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Autore: lulida    27/10/2014    3 recensioni
A volte le scelte insensate sono le uniche che vale la pena compiere.
Kylie aveva già messo un timbro alla sua vita, sapeva che non sarebbe cambiata di una virgola, ma a volte l'amore può trasformare ciò che non avresti mai potuto immaginare.
Dopo la morte del padre Kylie deve rimettere in sesto la sua vita e trovarsi un lavoro.
Fare le pulizie in case altrui sembra al momento l'unica scelta possibile poiché non ha neppure un titolo di studio.
Il primo giorno lavorativo è un vero disastro e riesce a farsi licenziare dopo un minuto netto che incontra il proprietario della villa chiamata a pulire... ma tutto può cambiare sopratutto se il proprietario in questione è Jared Leto.
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jared Leto, Nuovo personaggio
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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Dopo il lutto - capitolo 1


Tutti abbiamo dei sotterranei dentro di noi, io forse più di altri.
Esperienze di vita che piano formano il nostro carattere, che ci toccano nel profondo e senza che ce ne accorgiamo ci cambiano.
Non sempre in meglio.
I miei sotterranei sono rifugi per scappare all'ansia di non riuscire a farcela da sola. 
Sola. 
Eppure dovrei esserci abituata, lo sono sempre stata. 
Ciò nonostante, l'agitazione interiore a cui non so dare altro nome che lutto, spunta dallo stomaco e sale fino in gola. 
Morto. 
Mio padre è morto.
Da un mese. All'inizio è stato solo dolore in me, poi piano sono arrivati anche i rimpianti di tutte le cose lasciate in sospeso come su un baratro pronte a cadere, ma che ho trattenuto con forza.
Alla fine ho lasciato andare anche quelli e sto iniziando piano a riprendere in mano la mia vita o quello che ne rimane.
Non so se questo lavoro sarà un modo per farlo, non credo, ma è anche vero che il presente è condizionato dal passato a cui è strettamente legato e sono arrivata fin qui per le scelte che ho fatto. 
Scelte di cui non mi pento, ma che fissano il mio futuro.
Lo guardano negli occhi, riemergendo ogni tanto da uno di quei sotterranei e lo prosciugano sempre un po' di più, come fosse una pozza sotto i raggi del sole. 
Ci sguazzano dentro lasciando residui dei propri pasticci.
«Come ti chiami?» - due occhi vispi e verdi, si piantano contro i miei assonnati, prendendomi alla sprovvista.
Al chiuso del piccolo furgone, seduta silenziosamente al mio posto, distolgo lo sguardo dal finestrino per osservarla sulla difensiva e leggermente disturbata dall'intrusione, che improvvisamente, ha interrotto il torpore con cui mi stavo cullando. 
Sbatto le ciglia cercando di apparire vigile, quando in realtà non lo sono affatto e un mio impercettibile movimento, nato meccanicamente all'angolo delle labbra, spero le possa risultare un sorriso. 
Forse, su un altro pianeta, può anche sembrarlo in definitiva.
Sulla Terra invece è una smorfia bella e buona, ma ho troppo sonno per cercare di fare meglio, si sarebbe dovuta accontentare al momento. 
Non che quando sia ben sveglia elargisca grandi sorrisi, l'appellativo “persona solare„ è quanto di più lontano dal mio carattere. 
Il mio carattere è orribile! O almeno, così credo lo ritengano gli altri poiché non ho uno straccio di amico a parte Lucy. 
Lucy però non fa statistica, lei concorre per ottenere la santità e forse io, sono il modo più veloce, ai suoi occhi, per ottenerla. Un piccolo caso disperato, un randagio da accogliere.
E tutto questo... riporta alla tipa dagli occhi verdi che con sguardo amichevole mi ha appena posto una domanda semplicissima, ma che al suo interno, come elemento aggiuntivo, possiede un interesse che non capisco da dove nasca. 
Non si vede ad occhio che sono la persona meno adatta con cui fare quattro chiacchiere?
