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Autore: EsterElle    30/10/2014    1 recensioni
Nella terra di Cadmow tutto sta per cambiare. L’armonia che vi ha sempre regnato, l’equilibrio voluto da Dira, la perfetta partizione di un potere enorme: ogni cosa è destinata ad essere sconvolta. Sconvolta, per rinascere a nuova vita.
Ambizione, tradimento, menzogne e segreti; un velo cupo si stende sulla storia delle quattro Regioni. A districarsi tra le torbide acque del mare in tempesta sono due ragazzi, destinati ad essere nemici, entrambi simboli del cambiamento.
Come salvarsi dal crollo di una civiltà? Come sanare un mondo destinato alla rovina?
“Noi siamo Guardiani per volere di Dira e Dira ha fatto si che, per millenni, quattro Guardiani proteggessero il suo popolo. Questa è la Grande Magia, questa è la Sua volontà. Chi sei tu per sovvertire le leggi della natura?”
Genere: Fantasy, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 13
Riunione di famiglia




Dima non trovava pace, quella mattina; il colletto del mantello, di pregiata stoffa bianca, stringeva sul suo collo in maniera davvero fastidiosa e gli stivali di pelle lavorata erano scomodi quanto calzari di legno.
L’avevano addobbato come un vero damerino, vestito di grigio e di bianco, i colori della sua regione, obbligandolo ad assumere quell’aria regale che lui non aveva mai sentito propria.
Non si era mai visto un ragazzo di Imbris agghindato a quel modo, continuava a pensare!
Da dieci minuti girava attorno al tempietto ottagonale, alla Sala delle Purificazioni, ben vicino all’entrata del tunnel: a condividere l’attesa con lui c’erano una decina di monaci, gialli e arancioni nei loro abiti ufficiali.
Con loro, manco a dirlo, c’era fratello Ashim.
“Sarete emozionato, mio Signore. La prima volta nel Mondo di Sopra dopo sette anni” disse, con un sorriso furbo, quando Dima gli passò davanti in uno dei suoi numerosi giri.
“Sarebbe stata una bella gita, fratello, se non che è di guerra che andiamo a discutere” ribatté lui, pungente.
“Quisquilie. Vedrete, resterete incantato dal cielo blu e dai campi immensi intorno a voi, tanto da dimenticare le vostre preoccupazioni. Non siete un ragazzo che si resta turbato a lungo, voi” ridacchiò quello.
Dima si morse la lingua; non poteva prenderlo a pugni, giusto?
“Signore, siete sicuro di non volere la vostra colazione?” mormorò per l’ennesima volta fratello Gongi, l’infermiere.
“Grazie, ma no” replicò stizzito il ragazzo.
Perché non poteva avere un attimo di silenzio per pensare in pace, per rendersi conto di quanto effettivamente fosse grande la responsabilità che gravava sulle sue spalle quella mattina? Avrebbero parlato, lui ed Elsa, davanti alle massime autorità di Cadmow e solo le loro parole avrebbero potuto sventare una guerra.
Una guerra!
Dima ancora non si capacitava di come tutto fosse così velocemente precipitato verso quella terribile conclusione.
Durante l’ennesimo mezzo giro del tempietto, vide in lontananza una massa arancione di monaci e, al centro, un luce bianca. Ecco, finalmente anche Elsa stava arrivando!
Era molto bella, davvero, con l’abito delle cerimonie ufficiali: bianco ad intarsi grigio perla, lungo ma non troppo, estremamente stonato in tutta la sua serena delicatezza con il volto teso di lei.
“Buongiorno a tutti, fratelli” mormorò quando fu abbastanza vicina. “Ciao, Dima” cercò di sorridere.
Fratello Ashim si affrettò verso di lei, drappeggiandole sulle spalle un pesante mantello grigio bordato di morbida, bianca pelliccia.
“Ecco, Signori, ora siete pronti per partire” disse, rimirando i due ragazzi l’uno al fianco dell’altro.
“Suvvia, cosa sono questi volti da funerale? Dovreste essere lieti, questa uscita pubblica è un’opportunità che raramente viene concessa ad un Guardiano in fase di preparazione” blaterò ancora.
Eppure, in tutto il suo insulso servilismo, fratello Ashim aveva centrato il punto.
La situazione era tragica e la loro era una missione senza speranza. Ma l’intero regno li avrebbe visti insieme, uniti, forti: al centro esatto del disastro, ad un passo dalla fine del Nord, avrebbero potuto trovare clemenza per le loro vite, avrebbero potuto continuare ad esistere insieme, come un’unica realtà, un unico Guardiano.
