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Autore: Melian    30/10/2014    2 recensioni
"Sono passati quattrocento anni da che sono morto: era una calda notte di primavera e le stelle splendevano come gioielli sulla chioma di una dea.", scrive Alphonse di Benavia in una lunga e appassionata lettera che giungerà tra le mani della sua amata Alexandra. Nella notte tra il 30 e il 31 ottobre del 1806, Alphonse rievoca i lunghi anni della sua esistenza e svela la sua vita mortale, i suoi lunghi viaggi e il suo più oscuro segreto: il patto che lo lega a Nuberus, un misterioso Demone che si nutre di anime umane.
[Prima classificata e vincitrice dei premi "Velo di tenebra" e "Virtù dall'aldilà" al contest: "Tales of after shadow" di Geah.Nee]
[Prima classificata al contest: "Concedimi di essere schietto" di PadellaBarella e giudicato da ladyriddle]
[Prima classificata al contest: "L'amore che move il sole e l'altre stelle" di ScarlettBrooks]
[Seconda classificata al contest "Romance in pain" di LoveSomebody]
[Vincitrice dei premi "Miglior mini-long" e "Best plot" al contest "Tragic and Epica Love" di Jo_gio17]
[Seconda classificata al: "Let's talk about a Beatle. Let's talk about...The Cute One!" di DakotaDeveraux]
Genere: Dark, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Mondo di Tenebra'
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CAPITOLO 3 – “HO ATTRAVERSATO GLI OCEANI DEL TEMPO PER TROVARTI”

 

 

«Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non s'era mai saputo. E lei conobbe lui e se stessa, perché pur essendosi saputa sempre, mai s'era potuta riconoscere così.»
Italo Calvino


 

 


Potrei parlarti di così tante cose, Alexandra, tante da riempire l'arco di molte vite mortali.
Ho tenuto molti diari dei miei viaggi e, se vorrai, potrai leggerli al lume della lampada, accoccolata sulla mia poltrona: le mie memorie.
La memoria, per me, è stata spesso una maledizione: avrei voluto dimenticare molti episodi della mia esistenza secolare, ma il sangue vampiresco ha sempre avuto l'incredibile potere di ricreare i ricordi con una vividezza sconvolgente, come se – allungando la mano – potessi toccare le figure evanescenti rievocate dalla mia stessa mente.
Per esempio, della notte in cui strinsi il contratto con Nuberus, rammento che mi condusse fuori dalla chiesa e, nel rombo del tuono, mi indicò la strada che avevo percorso solo qualche ora prima, dove ruscellavano pioggia e fango.
Le gocce d'acqua erano fitte e gelide come lame di ghiaccio, ma non poterono zittire il rumore di zoccoli che martellavano il lastricato o lo sferragliare di ruote che ne seguiva.
La cortina di pioggia si schiuse e una carrozza nera trainata da un cavallo altrettanto nero sfilò a velocità sostenuta, fermandosi proprio davanti a noi con uno scarto.
Nuberus sembrò sorridermi, sinistramente divertito: «Questa è la tua carrozza, non è vero?»
Mi prendeva in giro con tono sardonico e io gli risposi con un'occhiata fredda e mi limitai a chiedere: «Da dove spunta?»
Nuberus salì a cassetta e afferrò le redini dello splendido stallone. Era un animale superbo, con il collo arcuato e muscoloso e le froge allargate che su cui il respiro bollente si condensava nell'aria.
«Non importa da dove viene, sappi solo che questa carrozza sarà quello di cui avremo bisogno. Ti conviene salire, Alphonse: non vedi il cielo? Tra poco verrà l'alba.»
«Non è mia intenzione lasciare la tenuta di famiglia.» mi opposi con decisione.
Eppure, quando rivolsi lo sguardo al cielo tempestoso e rabbrividii, seppi che aveva ragione: il sole sarebbe sorto di lì a poco. Così mi infilai nell'abitacolo, sprofondando nei comodi sedili di pelle nera.
«Dovremo partire, se non vuoi che tutta la tua gente muoia e si destino infiniti sospetti che non porteranno che alla tua fine. In fondo, non ti spingi già lontano per cacciare? Scegli tu: sei disposto a sacrificare tutto il tuo borgo all'altare della tua Sete e al mio?», chiese Nuberus, con voce bassa e suadente, prima di far schioccare i finimenti.
La carrozza, sobbalzando e scricchiolando, partì e io rimasi in silenzio.
Sapevo che aveva ragione. Volevo preservare la mia terra, i suoi abitanti e non volevo che mettessero il castello dei Benavia a fuoco e fiamme. Dovevo portare Nuberus lontano, molto lontano da lì. E, forse, avrei potuto cercare Violate e trovare un modo per liberarmi del marchio del Demone assieme a lei.
«D'accordo, Nuberus. Partiremo.»
Le ultime cose che ricordo sono il dondolio della carrozza che proseguiva incurante del maltempo lungo una via sterrata, il tintinnare della pioggia sul tettuccio, il paesaggio della campagna sempre uguale, con filari di alberi da frutto che stormivano nel vento e qualche fattoria.
Sorse il sole e io, protetto dal buio di quella carrozza infernale, scivolai nel sonno dei Vampiri, un deliquio di sogni in cui abbracciavo tutto il mondo, annullandomi.