Da quando abbiamo lasciato la sede dell'impresa di pulizie e infilate tutte dentro il furgone che ci sta portando in direzione delle colline, mi sono rintanata in un angolino sperando che il mio atteggiamento aiutasse a passare inosservata o comunque potesse servire da deterrente per un qualunque tentativo a relazionarsi. C'ero riuscita. 
Fino ad ora. 
Ma probabilmente, la ragazza davanti a me, è intenzionata ad ignorare i miei segnali e i miei “cartelli„ con su scritto: non faccio amicizia. 
Mi sorride, in attesa, sporgendosi leggermente in avanti e diminuendo così, la distanza tra i nostri visi. 
Ha delle piccole lentiggini sul naso all'insù che le danno un'aria infantile e simpatica.
Ma nemmeno dei deliziosi puntini mi convinceranno a fare uno sforzo «Kylie » - rispondo e torno veloce a guardare in direzione del finestrino sperando di cavarmela.
«Camilla» - replica lei porgendomi la mano che osservo con rassegnazione.
Allungo la mia e le stringiamo rispettivamente.
«Nuova?»- domanda cercando di mantenere viva una conversazione, almeno per quello che mi riguarda, inesistente.
Mi gratto la tempia arricciando le labbra, in quel gesto abituale che faccio quando mi trovo in una situazione che mi infastidisce.
«Sì» - rispondo e senza trovare niente di meglio da aggiungere al monosillabo, torno ad osservare fuori.
Camilla con un'ultima occhiata, questa volta di disapprovazione, si liscia la lunghezza dei capelli castani abbandonandosi contro lo schienale e finalmente rassegnata, rivolge le sue cortesie altrove. 
L'istante dopo, sta amabilmente parlando con una ragazza alla sua destra che al contrario di me, collabora con entusiasmo.
Sbadiglio osservandole con vista periferica.
Sembra che le mie nuove compagne di lavoro si siano tutte svegliate con una gran voglia di socializzare.
Ed è poco più dell'alba! 
Parlare tanto, prima delle otto di mattina, dovrebbero impedirlo per legge per quel che mi riguarda.
Sì, sì, lo so... la strana sono io! 
A volte, neppure riesco ad averne un'esatta percezione, di quanto. 
Credo ci siano livelli di stranezza in me ancora inesplorati.
Camilla, dopo tutto, sembra davvero simpatica e avrei potuto fare un tentativo; ma come al solito, prima agisco con il cuore e poi correggo con la mente. 
Quando è troppo tardi.  
Dicono si chiami istinto, io la chiamo reazione alla somma delle cattiverie che si riceve durante la propria vita.
Sono così abituata ad allontanare tutti, che se anche ne soffro, continuo a farlo perché è davvero difficile uscire da meccanismi che si sono usati per anni.
Per quanto sbagliati, si azionano immediatamente. 
Mi impegnerò ad essere più socievole in futuro, promesso, ma non adesso. 
Meglio aspettare di essere in piena forma; fare la carina e la simpatica porta via energie che al momento non possiedo.
Non, dopo una notte insonne passata ad ascoltare i gemiti di Lucy, dannatamente rumorosa quando il suo ragazzo, a suo dire, super-dotato, si ferma per la notte, un funerale alle spalle, uno sfratto e sopratutto con un nuovo lavoro che prospetto mi faccia schifo.
Posso affermare, senza ombra di dubbio, che la mia vita è uno sfacelo e fare nuove amicizie, l'ultima delle mie preoccupazioni. 
Mi sento fragile come una bolla di sapone, svuotata e senza niente da dare, né da voler ricevere. 
Arrivata in quello strano punto della mia vita, dove sto gettando alle spalle un passato conosciuto e in cui mi riconosco per fare i conti con il dolore nuovo, cercando di non averne paura. 
Un po' come salire una scala mobile che va in discesa. 
Cammino senza avanzare.
Appoggio mollemente la fronte contro la superficie fredda e liscia del vetro concedendomi di piangermi un po' addosso.
La vita fa schifo! 
La mia di sicuro.
Il destino mescola le carte e noi giochiamo… aveva detto Schopenhauer. 