Il cuore di Dima si appesantì dell’ennesima responsabilità.
Senza neanche guardarla, tese la mano destra verso la ragazza, che subito la afferrò con la sua sinistra.
“Siamo pronti” disse allora, sicuro.
Mostrarsi forte, ecco cosa doveva fare: strinse le dita intorno a quelle di lei.
Quando arrivarono in superficie, il sole stava sorgendo, lentamente; il cielo striato di luce e di viola, il profumo dei fiori che si aprivano al sole, la brezza lieve sul volto e il lago mormorante alle spalle.
Era tutto così bello!
“Io non vorrei essere qui, non voglio più avere paura” sentì bisbigliare Elsa al suo fianco, a lui soltanto, mentre i monaci si affrettavano a preparare il calesse.
“Anch’io. Ma non possiamo abbandonare chi ripone speranze in noi” rispose Dima, stupendosi lui per primo di aver pronunciato quelle parole.
Lui, che per natura fuggiva gli impegni, le responsabilità, le regole, era profondamente mutato in quei lunghi sette anni al Tempio.
 “Ho diciassette anni, Dima,  e non conosco nulla del mondo. Non so niente al di fuori di quello che ci hanno insegnato ad Odundì. Non ho mai scelto un vestito nuovo, o mangiato dolci fino ad avere mal di pancia; non ho mai visto un tramonto dalla vetta di una montagna, non ho mai visto il mare, non ho mai avuto un’amica. Non ho mai baciato un ragazzo. Ho diciassette anni e non ho ancora vissuto un secondo della mia vita fino in fondo” si sfogò, tutto d’un colpo, con voce bassa e vibrante.
Erano pensieri oscuri, cupi, tenuti nascosti per mesi, cresciuti nel buio della paura.
“Ma conosco il dolore, l’abbandono, e soffro per persone che non ho mai visto, di cui non so nemmeno il nome. Mi sento una ragazzina che va a fare la lotta contro i giganti. Loro hanno esperienza, potere, forza: noi, abbiamo solo un mucchio di nozioni imparate a memoria”.
Dima era felice che i monaci fossero troppo impegnati nei preparati del viaggio per fermarsi ad ascoltare le parole piene di rabbia della ragazza. Felice di avere la possibilità di rispondere.
“Chissà, magari troveremo anche noi il tempo per fare tutte queste cose e molto di più. Magari troveremo il tempo per capire chi siamo e come vogliamo vivere le nostre vite, dopo questa guerra. Grazie a questa guerra”.
“Nessuno ci darà indietro gli anni perduti, Dima”.
“Allora noi non consideriamoli persi”.
“In che senso?”
“Beh, abbiamo visto e abitato al Tempio, abbiamo scoperto l’amicizia, abbiamo imparato ad essere forti. Abbiamo capito cosa vuol dire prendersi cura di qualcuno, qualcuno che confida in te. Abbiamo conosciuto persone sagge che ci hanno insegnato tutto ciò che sapevano. Abbiamo capito che tipo di Guardiani vogliamo essere e abbiamo imparato che bisogna lottare con le unghie e con i denti per prendere ciò che ci spetta di diritto. In fondo, non siamo messi poi così male: anche queste sono delle esperienze! Abbiamo avuto un’infanzia spensierata e degli anni tranquilli anche se sapevamo che i problemi sarebbero arrivati, prima o poi. Non buttiamo via tutto, Elsa! Io, quando sono arrivato qui, ero completamente diverso da come sono ora. Adesso mi piaccio di più” spiegò, sorridendo e posandole una mano sulla spalla sottile.
Davvero nascondeva tutto questo coraggio, questa fiducia?
Lei lo guardò, più dolce.
“Mi ricordo di te, un bambino sporco, maleducato e davvero irritante” disse, mentre un sorriso si apriva sul volto incupito.
“Senti chi parla! Tu eri tutta impettita e perfettina, bacchettona e noiosa!”
Lei  rise debolmente, una luce in più nello sguardo spento.
Rassicurare Elsa aveva contribuito a rassicurare se stesso, a scoprirsi più forte; la giornata si prospettava sempre nera all’orizzonte, ma Dima ora sperava di essere ptonto ad affrontarla con forza, speranza, determinazione maggiori di prima.
Non tutto era perduto, non ancora. Safnea aveva ragione; quello era un tentativo da non sprecare.
“Vedrai” bisbigliò in fretta, mentre fratello Gongi si avvicinava a loro. “Convinceremo Petar a ritirarsi: lui è ancora nostro amico!”.