 

Notte dopo notte, mi svegliavo in quella stessa carrozza e mi ritrovavo in luoghi sempre diversi. Sembrava quasi che volassimo, che il cavallo fosse instancabile e abitato da chissà quale spirito maligno o che i poteri di Nuberus piegassero lo spazio e il tempo; ma probabilmente era solo una spiegazione troppo fantasiosa. Di giorno dormivo, simile ad un morto, e non avevo coscienza di nulla, quindi ciò su cui posavo gli occhi al tramonto era sempre fonte di sorpresa.
Se per i primi tempi non mi azzardavo a lasciare la protezione di quella carrozza quando eravamo in terra straniera, negli anni imparai invece ad affittare camere nelle locande e negli ostelli, così come interi palazzi e appartamenti lussuosi e mi fermavo anche per molti mesi nello stesso luogo.
L'oro che avevo a disposizione riusciva a comprare tutto ciò di cui avessi bisogno, anche la compiacenza degli esseri umani che, credendomi solo un ricco gentiluomo eccentrico, mi perdonavano quelle che per loro dovevano essere stranezze senza soffermarcisi troppo.
Per esempio, mi capitava di sedere alle tavole imbandite in compagnia di molti commensali, ma non di toccare mai cibo, limitandomi solo a sollevare la coppa piena di vino e a farlo volteggiare delicatamente.
Comprai mobili, tappeti e gioielli, statue e quadri e persino grandiosi arazzi e una moltitudine di libri. Mi piaceva arredare le case che compravo e, quando ero costretto a ripartire, le lasciavo amministrare a molti valenti avvocati, fornendo loro tutto il denaro necessario a mantenere quelle abitazioni sempre decorosamente. Erano i miei covi, dopotutto.
Il 1500 fu, per me, un secolo ricchissimo. Viverlo in Italia fu la mia enorme fortuna. Firenze, Roma, Napoli, Venezia, e molti altri comuni furono tutte città in cui sono rimasto per lungo tempo, godendomi le atmosfere di febbrile rinnovamento che si respiravano, sopratutto nelle arti.
Come riuscire a farti capire la nuova sensibilità che spirava tra le vie di Firenze senza parlare della cupola di Santa Maria del Fiore ideata da Brunelleschi? O dei Prigioni di Michelangelo, statue da cui balzavano fuori figure di uomini come se fossero state lì da sempre, sepolte sotto strati di marmo da cui cercavano di fuggire?
Ho visto all'opera Botticelli nella sua bottega dove lavorava fino a notte tarda al lume delle lucerne, inseguendo l'ispirazione del momento o l'insonnia quando un particolare non gli riusciva come desiderava o per l'ansia del giudizio della gente sulle sue Veneri e le sue Madonne troppo sensuali e carnali. È incisa nella mia mente la sua mano che spalmava i colori impastati col tuorlo d'uovo sulla tela, le sue figure colme di una luce e serenità incredibili che si muovevano nel giardino della Primavera, i mille particolari in cui si leggeva la sua passione. Un uomo semplice e tormentato, conteso da troppi committenti che, semplicemente, altro non voleva che dipingere ciò che il cuore e il talento gli suggerivano.
Ho ammirato gli splendidi saloni delle residenze papali a Roma, la vastissima collezione di opere antiche che, pur definite pagane, esprimevano la bellezza senza tempo di artisti mirabili che il Papa teneva nel suo tesoretto. Ho contemplato i soffitti della Cappella Sistina e mi sono accigliato davanti al Giudizio Universale.
Ho spiato i passi di Leonardo da Vinci mentre compiva le sue ricerche, i suoi studi e inventava e scopriva e creava nuovi orizzonti per la pittura.
Ricordo la dolcezza dei quadri di Masaccio e la delicatezza dei suoi colori e delle sue forme.
Scoprire poi, alle soglie del 1600, Caravaggio, fu l'apoteosi: un uomo che viveva con la sfrenata passione e dissolutezza di cui mi ero circondato anche io e dotato di un genio assoluto davanti a cui, persino con il mio Sangue vampiresco, mi sentivo impotente. Era iracondo, un vero guitto, ma quando teneva il pennello tra le mani compiva miracoli!
