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Autore: Nemainn    21/10/2014    5 recensioni
Dal Racconto...
Questa società si nutre di ogni dolore e lo amplifica, ma lei… Laila era così forte che io non ho saputo riconoscere quello che la tormentava. Non ho visto le labbra serrate di chi vuole solo urlare, gridare, chiedere aiuto ma che non osa farlo, che non può. Che non riesce, non chiede, non parla. Perché è troppo forte, perché ha resistito così tanto che cedere, anche se di poco, era terribilmente spaventoso. E io non ho capito.
Genere: Angst, Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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“Non la lascio sola.”
“Non può più fare male a nessuno, ormai... non serve rimanere qua.”
“No, lei non capisce, non è per quello.” La donna sospirò, guardando l’agente di polizia che la fissava perplesso. “Vede, Laila è sempre stata sola e ora non voglio che rimanga qua, al buio e al freddo, priva perfino adesso di qualcuno al suo fianco.”
“Signora, ma è morta, non può sapere che lei è qua.” Negli occhi scuri dell’agente, un giovane probabilmente appena entrato nel corpo di polizia, c’era solo perplessità.
“Laila magari no, ma io sì. Se era sola è stato anche per colpa mia. È il mio lavoro, ma io non ho capito. Non sono stata in grado di aiutarla e di evitare tutto quello che è successo.”
“Dottoressa, non credo le si possa dare la colpa dell’accaduto.” La donna sorrise mestamente. Nel suo severo completo da lavoro, di un grigio spento e cupo, solitamente si sentiva come avvolta da un’armatura, da un muro che la separava dal mondo; ma non in quel momento.
Strinse appena le labbra, pensierosa. Aveva compreso, però, cosa intendeva l’agente.
Guardò la porta della camera mortuaria: era una lastra lucida, di metallo freddo e impersonale. Oltre quella soglia, insieme al corpo di Laila, c’era quello della sua ultima vittima. Le luci di sicurezza, i neon e il freddo sembravano emanazioni dell’anticamera di un’altra dimensione, o meglio dell’altro mondo, dove tutto quello che sentiva non aveva più significato. Solo una targa, sopra il sottile architrave, sembrava dare realtà e solidità a quello che vedeva attorno a lei: la scritta
obitorio, che campeggiava in lettere luminose.
“No, nessuno me ne dà la colpa. Ma non creda che questo mi faccia stare meglio.” L’agente si tolse il berretto per un attimo, grattandosi la testa bruna, poi guardò l’orologio appeso alla parete e la scintilla di curiosità, ma non solo, che aveva vagato in quegli occhi vinse sulla stanchezza.
“Avrei finito il turno, le porto un caffè e mi spiega?”
Neppure lui sapeva perché voleva conoscere quella storia, sinceramente. E un obitorio non era certo un luogo allegro o da chiacchiere ma qualcosa, nel modo in cui la dottoressa aveva parlato, l’aveva incuriosito. Anche se la curiosità non era tutto quello che lo stava muovendo, ed era abbastanza onesto da ammetterlo. Provava una certa dose di morbosità al riguardo, un quasi insano desiderio di conoscere quello che si celava dietro quel caso.
“A patto che ne parliamo qua, non voglio…”
“Lasciarla sola, lo so. Vado e torno!”
Emily Sirtis, psicologa e assassina.
O meglio, almeno la seconda non era del tutto vera, forse. Non aveva mosso lei la mano, non era stata lei a causare direttamente le morti. Erano stati i suoi sbagli, le sue leggerezze, il suo occhio annoiato sul mondo che aveva catalogato tutto come già visto, senza soffermarsi alla ricerca di quello che si nascondeva oltre le apparenze. Sentiva su di sé il sangue delle vittime di Laila, sulle sue mani, nella sua anima. Sentiva il peso infinito della colpa.
Non aveva capito. Avrebbe potuto evitare tutto, ma non aveva capito.
Si sedette su una delle sedie di quel corridoio freddo, fissando il linoleum verdone del pavimento e i segni lasciati da decine, centinaia di scarpe. Strisce nere, gommose, che racchiudevano forse la noia di chi lì ci lavorava, o magari il dolore di chi era arrivato lì a causa di una perdita.
Un vuoto doloroso le prese lo stomaco e il cuore mentre si prendeva il volto tra le mani.
Laila.
Era venuta da lei, una roccia sopravvissuta a eventi spaventosi che sembrava inattaccabile dal mondo.
Ma era un pietra con un cuore scavato, sanguinante, pieno di schegge affilate fatte di dolore che la martoriavano continuamente, tenuta assieme da una forza di volontà invidiabile.
O forse non era così auspicabile, quel vigore.
Se fosse crollata, crollata veramente, se il mondo in cui vivevano le avesse dato anche solo un piccolo ancoraggio non solo lei sarebbe stata viva. Non solo lei.