“Prego, signori, seguitemi” disse il monaco, senza riuscire a cogliere quello sguardo fugace, quelle fiducia, che passava dall’uno all’altra.
Dima non era mai stato in nessun posto a Cadmow, che non fosse a Nord; Germna, invece, era il primo avamposto della Regione dell’Est, il più vicino al confine di Odundì. Ma la curiosità, quella curiosità onnipresente nella sua vita, aveva poco spazio dentro di lui, in quel momento. Senza dare nell’occhio, asciugò i palmi delle mani sudati sui pantaloni e salì a bordo.
Tese una mano, ed ecco che anche Elsa si era accomodata accanto a lui, le spalle dritte e il collo teso.
Intorno a loro, due calessi pieni di monaci facevano da scorta e da avanguardia.
Le sterpaglie cedettero ben presto il passo a bassi cespugli e prati verdi, durante la loro marcia verso oriente; margherite e dente di leone, grosse foglie verdi e alberi dal tronco robusto costeggiavano la strada principale.
Era la primavera, era la Regione dell’Est.
Non appena varcarono il confine, una scorta di uomini armati si materializzò davanti a loro, affiancandoli nell’ultimo, breve tratto verso la città di Germna. Gli uomini di Safnea, intuì presto Dima.
Il silenzio regnava sovrano quando il calesse abbandonò i campi verdi e coltivati, oltrepassando le basse mura della città. Germna era piccola, poco più di un villaggio: le case erano di pietra, scura e levigata, e fiori ed edera ne adornavano le finestre e le porte. La gente del posto, come una fiumana, era sulla strada principale, rumorosa spettatrice del loro ingresso in città.
Dima poteva quasi sentire i commenti, la preoccupazione e la paura che serpeggiava tra quelle persone intorno a lui; afferrò la mano di Elsa e la strinse forte, come per rassicurare quel popolo inquieto.
Una brezza calda muoveva alcune ciocche dei capelli di lei, ribelli alla treccia stretta; il profumo dei fiori, di rose e di mele, sembrava essere ovunque.
“Signori, credo sia il caso che indossiate i vostri cappucci” disse fratello Agos, leggermente a disagio.
Dima non aveva badato a quanto forte il sole picchiasse sulla sua testa, a quanto la sua pelle fosse bollente; si, era proprio il caso di accettare il consiglio. Subito si sentì meglio, la testa e il volto coperto, al sicuro dai raggi cocenti del sole di primavera.
“Fa troppo caldo per noi, creature del Nord” gli spiegò Elsa in un sussurro distratto.
Avanzarono ancora per poco, fino a quando non raggiunsero il Palazzo del Portavoce. Lì, bella come sempre, c’era Safnea ad aspettarli.
Dima si inumidì le labbra, teso.
“Benvenuti, Dima ed Elsa, nella Regione dell’Est. Tutti noi siamo lieti della vostra presenza qui” sbrigò le formule di rito la Guardiana, allargando le braccia e sorridendo al suo popolo raccolto intorno a loro.
“Adesso, il Gran Consiglio ci attende” si congedò in fretta, facendo cenno ai ragazzi e voltandosi in un fruscio di sete e stoffe pregiate.
Elsa si affrettò a seguirla, trascinano un Dima impacciato ed imbambolato, ancora saldamente legato alla sua mano.
“Non è il momento per farsi prendere dal panico!” gli sussurrò, non troppo tranquillamente.
Uno stuolo di soldati e di monaci seguiva i tre per le sale adorne di tralci rampicanti e frutta fresca del Palazzo. I loro passi risuonavano per gli ampi corridoi, conferendo un che di ufficiale, di assoluto, alla loro visita. Due uomini in divisa spalancarono la grande doppia porta della Sala Grande non appena li videro, annunciandone i nomi; Dima sentì il suo e non lo riconobbe.
All’interno, un grande tavolo era stato allestito, di legno scuro, liscio e lucido: lì seduti c’erano uomini in viola, le vesti lunghe e le facce austere, un berretto di forme diverse in testa oppure posato sul piano davanti a loro. I membri del Consiglio si alzarono in piedi al loro ingresso, ma sui loro volti Dima riuscì a leggere solo disapprovazione, labbra strette, occhiate penetranti e impassibilità. Si affrettò, allora, a lasciare la mano di Elsa che ancora stringeva.
Un ometto basso e rugoso parlò per primo:
“Benvenuti, miei signori. Nella speranza che il vostro viaggio sia stato veloce e comodo, vi invitiamo a prendere posto e a dare inizio a questa seduta straordinaria” disse, con voce tremula, indicando tre sedie vuote.