Beh, la sorte non mi ha mai assegnato fino ad ora, una sola mano vincente, ciò nonostante continuo a giocare con quello che ho, a volte bluffando.
Finta... 
Finte... Sentenzio silenziosamente mentre guardo Camilla e l'altra ragazza, colpevoli soltanto di stare ridacchiando su non so quale divo di Hollywood... ma non c'è acidità nel mio commento, piuttosto le invidio, vorrei poter ridere anch'io su chissà quale bello dagli addominali scolpiti e gli occhi blu. 
Vorrei un po' di curativa superficialità, lasciare tutto fuori invece di ritrovarmi un'anima che apre costantemente le finestre e dove tutti possono guardare dentro.
Guardano e poi scappano, facendomi sentire ancora più sola di prima. 
Il dolore evidentemente è un male contagioso, da evitare, tutti lo allontanano terrorizzati, e io, ne sono portatrice -non troppo- sana. 
Fossi malata di peste, forse riceverei cure, tutti si prodigherebbero, ma possedere un'anima è peggio che avere una malattia grave, perché da quella non si guarisce. 
Te la distribuiscono alla nascita e te la fanno passare come un regalo, ma in realtà è solo una fregatura... senz'anima si vive meglio.
Cerco di distrarmi da quei pensieri che mi deprimono ancora di più, concentrandomi sul panorama che scorre davanti miei occhi.
La luce grigiastra, riverbero notturno, piano si sta affievolendo e il riflesso dorato, dalla dolcezza disarmante del primo mattino, ne sta prendendo il posto definitivamente.
I coni dei raggi solari, al momento, sono più evidenti in piccoli sprazzi -sull'erba dei giardini, dove giocano a creare arcobaleni intorno all'acqua immessa dagli erogatori dei sistemi di irrigazione, sui tetti bassi e i lati esterni delle case che stanno diventando progressivamente più ampie man mano che la vettura si avvicina alla parte alta della città- ma presto, un sole accecante illuminerà tutto, e quella frescura notturna, ancora nell'aria per poco, sarà solamente un ricordo a cui aggrapparsi nelle ore calde e soffocanti.
Si prospetta la solita giornata afosa a Los Angeles e nonostante non abbia dormito affatto, preferisco iniziare a lavorare prima che la calura spossante dell'estate renda qualunque movimento una sofferenza.
Finalmente, il furgone si ferma a un piccolo posteggio riservato che si trova a lato di una casa bianca e con il tetto grigio ardesia.
Sono arrivata a destinazione e non ho ancora capito se ne sono sollevata o meno. 
Sollevata, per non dover sentire più il chiacchiericcio generale... meno per quello che mi aspetta una volta scesa dalla vettura.
La casa che mi è di fronte e che per i prossimi mesi dovrò pulire e rassettare, ha l'aria di essere all'incirca di quattrocento metri quadri su due piani, un grande giardino simile a un parco poco curato, una piscina arredata senza nessun gusto particolare.
Chiunque sia il proprietario, non sembra tenerci molto e questo, almeno per me che devo pulirla, si prospetta una buona cosa. 
Se non ne ha cura, non pretenderà troppo, immagino.
Entriamo tutte in processione dal piccolo cancello grigio in ferro battuto, che Carmen, il cui compito è quello di controllare il nostro lavoro e che venga svolto secondo gli standard 'Yolanda Services', ci apre.
Non so per quale motivo, una volta che lo richiude alle sue spalle, mi sembra come se si siano bloccate le sbarre di una prigione.
Sì... sono depressa, asociale e anche un pochino melodrammatica, lo ammetto, sopratutto se mi trovo in situazioni nuove e sconosciute.
Per fortuna questo mio atteggiamento, spesso, se non addirittura sempre, viene confuso con timidezza e a me non dispiace questo fraintendimento, sempre meglio che dover confessare i film mentali che mi sono fatta nel frattempo sul proprietario. 
Con la fortuna che mi ritrovo da sempre, può benissimo rivelarsi una specie di pazzo maniaco, pronto ad ucciderci tutte per poi nascondere i corpi senza vita da qualche parte in giardino. 
