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Autore: lovingbooks    27/10/2014    1 recensioni
lei ha dei lunghi e ribelli capelli rossi, non ci sa fare con le parole, ma è abile nei fatti.
lui ha degli occhi dolci, un sorriso che urla "casa" e sa esprimere i suoi sentimenti.
a separarli ci sono 5226 km e due anni vissuti separatamente: sta al destino decidere.
le cose cambieranno?
Genere: Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Merida
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Ahi, pensai quando caddi a terra a causa del suono della sveglia. Sono già le otto?, chiesi a me stessa, prima di guardare l’orologio e confermare ciò che ormai era ovvio. Mi alzai dal pavimento freddo e mi avviai in cucina, dopo aver fatto tappa in bagno. Mentre l’acqua bolliva, il mio sguardo cadde su un post-it appeso sul frigorifero.
 
MERCOLEDI È IL GRANDE GIORNO.
 
Facendo mente locale, il mio cuore perse un battito. Mercoledì era arrivato, ed io non ero pronta.
 
“Merida, muoviti, devo dirti una cosa importante!” sbuffò lui, era a pochi passi da me, ma lo trovavo così distante. Domani parte, dovresti essere felice per lui, mi ripetevo. Allungai il passo e lo raggiunsi. Si fermò di colpo, girandosi verso di me con il suo sorriso luminoso. “Ora non puoi vedere” disse, mettendosi dietro di me e posando le sue mani sui miei occhi. Sorrisi involontariamente per quel gesto, cercando di non arrossire e annuendo, quindi presi a camminare seguendo le sue indicazioni. Dopo una decina di minuti, mi fece girare e tolse le mani dai miei occhi, lo guardai: le sue iridi castane, il riflesso rossiccio dei suoi capelli, i lineamenti del suo viso, le sue labbra, curve in un sorriso. Scossi la testa, guardandomi intorno, cercando di capire in che posto mi trovassi: dietro di me c’era una vista panoramica della nostra città, dietro di lui un bosco, mentre una tenda era montata affianco a noi. Posai lo sguardo su Jack  e aggrottai le sopracciglia “Perché mi hai portato qui?” gli chiesi. Lui sorrise, mordendosi il labbro inferiore, come era solito fare quando cercava le parole da usare. “C’è una cosa che devi sapere, Merida. Mi sento uno stupido a dirtela solo ora, ad aver sprecato il nostro tempo insieme… Ti amo. Amo il tuo modo di ridere, di arricciare il naso quando non sai la risposta ad una domanda, amo il modo in cui abbassi la testa quando ti senti in imbarazzo, coprendola con i tuoi capelli rossi, il modo in cui non ti lasci mai abbattere, amo quando sei nel tuo mondo, quando mi chiedi di entrarci. Amo vederti tirare con l’arco, osservarti di nascosto mentre segni le risposte di una verifica, amo vederti felice. Ti amo, Merida. E odio averlo capito così tardi” disse. Le parole mi arrivarono tutte d’un colpo e non riuscii subito a comprenderle appieno, così lo guardai, dritto negli occhi, trasmettendogli tutto ciò che non sapevo dire. Era Jack quello bravo a parole, non io. Sorrisi e mi avvicinai a lui, posando le labbra sulle sue, cercando di essere sicura: insomma, era il mio primo bacio. Lui non si mosse, sembrava sorpreso, ma ricambiò il bacio. Ci staccammo solo quando iniziò a mancarci il respiro. Mi girai e sorrisi, guardando il cielo: c’era il tramonto, ormai mancavano poche ore alla fine della giornata. “Come mai c’è una tenda?” gli chiesi, senza spostare lo sguardo dal sole che stava calando. “Dormiremo qui stanotte” disse con sicurezza, io sorrisi nuovamente, ma la consapevolezza di ciò che significava dormire in una tenda mi investì di colpo e diventai rossa. Lui sorrise, probabilmente notando il mio rossore e sospirò “Se non sei pronta per questo, giuro che non ti obbligherò, non…” non gli lasciai il tempo di concludere: mi girai e lo guardai seria. “Voglio farlo” dissi. Quella notte facemmo l’amore, ma non ammisi mai a parole ciò che provavo per lui. La mattina dopo lo accompagnai in aeroporto: sarebbe stato in America per uno stage di due anni. Non lo avrei visto per due lunghi anni. Ci lasciammo con una promessa esplicita: “Il primo mercoledì di primavera, alle due del pomeriggio, tra due anni, ci incontreremo dove tutto è cominciato”.
 