Accanto a quelle, eccoli, i loro fratelli Guardiani: Orwen, alto e riccamente abbigliato di porpora ed oro, e Petar, l’unico rimasto seduto, lo sguardo vuoto davanti a sé. Safnea avanzò a passo deciso, eliminando ogni imbarazzo; prese posto con grazia alla sinistra del Guardiano dell’Ovest, lasciando che Dima ed Elsa si sedessero vicini alla sua destra.
-Safnea, lo spartiacque, la pace- pensò Dima, mentre abbassava il cappuccio.
Fece per appoggiare una mano sul tavolo, ma la ritrasse immediatamente; il legno sotto il suo palmo stava già riempiendosi di ghirigori ghiacciati. Doveva tranquillizzarsi, maledizione!
“Chiedo la parola, miei Signori” annunciò uno dei Consiglieri, un rubino pendente all’orecchio.
“Concessa” accordò Orwen, parlando per la prima volta.
“Vorrei illustrare a voi presenti quella che possiamo a ben donde ritenere una delle più floride situazione economiche e di benessere dell’intero Paese. La perfetta regolarità delle casse della Regione del Sud permette a noi tutti di ritenere che una divisione di tale ricchezza, una diffusione di codesta prosperità, sia quantomeno auspicabile e…”  
Dima respirò piano un paio di volte, guardando dritto davanti a sé, cercando equilibrio, la calma.
Era così facile, scoprì ben presto, far vagare la mente, perdersi, volteggiare per finta in quell’aria tesa e pesante! Osservò l’enorme mosaico esattamente di fronte a lui, alle spalle di alcuni consiglieri vestiti di viola, e cercò di svuotare la mente.
Era grande e di mille colori, quell’opera d’arte; mille minuscoli tasselli sembravano comporlo, mille minuscole sfumature, raggi di sole.
E fu allora che il ragazzo si perse, preso alla sprovvista dalla bellezza, dalla verità.
Intorno al tavolo si iniziò a discutere di armi ed eserciti, fiumi, monti, raccolti e magazzini, ma Dima lasciava ai suoi pensieri briglia sciolta, e non un frammento della sua attenzione era rivolto alle voci vigorose degli uomini intorno a lui. Lui era lì, tra quel mosaico di verdi, di gialli e di neri, su quel prato fiorito di rosa e vermiglio, fatto di mille tasselli che non si toccavano mai. Là, sul muro, i raggi del sole, dorati e bianchi, piovevano ovunque, una polvere fine che bagnava ogni cosa, senza lasciare ombre: sul muro, gli uomini partecipavano al raccolto come fratelli.
Le ceste, i fardelli, alberi alti e frondosi, il fiume che scorreva tra loro; turbanti di ogni colore avvolgevano il capo delle figure, delle donne chine tra i filari, tra quel rigoglioso insieme di doni della terra, di frutti e fiori, speranze dipinte di arancio.
Collaborare sembrava facile, volersi bene e condividere un gioco da ragazzi; un uomo prendeva per mano un bambino, sul muro dipinto, e quella stretta di mano conteneva tutto l’amore del mondo. Dima era lì, con la testa, coi pensieri, a guardare come si può essere uniti, concatenati l’un l’altro pur essendo composti di singoli tasselli disgiunti.
Il cielo era blu, e verde, ed azzurro; il cielo era giallo di luce, bianco di nubi, riflesso di rosso.
Il cielo nel mosaico era grande  e circondava ogni cosa, era intenso, profondo, richiamava ricordi.
Il cielo nel dipinto sussurrava al suo orecchio attento, coinvolto.
Il cielo era conforto, era consiglio, era Madre.
Dima non aveva mai capito cosa esattamente intendessero i monaci quando definivano i Guardiani gli “interlocutori prediletti di Dira”. Lui, con la loro grande dea, parlava raramente e sempre per gioco; non sempre ricordava che lei era lì, nascosta, un’amica invisibile.
Adesso non era così, adesso capiva; poteva ascoltare quel bisbiglio diretto al suo cuore.
Con gran stridore di legno e di pietra si alzò in piedi, senza sentire il suo corpo, senza sapere cosa avrebbe fatto,  cosa avrebbe detto.
Quanto tempo era passato dall’inizio della riunione? Minuti? Ore? Dima non lo sapeva, non aveva percezione di nulla, all’infuori del suo cuore che batteva violento.
I toni animati della discussione precipitarono d’un colpo in un silenzio stupito e tutti gli occhi restarono incollati a lui, il giovane Guardiano da cui nessuno si aspettava alcunché.