Meglio anche, di ammettere la verità che senza dubbio mi renderebbe incredibilmente popolare tra le mie colleghe, su come questo lavoro trovato dall'ufficio delle risorse umane, mi fa venire un attacco di orticaria.
Una volta all'interno, Carmen mi mostra la parte della casa di cui mi devo occupare e d'istinto tiro un sospiro di sollievo. 
Sono soltanto due camere e uno studio, dopo tutto sembra che me la caverò con poco.
Lei sente il mio sospiro e si volta un istante in mia direzione. 
Senza smettere di camminare mi squadra in tralice dal basso verso l'alto, accigliandosi, poi torna a guardare davanti a sé e mi parla con tono severo.
«Il proprietario, da quando in un viaggio ha contratto una gravissima infezione virale, è ossessionato dai microrganismi patogeni. Devi rivoltare tutto da cima fino a fondo, disinfettare e rimettere ogni cosa al suo posto esattamente come hai trovato, altrimenti è capace di dare di matto».
Sembra molto seccata, anzi, lo è di sicuro e non fa niente per nascondermelo. 
Grazie a quel sospiro credo mi abbia già catalogata come scansa fatiche e non le piaccio. 
A qualunque esame mi ha sottoposta senza avvertirmi, non credo di averlo superato.
Mi sforzo comunque di mantenere l'atteggiamento di chi non si è minimamente accorta che qualcosa è andato storto. 
Continuo a seguirla ascoltando le sue disposizioni, cerco di recuperare annuendo con interesse, spero così, di rientrare nelle sue grazie. 
Le rivolgo persino dei sorrisi più ampi di quanto non sia normalmente abituata, ma non c'è nulla da fare, continua a lanciarmi sguardi critici e alla fine mi rassegno. 
Mi ha capita al volo e non posso farci niente.
Cercherò con i fatti di dimostrarle che sono una persona di cui può fidarsi: il lavoro non mi piace, ma non significa che non cercherò di fare del mio meglio.
Inizio subito a darmi da fare e ripulisco con estrema meticolosità, passo il disinfettante in ogni interstizio, ogni angolo nascosto, spostando ogni mobile.
Ho un disperato bisogno di questo lavoro e non voglio deludere Lucy che si aspetta io contribuisca a pagare il corrispettivo di metà affitto e spese. Non chiede niente, non lo farebbe mai, ma tutto ciò, stranamente mi fa sentire ancora più in debito.
E' solo grazie a lei se sono stata stata assunta, so benissimo che non avrei trovato un occupazione tanto velocemente, non fosse stato per il fatto che è impiegata alle risorse umane e quindi ha accesso immediato alle offerte di lavoro. 
Battere tutte sul tempo, in certi casi, fa la differenza.
Quando le ho detto che avevo superato il colloquio mi ha guardata con occhi brillanti dall'entusiasmo e mi sono domandata, con un sorriso, se non mi avessero appena eletta presidente piuttosto che assunta come donna delle pulizie. 
Gliel'ho fatto notare e lei ha risposto, che data la mia esperienza, quello era il miglior lavoro potesse capitarmi.
Piuttosto demoralizzante, ma anche vero.
Ho lasciato gli studi prestissimo per occuparmi giorno e notte di mio padre, che dopo l'incidente stradale, lo stesso dove mia madre è morta, ha subito danni gravissimi sia mentali che fisici, quindi non ho conseguito nessun tipo diploma che possa permettermi un briciolo di ambizione e per lo stesso motivo non ho neppure uno straccio d'esperienza lavorativa.
Lucy ha ragione. 
Il massimo a cui posso aspirare, è fare pulizie in case altrui.
Fortuna che per togliere la sporcizia non è necessaria una laurea.
Sono abbastanza soddisfatta di me: la stanza splende.
Sono tutti gli spartiti, libri, oggetti d'ogni genere a darmi qualche pensiero.
Occupata com'ero a ripulire con cura, temo di non aver fatto particolare attenzione a come avrei dovuto disporli una volta finito.