Il suono della teiera mi riportò alla realtà, tolsi l’acqua dal fuoco e feci colazione. Durante quei due anni rimanemmo in contatto tramite lettere. Avevo passato tutto il tempo pensando a lui, i miei sentimenti non erano cambiati, al contrario, si erano fortificati. Avevo preso una decisione: gli avrei detto ciò che provavo, a parole. Quella mattina mi lavai e passai ore davanti allo specchio. Non avevo idea di come vestirmi, ma mi venne un’idea. Presi dei jeans blu e una maglia gialla dall’armadio e li indossai.
Mi avviai verso il luogo prestabilito, perdendomi nei miei pensieri.
 
Ero al parco dei bambini, un minuto prima giocavo sull’altalena, quello dopo stavo piangendo. il mio ginocchio sanguinava e bruciava, mi faceva male la testa a causa di una caduta e non c’era nessuno nei dintorni, o almeno così credevo. “Ehi, perché piangi?” mi chiese qualcuno, con tono gentile. Aprii un occhio e guardai la figura che si stagliava di fronte a me: era un bambino basso e vestito con dei jeans e una maglietta nera, mi guardava curioso e preoccupato. Scossi la testa e non risposi, continuando a piangere. Lui si girò e se ne andò, pensai che non l’avrei più rivisto, ma tornò pochi istanti più tardi, con un fazzoletto bagnato, che mi posò delicatamente sul ginocchio. Mi bruciava ma sapevo cosa stava facendo: voleva disinfettare la ferita. Smisi di piangere e gli feci un sorriso forzato, lui sembrò sorpreso e si sedette accanto a me, mentre io premevo il fazzoletto sul mio ginocchio. “Sei caduta dall’altalena?” mi chiese. Io annuii e cercai di sprofondare nella mia grossa maglia gialla, ero così imbarazzata. Lui si girò e fissò le altalene, poi posò lo sguardo su di me e sorrise gentilmente “Io sono Jack Frost, tu?” mi chiese. “Merida” dissi timidamente, “solo Merida”. Lui inclinò il collo, e si alzò, porgendomi una mano. Io la presi e mi alzai a mia volta, poi giocammo tutto il pomeriggio, perché è quello che si fa da piccoli: ci si diverte. Quando sua madre venne a cercarlo nel parco, Jack si avvicinò a me e mi prese la mano. Mentre ci avviammo verso di lei, mi chiese: “Merida, vuoi essere la mia migliore amica?” e io accettai. E siamo stati migliori amici da quel momento, dal nostro primo incontro sino ad ora.
 
Quando arrivai il parco era deserto, quindi mi sedetti su un’altalena ed iniziai a muovermi avanti e indietro, prendendo sempre più velocità e lasciando fluire i miei ricordi.
 
Avevamo dodici anni ed eravamo a scuola, Jack e io stavamo sempre insieme ed ogni volta che lo vedevo il mio stomaco si rigirava su sé stesso, ma non volevo ammettere di essermi innamorata di lui, era troppo presto, non avrei rovinato la nostra amicizia, così speciale, così unica. Durante l’intervallo, mentre Jack era andato in bagno, dei ragazzini mi circondarono: a scuola, ero lo zimbello di tutti, un bersaglio facile. Jack era il mio unico amico. I ragazzi presero la mia merenda e se la lanciarono, io cercai invano di prenderla. Quando si stancarono, iniziarono a spingermi e a farmi girare, come se fossi una trottola. Una voce li fermò e io mi sentii protetta. Jack litigò con loro, fece quasi a botte per me. Quei ragazzini non mi tormentarono più. Lui era l’unico a sapere come mi sentivo in realtà, che conosceva tutto il mio passato. La scuola finì, ed andammo a casa sua, che era deserta. Mangiammo e, prima di fare i compiti, Jack mi chiese: “Ti senti mai felice?”. Era una domanda strana, ma risposi senza nemmeno pensarci: “Sì” gli dissi. E lui, sorpreso, mi domandò perché. Io aggrottai le sopracciglia, cercando le parole adatte. “Sono felice quando sto con te, Frost. Mi fai sentire protetta e mi fai spuntare un sorriso anche nelle giornate no” presi un lungo respiro e decisi di continuare, “Sei l’unico che non mi ha ancora abbandonato, che è qui nonostante il mio passato. Quando i miei genitori sono morti, ho sofferto tanto” scossi la testa “No, non è corretto. Soffro ancora. Ma so che tu sei qui con me, anche se ho dei lividi perché i miei genitori adottivi mi picchiano, anche se tutti si prendono gioco di me, anche se sono debole. So che tu sei la luce nel mio tunnel buio, Frost. Sei tutto ciò che ho e di cui ho bisogno”. Lui rimase in silenzio, era sbalordito: era la prima volta che io avevo le parole e lui no. Cambiai discorso e non toccammo più quell’argomento.
 
