalla
mattina non cessava di raccontare e ri-raccontare a
chiunque mettesse piede al ‘Bone’s’ gli incredibili
avvenimenti della mattina stessa, di cui poteva vantare di essere l’unico
testimone autentico e insostituibile. Il fatto che raccontare appieno la storia
richiedesse di mettersi a chiacchierare fittamente fuori dal locale per non
farsi sentire da Gus, inoltre, aveva generato un assieparsi degli sguardi
increduli e cinici ma anche curiosi degli ascoltatori sulla figura di Justin,
seduto disperatamente sul gradino del marciapiede proprio lì fuori. Il ragazzo
era troppo immerso nella sua disperazione per rendersi conto di essere divenuto
l’oggetto di una tale attenzione quasi turistica, ma Pete
ne aveva beneficiato enormemente, e il suo racconto aveva acquisito ulteriore
credibilità.
Se non altro,
quando finalmente la storia di Justin si era conclusa con l’incontro ormai
insperato con Danny, fuori dal locale erano rimasti solo due o tre fumatori,
perché ormai tutti gli avventori del ‘Bone’s’, a
quell’ora, avevano già ascoltato all’incirca dalle tre alle sette volte la
storia di Pete. Assistere all’incontro, comunque, era
stato abbastanza per permettere a quei tre di poter poi soffiare un poco di
notorietà a Pete, perché loro erano ora i diretti
testimoni della conclusione della vicenda. Delle effettive parole che si erano
scambiati Danny e Justin, o del loro significato perlopiù misterioso, gli
avventori del ‘Bone’s’ poi non ne volevano sapere né
capire niente, essendo diligenti osservatori di quella norma condivisa unanimamente dagli abitanti di Castle
Mac’Hearty, secondo la
quale meno si sapeva di cosa avveniva in quella casa sulla collina o intorno ad
essa e ai suoi occupanti, meglio era.
·
il
‘Tristo Mietitore’ è uno degli appellativi dell’altrimenti conosciuta come
Morte :)
Note dello scribacchiatore:
naturalmente se vi state chiedendo chi sta cercando Danny al telefono e può
spaventare così tanto Justin… beh, lo scoprirete nel
prossimo capitolo! ;) Ma sospetto che qualcuno/a potrebbe già indovinarlo in
base a questi indizi, se ha ancora ben presente la prima storia dei ‘4 di picche’.
Per quanto riguarda il fatto che vi potrebbero
comparire delle righe in orizzontale qui e là… me ne
scuso, ma ho litigato più volte e a più riprese con word a questo proposito
(per levarle cioè) e ancora non ne sono venuto a capo. Sappiate che comunque
sono un “incidente di programma”, non c’entrano nulla nella storia e non hanno
alcun significato di nessun tipo!
NOTE VARIE:
- Oh, naturalmente il titolo del capitolo ‘Call me’, vuole volutamente riprendere la canzone omonima
di Blondie! ;)