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Autore: Quarquanazzi    25/10/2014    1 recensioni
Al centro del mondo, si ergeva in superficie, un enorme albero.
Si ergeva in mezzo all' oceano ed aveva un diametro di circa 200 chilometri.
Era alto a tal punto che, in alcune sere estive, si poteva scorgere la sua ombra dal continente più vicino.
Nato dal primo seme del mondo, primogenito di madre Natura.
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L’ALBERO DEI CIP
 
Al centro del mondo, si ergeva in superficie, un enorme albero.
Si ergeva in mezzo all’oceano ed aveva un diametro di circa 200 chilometri.
Era alto a tal punto che, in alcune sere estive, si poteva scorgere la sua ombra dal continente più vicino.
Nato dal primo seme del mondo, primogenito di madre Natura.
Aveva la corteccia violacea, sui toni del porpora.
Aveva la chioma color turchese con sfumature in blu oltremare ed aveva la forma di un cono rovesciato, così che potesse raccogliere l’acqua piovana.
La chioma possedeva più tipi di foglie. Foglie giganti di quercia, di frassino, di pioppo e di ogni altro albero presente in natura.
Attorno ad ogni bocciolo color menta, c’erano sette foglie di cactus.
L’enorme arbusto, non aveva né frutti né semi.
In primavera, da ciascun bocciolo nasceva un gracile uccellino.
L’uccellino apparteneva ad una razza unica, la razza dei Cip.
Il volatile era a forma di “V” con al centro un piccolo corpo.
La testa e le ali erano un tutt’uno color nero pece; il becco era sottile e dorato; il corpo, infine, era a forma di mandorla argentata e si trovava dall’attaccatura delle ali fino a sotto il mento.
I Cip, una volta sbocciati, prendevano il volo ed erano centinaia. Centinaia di migliaia.
C’è da dire, che avevano una resistenza alla fatica impressionante, arrivavano nei continenti in una sola volata, senza pause.
Sbocciavano, in genere, nel primo mattino, si nutrivano delle sette foglie di cactus e dei petali color menta del fiore da cui erano nati. Dopo di che partivano in modo da arrivare, per sera, sulle coste dei continenti e riposarsi sui primi alberi che trovavano.
Dopo una notte di meritato riposo, i Cip, prendevano di nuovo il volo verso i primi fiumi e laghi d’acqua dolce che trovavano.
Bevevano finché il corpo non raddoppiava la sua misura.
Oltre che in pancia, i Cip avevano serbatoi per l’acqua anche nelle ali e nella testa.
Da esili che erano, si ritrovavano parecchio cresciuti.
La loro missione non era ancora compiuta, infatti, i Cip dovevano riuscire portare l’acqua dolce fino all’albero.
L’albero, essendo nato in mezzo all’oceano, aveva bisogno d’acqua dolce per sopravvivere. Ed anche se riusciva, con la chioma, a raccogliere un po’ d’acqua piovana, quest’ultima era insufficiente.
I Cip ripartirono il mattino seguente verso l’enorme arbusto.
Tutti tranne uno.
Una piccola principessa, una bimba di corte, riuscì a catturare un Cip che si abbeverava nella fontana della reggia dei suoi genitori.
La piccola si innamorò di quell’uccellino e decise di tenerselo come animale da compagnia.
Intanto, l’immenso stormo di Cip carichi d’acqua, raggiunse l’albero entro sera.
Gli uccellini affondarono i becchi nella corteccia ed immisero nell’albero tutta l’acqua da loro raccolta.
Finito il loro compito, i Cip, si sgretolarono e diventarono una miriade di piccolissimi petali che, una volta caduti in acqua, la corrente portava via e li sparpagliava.
La bambina del reame, si svegliò un mattino e trovò l’uccellino gocciolare e sgretolarsi.
In meno d’un minuto, il Cip divenne un ammasso di piccoli petali bagnati, immersi in una piccola pozzanghera sul fondo della gabbietta.
La principessina si mise a piangere disperata, allora chiamò il padre che subito ordinò ai servitori di trovarne un altro uccellino per la figlia.
Furono tanti i tentativi, ma ovviamente, nessuno dei servitori riuscì a trovare un Cip.
Fu così fino alla primavera successiva.
I servi, entusiasti, chiamarono il re che subito accorse con la piccola.
Portarono il sovrano e la principessa sulle rive d’un laghetto non troppo lontano dai confini del regno.
La bambina riconobbe subito gli uccellini e chiese al padre di averli.
Il re non esitò e disse ai servitori di catturarne il più possibile.
Quell’anno venti Cip non tornarono all’albero.
L’animale esotico, diventò ben presto, simbolo di prestigio e le sue piume, una volta deceduto, valevano più di una moneta d’oro.
Alle cene di gala ed alle serate d’alta classe, la famiglia reale, non poteva fare a meno di vantarsi dei propri uccellini esotici.
Tutta questa vanità, fece crescere l’invidia degli altri re e regine che popolavano i continenti.
In breve tempo, iniziò la grande caccia a questi uccellini.
Ad ogni primavera, servi e reali, andavano alla ricerca dei volatili.
All’albero cominciarono a mancare migliaia di Cip e con essi molti litri d’acqua.
Questa mancanza fece appassire molte foglie all’estremità dell’albero.
La primavera successiva, l’albero dei Cip, produsse qualche centinaio di uccellini in meno.
La caccia sulla terraferma si faceva sempre più ardua e quell’anno, quasi un milione di Cip non riuscirono a tornare a casa.
Dei rami secchi caddero in mare quell’anno.
Dopo cinque anni, i reali non parteciparono più alla caccia, rimanevano nel castello e mandavano solo i servi con l’ordine di uccidere chiunque avessero visto andare, come loro, alla ricerca degli uccelli esotici.
Molti furono i cadaveri che tornarono insieme ad una manciata di volatili.
Dopo sette anni, la corrente portò sulle coste, miliardi di foglie appassite.
Tale era il numero, che all’orizzonte non si vedeva altro che un’enorme distesa d’ocra al di sotto d’un cielo plumbeo.
Nessuno si accorse che le onde che s’infrangevano sulla saggia, non formavano la naturale spuma di mare, ma che invece portavano a riva, le fedeli e piccole amiche appassite d’un sempreverde.
Stridevano ad ogni risacca come se volessero urlare il loro dolore, ma nessuno stette ad ascoltarle.
Certo, tutti erano attenti, tutti erano allerta, ma nessuno ci fece caso, nessuno guardava in basso, avevano tutti la testa rivolta verso il cielo.
Erano a caccia, ma in vano, non si videro Cip quella primavera.
E non si videro mai più. 
  
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