Il giovane agente si sedette accanto alla donna dalla capigliatura fiammante, stretta in un severo nodo sulla nuca.
“Il suo caffè, dottoressa Sirtis.”
“Mi chiami Emily, le va?”
“Il suo caffè, Emily.” Ripeté l’uomo con un sorriso mentre lei gli prendeva dalle grandi mani la tazza di carta spessa, anonima. “Non lasciamo sola Laila, quindi?”
“No, non la lascio sola anche stavolta.” La donna portò le iridi nel liquido nero, osservò le piccole bolle aggrappate ai lati, quella schiuma appena accennata. Caffè da ospedale. Del resto non poteva pretendere nulla di più, non lì.
“Stavolta?”
“L’ho già lasciata sola, non avevo capito.” Emily sorrise, ma era una piega amara e dolorosa quella presa dalle labbra. “Lei mi sembrava forte, una montagna. Una di quelle che vanno dallo psicologo perché è di moda. Guardavo i suoi sorrisi, ascoltavo la sua ironia così sottile e pungente: era una di quei pazienti che ami.
Certo, era un po’ depressa, un po’ triste, ma chi non lo è? Questa civiltà è una terribile pianta che non vegeta e non fiorisce se non è innaffiata di lacrime e di sangue e lei ne era una vittima, come molti. Questa società si nutre di ogni dolore e lo amplifica, ma lei… Laila era così forte che io non ho saputo riconoscere quello che la tormentava. Non ho visto le labbra serrate di chi vuole solo urlare, gridare, chiedere aiuto ma che non osa farlo, che non può. Che non riesce, non chiede, non parla. Perché è troppo forte, perché ha resistito così tanto che cedere, anche se di poco, era terribilmente spaventoso. E io non ho capito.”
Gli occhi scuri dell’uomo erano interessati, eppure non c’era in loro la vera comprensione. Non afferrava davvero cosa facesse stare così male la donna seduta accanto a lui, quale torto le curvasse a quel modo la schiena, non capiva il dolore che emanava da quegli occhi e da ogni gesto, la colpa che si intrecciava con le parole.
“Lei è umana, Emily. Ha fatto quello che riteneva giusto.”
“Non ho visto, non ho ascoltato davvero perché mi sono fermata alla copertina del libro. Ho giudicato e catalogato Laila da quelle poche pagine in una leggerezza che è costata la vita a tre persone: a lei, a suo marito e a sua figlia.” Una lacrima scese lungo il volto pallido di stanchezza, subito asciugata con rabbia. Chi era lei per piangere? Con che diritto si concedeva di indulgere a quel modo nel suo dolore?
“Magari era lei che… che non l’ha lasciata vedere?” Una domanda fatta piano, con una certa titubanza, incerta.
“Sono io che devo capire e vedere, non i mie pazienti spiegarmi cosa hanno, agente..?”
“Mi chiami Mattew, o Matt, come preferisce. Non sono in servizio ora.” La donna accennò un altro stanco sorriso, annuendo.
“Matt, allora.” Bevve un altro sorso, il calore del caffè che non sembrava in grado di sciogliere il ghiaccio che aveva dentro. “Laila era una donna che potrei definire illuminata. Strana, piacevolmente strana, con idee forti e una cultura invidiabile, aveva una forza senza paragoni. Eppure era sull’orlo di un baratro e chi le ha dato l’ultima spinta sono io. Veniva da me, ogni tanto sospirava, sembrava sul punto di dire qualcosa, ma poi rideva, mi faceva qualche battuta così pungente e divertente… dimenticavo quello che per un attimo emergeva lì, davanti ai miei occhi. Scordavo la paura, la sofferenza e il dolore del suo sguardo. Non vedevo quella solitudine così profonda che la stava definitivamente spezzando. Non ho fatto quello per cui veniva da me, non l’ho aiutata. Perché nonostante tutto era sola, era un monolite che si reggeva contro le tempeste della vita in una pianura immensa e sferzata da un vento crudele. Lei però dava ombra e riparo, accoglieva chiunque avesse bisogno di ristoro. Ma nessuno ha mai accolto lei. Nessuno vedeva. La paura di essere fragili, il bisogno di nasconderlo, sapere che quando si è vulnerabili e lo si dice il mondo ti cadrà addosso ancora di più, pretendendo il tuo contributo. E lei aveva già pagato così tanto, che non aveva il coraggio di rischiare ancora. Continuava con la testa alta nascondendo quello che aveva dentro.”
“Ma suo marito? E la bambina?”
“Lui... “ Emily guardò quel viso giovane e serio, annuendo come tra sé. “Matt, tu ami?” Chiese infine a bruciapelo.
“Cosa?” Spiazzato il giovane agente sbatté le palpebre, poi annuì, improvvisamente timido. “Settimana prossima mi sposo!” Confessò, le gote leggermente imporporate.