Rigido e impacciato nei suoi abiti da cerimonia, lo sguardo fiero, la testa alta, Dima li fronteggiava senza paura: gli occhi grigi e grandi di Elsa, alla sua destra, bruciavano di fiducia e speranza e Dima sapeva che non l’avrebbe delusa.
“Vi prego di scusarmi, signori Consiglieri, per l’interruzione” iniziò, la voce alta, che non tremava.
“Trovo estremamente inutile restare qui, seduto tra voi, a discutere di dettagli qualsiasi, a fare il conto delle forze, delle possibilità, a mettere in scena un balletto di domande e risposte dal sapore acido e tendenzioso. Io sono venuto qui per parlarvi di pace; e la pace non si misura in denaro ed armi. Forse parlo con una semplicità che voi riterrete ingenua ed infantile; ma Dira ci parla, ci parla ogni giorno, e sappiamo bene cosa insegna. La pace nasce prima di tutto dai nostri cuori, dalla nostra anima, nei nostri pensieri più profondi. Non è un compromesso, non un patto; perché continuiamo a dimenticarlo?”.
Dima tirò il fiato, rosso in volto per aver osato tanto, sfuggendo con gli occhi agli sguardi indignati di molti, mentre pian piano prendeva coscienza del mondo intorno a lui.
Elsa afferrò la sua mano, e sorrise; uno sguardo veloce, la forza per andare avanti.
“Ora, so bene che i miei compagni Guardiani sono contro di noi; non servirà elencare i disastri di una guerra per imporre la pace. Per questo motivo, chiedo la possibilità di parlare con loro e loro soli. Perché siamo una famiglia e abbiamo bisogno di discutere delle nostre divergenze, abbiamo diritto alla possibilità di chiarirci”.
Deglutì a vuoto, passandosi una mano tra i capelli, a disagio.
Dove aveva trovato il coraggio, la determinazione, quelle parole, non lo sapeva. Ma quando Safnea si alzò, posandogli una mano sottile sulla spalla, Dima seppe di aver fatto la cosa giusta.
“Certe volte noi, che ci crediamo tanto saggi, perdiamo di vista ciò che è il nostro vero obbiettivo, diamo ascolto alla rabbia e all’interesse, ci dimentichiamo chi siamo. È a questo, allora, che servono i giovani dal cuore puro, con la verità sulle labbra; Dimitar ha ragione, miei signori. Lasciateci un momento, torneremo presto a discutere della questione in Consiglio” disse, autoritaria, percorrendo con gli occhi i volti incartapecoriti dei Consiglieri.
Il furore e l’indignazione di quegli uomini colti e potenti, Dima lo sentiva sulla pelle.
Intravide Estefan e Qwan del Sud, sue vecchie, spiacevoli, conoscenze, lanciargli sguardi si fuoco; un uomo dai lunghi capelli grigi, invece, gli sorrise.
Dima ed Elsa li osservarono sfilare, uno dopo l’altro, fuori dalla grande stanza in perfetto silenzio, avvolti nelle loro tonache viole e nella loro disapprovazione.
Quando i soldati di guardia richiusero i battenti, un silenzio pesante si impossessò della sala ormai vuota.
Ed il silenzio si protrasse per alcuni, imbarazzanti, minuti.
Orwen si alzò in piedi e, senza dire una parola, raggiunse una delle alte finestre della sala. Petar, invece, restò immobile, lo sguardo fermo sulla superficie levigata del tavolo, come imbambolato; non uno sguardo, un cenno, ai suoi ragazzi.
Dima poteva quasi sentire il respiro leggero di Elsa, vicino a lui, e leggeva nei suoi occhi la confusione e la pena. Era la prima volta, dopo quella terribile notte, che il vecchio trio si ritrovava, e l’atmosfera non avrebbe potuto essere più gelida.
- Perché, Petar?-
“Bene, signori, poniamo fine a questa assurda pagliacciata” sbottò all’improvviso Orwen, voltandosi a guardare ognuno di loro in volto.
“Voi, Dimitar, Elaisa, Safnea, reclamate la pace, pretendete la pace. Ebbene, credete che non sia anche il mio più grande desiderio? Credete che mi starei preparando a condurre una guerra se avessi altre possibilità, una scelta migliore? Safnea, tu mi conosci; sai che non sono un mostro” era violento il suo tono, rabbioso, ferito.
Aveva le mani tese davanti a sé, chiuse a pugno; Dima lo osservava con occhi di ghiaccio.