Faccio una piccola pausa e un paio di passi indietro per dare un'occhiata all'insieme, domandandomi con sempre maggiore incertezza se li ho piazzati nel punto giusto. 
Scuoto la testa. 
Indubbiamente no.
Accidenti! la laurea non è necessaria per pulire, ma forse un minimo di concentrazione sarebbe stata utile. 
Invece come al solito ho tenuto la testa tra le nuvole, sottovalutando la situazione alla vista dell'apparente semplicità dell'arredamento e adesso non ho la minima idea di come cavarmela.
Faccio un respiro profondo scrollando le spalle, cercando di convincermi che quasi tutto, è dove deve trovarsi.
Sposto alcuni libri, una lampada, degli oggetti esotici. 
Moltissimi oggetti esotici. 
Il padrone di casa deve essere un tipo che viaggia molto e non posso fare a meno di invidiarlo.
Sospiro pesantemente, risentita con me stessa, ho di nuovo la testa tra le nuvole. 
Concentrati!
Dopo aver fatto vari tentativi inconcludenti, vedo spuntare Carmen sulla soglia, mi guarda severa e io già mi sento come una bambina che sta per essere rimproverata «Kylie, noi abbiamo finito da un po' »
Mi sento le guance in fiamme, non ho idea se sono diventata rossa, ma sospetto di sì, dopo che si è tanto raccomandata, non mi va di dirle che non ricordo minimamente la disposizione degli oggetti. 
Il primo giorno di lavoro, non è mai bene dire al proprio capo che la situazione è sfuggita di mano, figuriamoci quando il capo in questione ha già deciso che non ti sopporta «Ho quasi finito. Davvero».
Lei scuote la testa.
«Mi spiace, ma noi abbiamo altri appartamenti da pulire e ci rallenti troppo. Forse come primo giorno è bene che tu ti fermi qui. In fondo alla via c'è una pensilina del bus. Ti conviene prendere quello per tornare a casa appena hai finito».
«Mi stai licenziando?».
Mi perdo immediatamente in varie ipotesi su come comunicare la notizia a Lucy.
«Non ti sto licenziando. Diciamo che per oggi te la faccio passare perché ho l'impressione tu non abbia nessuna esperienza. Ma domani dovrai darti una mossa, non sarò altrettanto paziente».
«Scusami Carmen, giuro che non avrai di che lamentarti. Ce la metterò tutta»
Lei sbuffa spazientita, affatto convinta.
«Lo spero per te, tesoro. Hai l'aria di una che non ha mai lavorato un giorno in vita sua».
E' la verità, ma me ne sento offesa comunque, soprattutto perché non ha idea del motivo per cui non ho mai lavorato. 
Una parte di me ha voglia di urlarglielo in faccia, l'altra, la più saggia, ha deciso di tacere.
Non voglio diventare ai suoi occhi un caso più pietoso di quello che probabilmente già le sembro. 
Mi raccomanda di chiudere bene il cancello una volta uscita e mi abbandona al mio destino. 
Rimango sola in quella enorme casa sconosciuta e un silenzio di tomba si abbatte nelle stanze vuote. 
Non so perché, ma in effetti rimanere sola in quella casa mi inquieta, non è affatto accogliente, anzi piuttosto gelida, non c'è un minimo tocco femminile a scaldare l'ambiente.
Chiaramente il proprietario non ha una relazione stabile, e se è gelido come la sua casa non è difficile capire perché.
Cerco di affrettarmi per uscire di lì il prima possibile. 
Alla fine, decido che vada come vada, proprio non ricordo come gli oggetti erano disposti e quindi è inutile continuare in tentativi infruttuosi.
Nervosa cerco la via d'uscita. 
Inizio ad imprecare, seriamente arrabbiata con me stessa perché non ho prestato la minima attenzione neppure alla via d'uscita. Ricordo vagamente la direzione e sbaglio qualche stanza.
La casa è enorme, ma non un labirinto, prima o poi troverò l'uscita, ma quello che mi irrita di più è l'ulteriore dimostrazione della mia inettitudine.
