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Autore: Melian    27/10/2014    7 recensioni
"Sono passati quattrocento anni da che sono morto: era una calda notte di primavera e le stelle splendevano come gioielli sulla chioma di una dea.", scrive Alphonse di Benavia in una lunga e appassionata lettera che giungerą tra le mani della sua amata Alexandra. Nella notte tra il 30 e il 31 ottobre del 1806, Alphonse rievoca i lunghi anni della sua esistenza e svela la sua vita mortale, i suoi lunghi viaggi e il suo pił oscuro segreto: il patto che lo lega a Nuberus, un misterioso Demone che si nutre di anime umane.
[Prima classificata e vincitrice dei premi "Velo di tenebra" e "Virtł dall'aldilą" al contest: "Tales of after shadow" di Geah.Nee]
[Prima classificata al contest: "Concedimi di essere schietto" di PadellaBarella e giudicato da ladyriddle]
[Prima classificata al contest: "L'amore che move il sole e l'altre stelle" di ScarlettBrooks]
[Seconda classificata al contest "Romance in pain" di LoveSomebody]
[Vincitrice dei premi "Miglior mini-long" e "Best plot" al contest "Tragic and Epica Love" di Jo_gio17]
[Seconda classificata al: "Let's talk about a Beatle. Let's talk about...The Cute One!" di DakotaDeveraux]
Genere: Dark, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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- Questa storia fa parte della serie 'Mondo di Tenebra'
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LETTER TO ALEXANDRA
 

 

 

 

Mi accorgevo del corpo, del suo interno, accanto a lei: del battito del sangue a fior di polso, del rumore dell'aria nel naso, del traffico della macchina cuore-polmoni. Accanto al suo corpo esploravo il mio, calato nell'interno, sbatacchiato come il secchio nel pozzo.”
Erri de Luca

 

 

 

 

PROLOGO

 

Quando Alexandra si svegliò, era scesa la sera: il cielo aveva già perso i suoi rossi e gli aranci soffusi d'oro; il sole era ormai tramontato da quasi un'ora.
Come tornata di colpo alla vita, novella Bella Addormentata, fissò le pesanti cortine di velluto damascato che ornavano il letto a baldacchino su cui era sdraiata, l'intaglio della testiera fatta da morbide e ricciute volute simili a viticci.
La stanza era immersa nel buio e l'intero castello sembra respirare sommessamente, un gigante di pietra che si sgranchisce.
Alexandra sfiorò il pavimento freddo con la punta dei piedi in un gesto lento, languido e sonnolento e si mise a sedere sulla sponda del letto, mentre i lunghi capelli biondi le ricadevano sulle spalle, come il velo della Vergine nella chiesa di Santa Maria in città.
Si avvicinò alla grande finestra, tirò gli spessi tendaggi e spinse le imposte: l'enorme luna piena si affacciò nella camera, la sua luce argentina allagò il buio e spinse le ombre danzanti negli angoli più remoti.
Circonfusa da quell'alone pallido, Alexandra aveva l'aspetto di un angelo dalla pelle di latte, con la lunga camicia da notte color avorio decorata di pizzo. Uscì sul balconcino e il vento la investì senza strapparle nessun brivido, come se quelle non fossero altro che carezze lievi e lontane. Contemplò la città che sorgeva ai piedi della collinetta, su cui si ergeva il castello circondato da alte mura merlate e un fossato oltre cui si gettava un ponte di pietra.
Alexandra riusciva a scorgere il lontano profilo delle case, i puntolini di luce delle lanterne al loro interno e il sottile sbuffo di fumo che saliva dai comignoli, persino la sagoma di un segnavento a forma di gallo su cui un raggio d'argento rimbalzava e creava in un improvviso riflesso.
Con un lamento sommesso, l'eco della campana della Chiesa di Santa Maria suonò l'ora della preghiera del vespro. I rintocchi si fecero via via più fiochi, fino a cessare del tutto, mentre un serpente di fedeli entrava nel duomo.
Alexandra, però, già satura dei campi ai margini del paese, dei cavalli che trainavano carretti e dell'affaccendarsi degli uomini nelle botteghe, preferì la sua stanza con lo specchio ovale incastonato in una cornice di avorio e appeso sopra al tavolo da toeletta: sopra vi erano sparse boccette e barattolini di vetro variopinto pieni di unguenti, profumi e polveri per il trucco, e poi forcine, pettinini e spazzole.
Si incantò del riflesso della luna nel bacile e nella brocca d'argento piena d'acqua; sorrise estasiata alla vista di un prezioso vaso di porcellana dipinta a mano pieno di iris, i suoi fiori preferiti.
Tuttavia si rammaricò di essere sola e dimenticata. Così uscì dalla camera e si avviò lungo l'ampio corridoio rivestito di pannelli di legno, a cui erano appesi quadri in pesanti ed elaborate cornici.
«Alphonse?» chiamò timidamente e la sua dolcissima voce rimbalzò giù per la lunga scalinata di marmo e tintinnò tra i cristalli dell'immenso lampadario in cui brillavano una moltitudine di candele.
Non ebbe risposta e proseguì. Poteva sentire le voci sommesse della servitù in qualche angolo remoto del castello, il tintinnare delle stoviglie nelle cucine e il rumore di un piatto che cadeva, l'imprecazione del cuoco e il gemito di una porta cigolante che si richiudeva con un tonfo secco. Si sorprese del suo udito così fino e si guardò timorosa alle spalle temendo di essere seguita, tuttavia dietro di sé seminava solo evanescenti orme minute e non c'era nessun altro.
Raggiunse lo studio: la severità spartana del suo arredamento la colpì. La porta-finestra era spalancata: il vento tagliente di ottobre faceva volteggiare le tende e aveva sparpagliato fogli fruscianti ovunque; il moccolo di una candela si era rovesciato e una patina di cera si era addensata sul legno pregiato della scrivania Pennini e calamai erano in bella vista, come se il loro padrone dovesse tornare a scrivere da un momento all'altro.
«Alphonse?» chiamò ancora, ma anche stavolta non ricevette risposta.
In punta di piedi entrò e serrò la finestra, raccolse tutte le pergamene disseminate sul tappeto e chiuse la copertina di un libro che il vento aveva ostinatamente sfogliato.
Accese la candela e scostò le dita tremanti con uno scatto, osservando con gli occhi socchiusi e dolenti lo stoppino nero che riprendeva vita e la fiammella guizzante che si allungava.
La luce calda si espanse delicatamente tutt'attorno, sbozzando i contorni di un clavicembalo e di una enorme libreria che occupava tutta una parete, una cassettiera piena di pomelli d'ottone e la poltrona dallo schienale alto e rivestita di velluto rosso su cui Alexandra si sedette. Dalla scrivania raccolse una busta sigillata con un timbro di ceralacca rossa, lo stemma della casata dei Benavia che campeggiava ovunque.
Con una grafia elegante e precisa sulla busta c'era scritto:

 

“Per Alexandra.”

 

La ragazza ebbe un sussulto e fissò la scritta con occhi sgranati. Spezzò il sigillo e distese i fogli ripiegati. Lette le prime righe, rimase immobile e si guardò attorno con una vena di ansia, come se si sentisse in trappola. Fece appello a tutto il suo coraggio e si immerse nella fitta selva di quelle parole.

 

 

 
   
 
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