“Non lo credo, infatti” replicò la donna, portandosi la mano al cuore e muovendo qualche passo nella sua direzione.
Avrebbe continuato, ma Dima non poteva tacere ancora a lungo.
“Io si, invece” disse, duro, glaciale.
“I nodi vengono al pettine, a quanto pare” intervenne il Guardiano, sprezzante, rivolgendo a Dima tutta la sua attenzione. “Dimmi, Dimitar, parla; ho sempre sospettato la tua antipatia, il tuo risentimento. Adesso puoi esprimerti liberamente; cosa provi, cosa pensi, ragazzo?”.
“Penso che tu sia un bastardo egoista, un approfittatore, un violento. Provo solo rabbia, nei tuoi confronti, Orwen, e non ti temo. Vuoi portare un esercito su al Nord, vuoi attaccare una Regione stremata? Bene, puoi farlo. Ma non osare ripetere le menzogne dell’atto di guerra per giustificare la tua sete di potere”.
Dov’era la calma, il controllo di poco prima? Perché Dira l’aveva abbandonato proprio ora?
Sentiva la presenza di Elsa, dietro di lui, bassa, nascosta.
L’aveva spaventata?
Sul volto di Orwen tornò un sorriso odioso.
“Non hai capito davvero nulla, ragazzino” disse, seccamente.
“Spiegacelo, allora. Perché io e Dima non sappiamo più cosa fare, cosa pensare. Perché ci fai questo, Orwen?” trovò il coraggio di intervenire Elsa, sbucando da dietro la spalla del ragazzo in tutta la sua semplicità.
“Tu e Dima, eh? Piccola cara, questo non è un problema che vi riguarda. Tu e Dima non esistete, insieme, lo capisci, vero?”.
“Uno solo sopravvive, si, lo so. Ma tu dimentichi che il Nord è casa nostra, è li che ancora vivono le nostre famiglie e i nostri amici. Come possiamo restare indifferenti?” trovò da ribattere lei, avvicinandosi di qualche passo.
Erano vicini, tutti, ora come ora. Orwen e Safnea, Dima ed Elsa; in piedi, le guance rosse, gli occhi brillanti di collera, di paura, di disprezzo. Solo Petar restava in disparte, ancora seduto al suo posto.
 “Noi siamo i Guardiani del Nord, che ti piaccia o meno. Non staremo a giocare, a stuadiare ad Odundì mentre tu devasti le nostre terre e uccidi la nostra gente” volle specificare Dima, posando una mano sulla spalla tremante della ragazza, mentre il marmo sotto i suoi piedi si trasformava in una solida lastra di ghiaccio.
Fuoco zampillò dalla punta delle dita di Orwen, fuoco dai suoi occhi.
Discutere di pace? No, non era possibile trovare un accordo. La questione si sarebbe risolta col ghiaccio e col fuoco.
“Basta!”
L’urlo fu forte e sconvolgente.
“Adesso basta” ribadì Safnea, andando a posizionarsi tra Orwen e i ragazzi.
“Ricordi le parole che tu stesso hai detto, Dima, pochi minuti fa? Noi siamo una famiglia! Se siamo una famiglia perché vi ostinate a comportarvi da nemici?” disse, con le lacrime agli occhi e la voce dura.
“Non essere ingenua, Safnea” sferzò l’aria la voce di Orwen.
“Si, io ti conosco da troppo tempo, caro amico, per crederti violento e vendicativo. Io so che agisci solo per il bene di Cadmow; ma la guerra porta dolore, nulla di più! Perché dici che non hai altra scelta?”.
Ora, la donna si rivolgeva ad Orwen, ad Orwen solo; quasi dimentica degli altri, gli afferrò le mani e lo guardò dritto negli occhi, piena di amore.
Lui si liberò dalla sua stretta per carezzarle una guancia.
“Non dico il falso, Safnea, tu devi credermi ed unirti a noi. Il Supremo, su, al Nord, sta per rivoltarsi contro tutti; è una menzogna, quella di uno stato allo stremo. Il Nord è forte, è diventato forte in tutti questi anni, ed ora è pronto ad un’invasione”.
Dima scalpitava al fianco di Elsa, il braccio destro stretto tra le sue mani, mentre intorno a loro si agitavano i venti gelidi dell’inverno, ormai fuori dal controllo del ragazzo.