Convinta che il mio unico compito sarebbe stato quello di seguire senza volontà, l'enorme sedere di Carmen, non mi sono preoccupata minimamente di farmi una mappa mentale.
All'improvviso, non so come, mi ritrovo in una specie di paradiso fatto di libri. 
Nuova stanza, ma ancora quella sbagliata. 
Questa sembra essere l'unica davvero accogliente e curata. 
Il gusto maschile non si contraddice neppure in questo caso, però dà una sensazione di potere e di forza.
Una grande libreria pesante in legno massello, piena fino al soffitto di volumi, domina tutta la stanza: alcuni sembrano molto antichi e preziosi.
Faccio un passo indietro per resistere all'assurda tentazione di sbirciare cosa possa leggere il padrone di casa. Vedo solo di sfuggita che ci sono biografie di grandi artisti e concludo, osservandomi intorno che deve essere un estimatore oppure un collezionista. 
Esco di lì con un senso di inadeguatezza, forse tra tutte, aver lasciato gli studi, è la cosa che mi brucia di più, non solo per un titolo di studio, ma perché mi piace studiare, ancora subisco il fascino dei libri. 
Credo che le insicurezze, siano condizionate tantissimo oltre che dal passato, anche da ciò che ci sarebbe piaciuto essere. 
Dai sogni che abbiamo chiuso nel cuore e che ogni tanto tornano fuori come folletti maligni a ricordarci cosa abbiamo perduto per strada. 
I miei folletti stanno bisbigliando e prendendo forma e limiti.
Percorrendo il corridoio mi trovo in una cucina a forma di elle: a sinistra c'è un ripiano in marmo nero, pieno di confezioni di cibo biologico e prodotti vegani, nel mezzo a questi sacchetti, messi alla rinfusa e casualmente si notano un'infinità di premi... vedo persino un Oscar. 
Un attore quindi. 
Un attore che ha vinto un Oscar e che lo tiene vicino il pacco della farina. 
Strano è dir poco. 
Che razza di tipo.
Non mi intendo molto di divi del cinema, perché con la malattia di mio padre non ho mai avuto tempo di seguire film o quant'altro, ma ho sempre pensato che la statuetta fosse una grande onorificenza e ottenesse un posto d'onore in una casa. 
Per prima cosa mi viene da pensare che forse è fasullo. 
Lo afferro girandomelo tra le mani, è più leggero di quanto mi fossi aspettata, c'è anche una targhetta con il nome del vincitore, ma non mi ricorda nessuno di quei pochi attori che conosco per mezzo di Lucy e che si contano sulle dita di una mano.
É in effetti piuttosto selettiva: le piace Brad Pitt, Daniel Craig e pochi altri.
Cavolo mi sento proprio fuori dal mondo.
Intanto continuo a sbirciare lungo il piano della cucina: ha vinto anche altri premi (un'infinità ad essere sinceri) sembra abbia conseguito qualsiasi tipo di traguardo, sia musicale che cinematografico.
Sospiro, collocando la statuetta nello stesso, esatto punto di dove l'ho presa, sentendomi ancora più fallita... ma probabilmente, questo tipo, deve mettere in seria difficoltà anche un premio Nobel.
Mi affascina, non posso negarlo e mi riprometto, una volta a casa da Lucy di dare una sbirciata al suo computer e informarmi su questo Jared Leto.
Al pensiero -casa e Lucy- guardo d'istinto l'orologio al polso. 
Devo sbrigarmi, ho già perso fin troppo tempo, sono passate le undici ed è davvero troppo tempo che mi trovo in questa casa.
Non mi sorprenderei se arrivasse all'improvviso il proprietario e incontrarlo, è l'ultima cosa che voglio.
Quasi corro percorrendo le altre stanze, arrivo ad un salotto ampio: altre opere d'arte, libri ovunque e due bizzarre statue rosse... A fianco delle due sculture vedo la porta di uscita. 
Finalmente! Sono salva. 