“Ehi, Rossa” sussultai sentendo quella voce. C’era una sola persona che mi chiamava “Rossa”: Jack Frost. Mi girai, con le lacrime agli occhi e sorrisi, vedendo che lui si era vestito con dei jeans e una maglietta nera, proprio come quella volta. Mi alzai dall’altalena e gli gettai le braccia al collo, scoppiando a piangere. Lui mi strinse tra le sue braccia e sorrise, baciandomi la testa e accarezzandomi i capelli. “Mi sei mancata, Merida, mi sei mancata” sussurrava di continuo al mio orecchio, mentre io perdevo un battito ogni volta che pronunciava il mio nome. Mi asciugai le lacrime e chiusi gli occhi. Lasciai che le parole uscissero dalla mia bocca, “Frost, mi sei mancato. Devo dirti una cosa, mi sono preparata un discorso, quindi lasciami parlare e non osare interrompermi” lui allentò la presa e mi lasciò andare, sorpreso, ma trattenendo un sorriso. “Ti amo, Frost” sospirai e chiusi gli occhi “amo il tuo modo di sorridere, il modo in cui i tuoi capelli diventano rossicci al sole, amo i tuoi occhi, il modo in cui ti mordi il labbro quando cerchi le parole adatte, il modo in cui ti sorprendi, piegando le spalle e spalancando appena gli occhi. Amo il modo in cui mi proteggi, il modo in cui ti prendi cura di me, amo le tue labbra e il modo in cui i nostri corpi combaciano quando ci abbracciamo. Amo il fatto che tu sia l’unico per me. Ti amo, Jack Frost. Ti ho sempre amato, ma non ho mai avuto il coraggio di dirtelo. Ho dovuto aspettare che ti venisse offerto uno stage di due anni all’estero, ma sono fatta così e non cambierò”. Aprii piano gli occhi e lo vidi in ginocchio, con il suo solito sorriso luminoso in volto, quindi feci una faccia confusa, aggrottando le sopracciglia. “Anche io ho una cosa da dirti, e credo sia venuto il momento” sospirò e si mise le mani dietro la schiena. Io continuavo a non capire, fino a quando non tirò fuori una scatolina nera, quindi spalancai gli occhi. “Vorresti sposarmi, Rossa?” sorrise. Io annuii piano, sorpresa, ma poi gli saltai addosso e lo feci cadere a terra, sorrisi con le lacrime agli occhi e lo baciai fino a perdere il fiato. In fondo, cosa sono due anni, paragonati ad una vita passata insieme?
 
Ci sposammo il 24 maggio: il giorno in cui ci incontrammo.
 
Ora ho novant’anni, ho vissuto una vita felice insieme a Jack e ai nostri due figli: Matteo e Daphne. Jack è morto d’infarto tre anni fa e io sto morendo di cancro, ma non sono triste, non lo sono mai stata. Ho vissuto questi tre anni stando accanto ai miei figli e ai miei nipoti, senza mai smettere di pensare a Jack. Tra poco ci vedremo, amore mio, aspettami, penso, prima di chiudere gli occhi per l’ultima volta, abbandonando tutti i miei ricordi e tutte le persone a me care, sussurrando un solo nome: Jack Frost. 

NOTA AUTRICE:
è la mia prima storia su Jack e Merida, non so come sia venuta, ma avevo l'ispirazione. Spero che geanonmiricordoilcontinuo non mi uccida, perché boh, potrebbe farlo... spero vi sia piaciuta e che non mi tiriate pomodori,pranzi, pizze (sul serio, chi tirerebbe una pizza? amico, sei stupido?), sedie, edifici.
addio.
  
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