“Si è barricato al di là di un muro, un muro che noi stessi abbiamo contribuito ad erigere, imbrogliati da una miserevole finzione. Noi, con le nostre stesse mani, abbiamo fornito a quell’uomo spregevole il rifugio che cercava, un luogo tranquillo per consolidare le sue forze, per programmare il suo attacco. Ora che ho finalmente aperto gli occhi, non permetterò a nessuno di fermarmi. È per il bene di Cadmow”.
“Menzogne!” urlò Dima, urlò forte, i muscoli del collo tesi all’inverosimile.
“Quelle che dici sono tutte menzogne, sole pretesti. Mostrati per quello che sei, dannato te!”.
Fiocchi di neve erano impigliati, ora, sulla barba grigio ferro dell’uomo, sui capelli biondissimi di Elsa.
Safnea non sembrava nemmeno averlo sentito.
“Che prove hai, Orwen? A me devi dirlo, devi dire tutto” bisbigliò.
“Te lo dirò, piccola mia, perché ti voglio al mio fianco, come una famiglia” rispose l’uomo, nascondendo un brivido di freddo.
“Le merci del Nord sono rimaste in circolazione, a nostra insaputa, sul mercato nero di Cadmow per tutti questi anni” iniziò a spiegare.
“Non merci qualsiasi, no. Ghiaccio e legno, marcati col sigillo del Guardiano. Venduti a peso d’oro ai forzatori del blocco, a chi, giornalmente, scavalcava e aggirava la Muraglia, oltrepassava porte aperte dall’interno. Perché un uomo giusto come il Supremo avrebbe dovuto correre il rischio di diffondere una malattia tanto orribile? mi sono chiesto. Ebbene, cara Safnea, perché quella malattia non esiste! Perché aveva bisogno di ricchezze, solido oro per raggiungere i suoi scopi!”.
La donna era pallida, e cercò l’appoggio di una sedia alle sue spalle.
“Non hanno mai fatto avvicinare uno dei tuoi guaritori, le tue erbe medicinali, vero? Perché era tutta una finzione, capisci?” le chiese l’uomo avvicinandosi.
“Non è possibile” sussurrò lei, scuotendo il capo.
“E tu non crederci, Safnea”.
Il vento si fermò, nella stanza, a seguito delle poche parole di Elsa.
“Non crederci” ribadì, con più forza.
“Perché non dovrei piccola?”
“Perché quelle di Orwen sono prove fittizie. Io conosco il mercato nero, so come funziona” intervenne Dima, furente ma più controllato.
"Che cosa intendi dire?” chiese Orwen, guardandolo attentamente.
“Vivevo ad Imbris, ricordate?” disse, sprezzante. “Si tratta di gruppo, un gruppo di uomini che vive al di fuori della legge, e si rivolge a quelle persone e quelle famiglie di cui lo stato non si cura, nelle periferie. Loro la merce non la comprano; portano via ciò di cui hanno bisogno senza pagare, senza chiedere. Semplicemente, sono ladri” concluse.
“Quindi, il Supremo non si sarebbe potuto arricchire tramite i loro traffici” dedusse Elsa.
“Il ghiaccio e la legna circolano al di fuori del controllo del governo” sputò tra i denti Dima.
“E se si trattasse  si iniziative di privati, che al di fuori di questo famigerato gruppo di malfattori accettano di comprare dall’autorità?” si informò Safnea, dritta sulla sua sedia.
“Impossibile. La setta controlla tutto il settore, non permetterebbe l’esistenza di una concorrenza”.
Orwen era impallidito.
“Qualcuno al di fuori della Regione del Nord avrebbe potuto, però” continuò lei.
“Difficile. Non impossibile, certo, ma molto difficile. Avrebbero avuto bisogno di contatti dall’interno”
"Non metto in dubbio la tua conoscenza dei più infimi e malfamati meccanismi del Nord, ragazzino” disse, altero l’uomo.
“Ma tu non capisci; il loro contatto era il Supremo! Messaggi e corrieri sono corsi veloci come il vento da una parte all’altra di quella Muraglia, a nostra insaputa!”.
“Io conosco il Supremo, lo conosco da lunghi anni, ormai: un uomo viscido, sempre all’ombra dei potenti, autoritario. Non si sarebbe mai immolato per la causa, mai! Non è confinato al Nord da tutti questi anni per amor di patria; ha uno scopo e presto lo raggiungerà se non agiamo” concluse, con un’aria quasi esausta.
Ma ormai Safnea vacillava.
“Mi dispiace, Orwen, ma tu muovi un esercito sulla base di un tuo sospetto, di un presentimento! Io non posso schierami, non questa volta. Dovremmo trovare il modo di comunicare col Supremo, con i Consiglieri del Nord”disse, decisa.