Mentre apro la porta do un'ultima occhiata alle due figure scarlatte. 
Dovevo essere davvero molto assonnata la mattina quando sono arrivata per non aver notato quella strana scultura. 
In verità non ho notato moltissime cose e questo mi lascia ancora più irritata. 
Esco fuori, chiudo bene la porta alle mie spalle e aspiro l'odore di tiglio di cui il giardino è saturo.
Il cielo è limpidissimo, sembra un cristallo sospeso sopra la mia testa e mi sento subito leggera e sospesa.
In mezzo agli alberi sembra di essere in una dimensione senza tempo che sa di vita e d'infinito. 
Gli uccellini cinguettano tra i rami e un leggero vento, scompiglia le fronde che frusciano in un suono che trasporta lontani come una zattera sul mare. 
Sto naufragando dolcemente, quando improvvisamente qualcosa si abbatte sulla mia spalla con uno schianto. 
Non è così forte da farmi male, ma abbastanza da spaventarmi a morte. 
Qualunque cosa sia, è atterrato su di me lanciandosi dall'albero e si muove sulla mia schiena tirandomi i capelli.
Dopo i primi minuti di panico totale, mi rendo conto che è una scimmietta piuttosto arrabbiata. 
Devo ammettere che nonostante le minuscole dimensioni, come cane da guardia è piuttosto efficace e fastidioso. 
Non ho la minima idea di come togliermela di dosso e inizio ad agitarmi sul serio.
Sospetto che questa casa sia una trappola mortale e che in un modo o nell'altro mi tenga prigioniera.
La scimmietta mi gira intorno al collo e me la ritrovo faccia a faccia. 
Appena riesco a stabilire che si tratta di un cebo cappuccino, che la piccola peste, mi spalma un frutto puzzolente per tutta la lunghezza del viso e urlando fugge subito dopo in mezzo agli alberi.
Dannata scimmia. 
Alzo il pugno in sua direzione e impreco come mai i vita mia, il cuore mi scoppia ancora in petto come reazione allo spavento e l'adrenalina entrata in circolo mi lascia sulle ginocchia un leggero tremore.
Con passo malfermo mi avvicino alla piccola fontanella che ho intravisto a qualche passo da me, non vedo l'ora di togliermi questo impiastro dal viso, è appiccicoso e ha un odore decisamente nauseabondo. 
Uscire da questa casa e mettermi finalmente la giornata alle spalle, al momento è la mia più grande priorità.
Giro la manopola dell'erogatore con occhi appannati e dopo appena un giro completo salta in aria, lasciandomi se possibile, ancora più esterrefatta che per l'attacco della scimmietta.
Mi ritrovo in un istante, con un getto d'acqua che con la violenza di una cascata è diretta sul mio viso. 
Cerco di resistere all'emissione violenta che mi schiaffeggia le guance e di arginare il danno, afferrando con entrambe le mani il punto in cui il getto esce inarrestabile.
«Cazzo!!» - in questo caso imprecare ci sta tutto. 
In terra è un lago, io sono zuppa da cima a piedi e non ho la minima idea di come fermare questo disastro. 
All'improvviso, così come è esploso, senza apparente motivo si ferma. 
Rimango incredula aspettandomi da un momento all'altro un nuovo getto, ma alla fine, mi decido e allento la presa dal tubo.
Stabilisco così, con certezza, che in effetti sembra tutto finito.
Incerta su quale santo ringraziare tiro un sospiro di sollievo, quando una voce tagliente come la lama di un coltello, mi fa voltare di scatto.
«Mi dici chi sei e che ci fai in casa mia?»
Oh! beccata... e nel peggiore dei modi.
Il tipo che mi sta guardando come volesse farmi a pezzi, con ancora la mano appoggiata alla maniglia rompi getto, deve essere Leto.
«Mi scusi...» - balbetto come una scema.
«Non credo!» - è gelida la sua risposta e la sua voce mentre si avvicina con occhi ancora più insanguinati di collera. 
Intanto, in modo alternato, studia prima me e poi il disastro, con sempre maggiore interesse.