“Allora forse puoi capire, forse no. Lui l’amava, a modo suo, ma non la capiva. L’amore, vedi, non basta. Non basta mai, da solo. Ci vuole molto, molto di più, e Laila non ha mai avuto nulla di quel più. Ha retto sulle sue spalle la sua solitudine, ha sempre supportato l’uomo che amava nonostante manchevolezze che quasi nessuno avrebbe tollerato. Alla fine la follia ha vinto, e all’amore si è mescolato l’odio.”
“Ma non sono all’opposto? Come fanno a…”
“No” La voce della psicologa l’interruppe. “L’opposto dell’amore è il più assoluto disinteresse. L’odio è, per certi versi, un complemento dell’amore. Una sfumatura folle, che Laila ha tramutato nel nucleo dei suoi sentimenti. Alla fine non ce l’ha più fatta.”
“E lo ha ucciso.”
“Lo ha salvato.” A quell’affermazione l’uomo scosse il capo.
“No. Non puoi dirmi questo, Emily.”
“Invece è così, te lo assicuro, sai?” La donna vuotò la tazza, guardando poi la goccia solitaria e scura che vagava in quel contenitore. “Almeno, era così per Laila. Lo ha salvato da se stesso, lo ha salvato da questo mondo, lo ha liberato da una vita che secondo lei era solo un peso e una fonte di tristezza.” L’immagine di quelle impronte di sangue sul muro, quelle mani intrecciate vergate dal liquido scarlatto raggrumato e scurito dall’aria. Una mano più grande e, in parte sovrapposta, una più piccola.
Laila ed Efrem.
Lei l’aveva accoltellato decine di volte e in quel momento, nella mente della psicologa, la scena era fin troppo chiara. Vedeva il viso di lei pieno di dolore e le lacrime che scorrevano copiose, la lucida follia che riempiva quegli occhi privi della maschera di quelle falsa allegria che era la sua strenua difesa.
Orbite svuotate di ogni gioia, piene solo di dolore, odio e immensa solitudine.
Vedeva ognuno di quegli affondi, vedeva nella sua mente ogni gesto, il sangue, la mano di lui contro il muro e quella di lei che la sfiorava, per poi guardarlo scivolare a terra senza vita. L’immaginava toccare quell’impronta e guardarla per un momento.
Con la mente si figurava le gambe lunghe di Laila scavalcare il cadavere e andare nella stanza della figlia.
Lei aveva poi preso la bambina con sé ed era sparita per quasi un mese.
Le ricerche erano state inconcludenti, nessuno sembrava in grado di trovarla. Nessuna telecamera di sorveglianza in tutto lo stato coglieva la sua immagine, nessuna persona sembrava averla vista, nonostante i giornali e la televisione che mandava l’immagine di Laila e della piccola quasi ininterrottamente.
“E la bambina? Voleva salvare anche la figlia? Aveva tre anni, sai?” All’accusa scandita con forza, la voce piena di rabbia per la morte di quella piccola vita indifesa, Emily sospirò.
“Non voleva lasciarla. Anche Laila è stata egoista per un’unica volta, una sola. Quando non doveva. Non voleva andarsene senza l’unica cosa che ritenesse buona della sua vita.”
“E l’ha uccisa.”
“Sì, la ha portata via con sé.” Il silenzio divenne tangibile mentre il giovane agente si appoggiava al muro con lo sguardo cupo, lottando tra rabbia e dolore. Erano state ritrovate in auto, in una strada sterrata che si snodava lungo un bosco. La bambina tra le braccia della madre, con il foro del proiettile che trapassava la piccola testa, così simile allo sfregio sul capo di Laila.
Matt non riusciva a capire del tutto, ma quelle parole avevano aperto una porta, in lui, attraverso cui il profondo dolore di una solitudine forzata sembrava sussurragli all’orecchio.
Un simile peso non doveva gravare sulle spalle di nessuno. La forza di reggere tutto quello non era umana, eppure Laila aveva continuato a combattere, tra paura e dolore, sopportandolo.
La comprensione sembrava prendere, man mano che il tempo passava e i pensieri del giovane agente si inspessivano, sempre più spazio in quelle iridi velate di pensieri troppo profondi per essere messi in parola.
“Ora capisci perché non voglio lasciarla sola?”
“Non completamente, credo. Ma penso che sia stata abbastanza sola in vita. Magari, per un’ultima notte, possiamo farle compagnia.”
Emily sorrise, aveva l’impressione di sentire nell’aria la presenza di Laila. Di vedere con l’occhio della mente un sorriso per una volta veramente sincero su quel volto.
Non era sola. Non più.
E lei non l’avrebbe lasciata sola, non di nuovo.


 



Storia nata per il contest di Yuko Sangue e Pazzia



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