“Io conosco la verità, la conosco. Non è mia facoltà spiegarvi come sono venuto a conoscenza di questi fatti, ma dovreste davvero fidarvi di me”.
“Tu ci vuoi morti. Ci risulta difficile confidare in te” intervenne Elsa, con un risolino acuto, gelido.
“No, non tutti e due. So della tua ultima visione, cara bambina; solo il Supremo potrebbe trarre benefici dalla morte di entrambi. Lui, che è già saldamente insediato a Nenjaat”.
“Non ho motivo di crederti, Orwen. Potresti essere tu, ora, che tenti di ingannare tutti noi, che cerchi di convincerci e di renderci complici del tuo piano folle per conquistare il potere” ribatté lei.
“Perché, nella mia visione, un uomo rideva. Un uomo rideva e non era il Supremo, puoi starne certo”.
Gli occhi grigi velati di bianco della ragazza erano l’unica cosa che Dima riusciva a guardare, che tutti loro riuscivano a guardare.
Se solo Elsa fosse stata più forte, ora avrebbero saputo cosa fare, avrebbero saputo cosa il futuro aveva in serbo per loro!
“Peccato, Elaisa, che tu non riesca a vedere più oltre. Allora scopriresti da che parte sta la verità”.
“Fino ad allora, signore, credo che noi saremmo nemici” concluse semplicemente lei, scuotendo leggermente la testa.
“Fino ad allora, nessuna pace sarà possibile tra noi” rafforzò il concetto Dima, prendendo la mano di Elsa.
Il silenzio cadde, rotto solo dal respiro pesante di Safnea.
“Mi dispiace, mia cara” le disse Orwen, avvicinandosi e depositando un bacio sulla sua testa. “Io sono stato sincero e non mi tirerò indietro: per amore di Cadmow, per dare a questo nostro regno la guida giusta, sono disposto a separarmi da tutti voi”.
Ed allora voltò le spalle, e il volteggiare del suo mantello dorato fu l’ultima cosa che videro sparire al di là delle porte.

 
Fuoco e fiamme, urla.
Uomini cadevano dall’alto, volteggiavano nell’aria bollente della notte, cadevano a terra senza un rumore. Uomini e cavalli si ammassavano tra le sterpaglie ed il fango, sporchi, insanguinati.
Un nugolo di frecce si alzava tra il cielo arroventato, la pece calda colava dal parapetto di un muro immenso. Il grande muro coperto di neve, grondante d’acqua sotto tutto quel fuoco.
Lingue di fiamme si alzavano, volavano al cielo, come in preghiera; lingue di fuoco attorno a lei, attorno a tutti loro.
Un uomo sbraitava ordini alla sua destra; un altro, a sinistra, agonizzava in una pozza di sangue, di fango, di pece incandescente. Le sue urla squarciavano quella notte di fuoco.
“Non voglio morire!”
Stava urlando anche lei adesso.
Perché?
Le sue gambe corsero verso la base del muro, sotto le frecce infuocate dirette al nemico. Lì, proprio lì, un uomo stava seduto e la guardava.
“Petar, sei tu!”
Lui non parlò, non sorrise; il volto insanguinato, gli occhi rossi, sgranati, da pazzo.
Un urlo muto, i tendini tesi del collo, una spasmo.
Viola, macchiate, gonfie, grondanti di sangue.
Labbra cucite con filo di ferro.
 
“Elsa, Elsa!” un grido, reale, stavolta.
E lei si svegliò, ritta in piedi, cosciente, incrociando gli occhi scuri di Dima.
Lacrime scesero sulle sue guance.
Che futuro era, quello, per loro?
 
 
 
 
 
 
 
 
Note
Mi dispiace moltissimo per tutto questo silenzio, questo mese senza farmi viva con un capitolo. È un impegno, quello di questa storia, che ho preso con voi che leggete (se ancora è rimasto qualcuno!), ma soprattutto con me stessa. In questo periodo, però, non riuscivo a buttar giù che poche parole, non riuscivo a continuare. Ho iniziato e finito nuovi progetti, nel frattempo, nuove storie brevi, che mi hanno aiutato a ritrovare la voglia e l’entusiasmo nei confronti di questo racconto.
Quindi, ecco un nuovo capitolo; non dico nulla, a me non sembra un granché (che novità!!), ma spero di aver raggiunto lo scopo che mi ero prefissata prima di scrivere!
Fatemi sapere cosa ne pensate, da che parte state, cosa pensate che succederà: mi fa sempre molto piacere leggere i vostri commenti!! :D 
A presto,
Ester
  
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