«Chi sei?» - sibila quando si trova a pochi passi da me.
I suoi occhi, sono raggi laser che mi trapassano.
«Kylie» - rispondo sempre più in imbarazzo.
Abbassa lo sguardo, sta guardando il seno insistentemente e non mi sembrava proprio il momento adatto. 
Cerco di coprirmi con il braccio, cercando di far sembrare il movimento, il più naturale possibile.
Lui capisce l'antifona e porta nuovamente lo sguardo sui miei occhi.
«E il fatto che tu sia Kylie, dovrebbe spiegarmi che cosa ci fai nel mio giardino e del perché hai inzuppato prato, divani e pavimento?»
Faccio una smorfia, quasi chiedendomi se non è il caso di tornare a distrarlo con le tette.
«... Suppongo di no».      
«Te lo chiedo ancora una volta... chi cazzo sei? e perché eri attaccata alla mia fontana?».
«Lavoro per la Yolanda Service»- abbasso la testa, non avevo il coraggio di guardarlo.
Lui aggrotta la fronte e inclina la testa da un lato.
«L'impresa di pulizie?»
Ecco. Per l'appunto, difficile credere, visto l'inferno di fango creato in giardino, che sono andata fin lì per pulire.
 «Sì» - rispondo a mezza voce.
«Sei licenziata!!» - sbotta immediatamente con sguardo da pazzo. 
Adesso mi avrebbe uccisa e seppellita in giardino, ne ero certa, e non volendo forse gli avevo facilitato il compito ammorbidendogli il terreno con un mucchio d'acqua.
Sicuramente gli avrebbe dato una mano anche la scimmia psicopatica.
«E mi ripaghi tutti i danni!»
«Cosa?»- sbotto allargando le braccia senza preoccuparmi granché della visuale che gli sto fornendo.
La situazione è drammatica e non ho tempo di preoccuparmi di simili stupidaggini.
«Non pago un bel niente. Quella cavolo di manopola praticamente è saltata in aria. Avrebbe potuto anche prendermi in testa o in un occhio e accecarmi. Dovresti tu pagarmi la tintoria!»
Lui guarda il mio vestito alzando un sopracciglio. 
D'accordo non è propriamente il tipo di abito che si portava in tintoria ma c'è bisogno di fare quello sguardo? 
Quest'uomo mi sta sul serio facendo saltare i nervi.
«E potresti dirmi perché mi hai fatto schizzare via la manopola?».
Il tono era deliberatamente canzonatorio e non sono sicura di aver capito esattamente il doppio senso che sembra nascosto dietro la frase solo apparentemente innocua.
Sempre più arrabbiata gli urlo contro: «Perché la stronza della tua scimmia mi ha spalmato un frutto in faccia!».
Allarga le palpebre sorpreso: «Ripley?»
Il nome della scimmia è tutto un programma.
«Già» -do forza alla mia affermazione con un movimento dalla testa.
«Mmh» -mi guarda perplesso -«Questo spiega perché hai annacquato il mio divano e il mio giardino. Ma ancora non mi dice il motivo per cui sei qui da sola, sopratutto dopo che saresti dovuta essere fuori dai piedi da ore!».
La gentilezza di quest'uomo nell'esprimersi, è qualcosa che veramente mette a proprio agio. 
Poiché mi ha licenziata non ho molto da perdere a dirgli la verità, peggio di così ormai non può andare.
«Era il mio primo giorno di lavoro e ho perso un mucchio di tempo a rimettere in ordine» - abbasso gli occhi vergognandomi -«... E poi non trovavo l'uscita».
Lui mi osserva senza dire una parola, quando, improvvisamente, scoppia a ridere.
«Ma sei vera?».
Che razza di domanda è? onestamente sembra più un offesa. 
Presuntuoso! Arrogante!
Lo odio, senza ombra di dubbio.
Ogni secondo sempre più. 

Note dell'autore: Ringrazio come sempre Heaven Tonight per la grafica e spero che questa nuova storia vi piaccia. Fatemi sapere cosa ne pensate :)
   
 
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