Quando mi perdevo in quel mondo mirabolante, quando mi immergevo tra le mille vie di queste città o attraversavo il Canal Grande in gondola, mi sentivo libero e grato di possedere l'immortalità.
Ma a che prezzo?
Laddove andavo, Nuberus era con me. E insieme portavamo il male, il male autentico, che travalica quello dei delinquenti nei quartieri malfamati perché assoluto, privo di pietà, sistematico.
Divoravo tutto ciò che mi destava interesse, sopratutto il sangue. E Nuberus catturava le anime delle mie vittime nel suo scuro manto, come fosse stata una gigantesca rete cosmica. Ad ogni anima, notavo in lui dei sottili cambiamenti: sembrava acquisire lentamente corpo, che le sue forme si sbozzassero laddove prima era solo una fumosa ombra avvolta in una cappa. I suoi occhi sembravano, però, sempre due fuochi fatui che non lasciavano scampo. Dopo cent'anni, Nuberus aveva acquisito le sembianze visibili di un albino rintanato sotto le falde del suo cappuccio, un uomo senza età e con gli stessi occhi chimerici.
Ci abituammo l'uno all'altro, complici in quel mercimonio degno delle peggiori creature abiette.
Ero un mostro, nonostante mi vestissi lussuosamente e andassi al teatro e al balletto e partecipassi alle feste dell'alta società.
Divenni ansioso di cercare altri Vampiri, di sentire altri voci immortali e condividere un po' della solitudine che, in fin dei conti, mi attanagliava.
Ogni tanto avevo avvertito la presenza di qualche Bevitore di Sangue, ma si rivelavano solo presenze elusive che restavano ai margini della fiumana umana e non si mostravano.
Erano un enigma, tanto quanto lo ero io per loro, cioè un Vampiro che si immergeva impunemente nella vita delle metropoli, che ballava con i mortali e discuteva di filosofia e politica nei loro salotti, ammirava le loro opere e comprava nelle loro botteghe. Ma, sopratutto, il Vampiro che si accompagna ad un cavaliere nero alla guida di una carrozza in cui adescavo spesso le sue prede. Capivano che Nuberus ed io eravamo legati dal Marchio? Restavano lontani per la presenza del mio strano compagno?
Non ebbi mai davvero contatti con quelle creature che sentivo essere molto più giovani di me, senza dubbio schive e timorose nei miei riguardi, ché ero divenuto vecchio nel Sangue, sostenuto dall'eredità di Violate, antica come nessun altro Vampiro avessi ancora mai avuto modo di conoscere.
Mi ci volle un po' di tempo per scoprire tutte le mie facoltà; alla fine potei contare su numerosi poteri, discipline che potei amministrare sempre più abilmente. Ero capace di richiamare e assoggettare al mio volere, oltre agli uomini, numerosi animali, specialmente pipistrelli che spesso precedevano la carrozza lungo le squallide campagne e io potevo vedere, se lo desideravo, attraverso i loro occhi.
Uno dei miei poteri prediletti era quello che mi permetteva di farmi beffe della gravità. Potevo compiere grandi balzi e camminare sui muri e i soffitti: bastava che comandassi al mio corpo di farlo e il Sangue Oscuro, con un sommesso ribollire, mi consentiva di tradurre il desiderio in realtà.
Fu così conquistai una delle donne che avevo desiderato più a lungo durante la mia permanenza in Francia, nella bella Provenza colma di distese di lavanda profumata.
Mi invaghì, come solo un Vampiro affamato può, di una giovane attrice di uno dei teatri di Marsiglia. Andavo tutte le sere a guardarla, le portavo i fiori, e Nuberus mi accompagnava, paziente e senza farmi storie, interessato quanto me a quella delicata creatura dai capelli rossi e il visetto spruzzato di lentiggini che ogni sera incarnava un'eroina diversa: prima era Giulietta affacciata al balcone, poi era Desdemona uccisa dal marito geloso, Ofelia inghirlandata di fiori e molte altre. Si chiama Claire e si muoveva con un languore trasognato sulla scena, con una passione palpabile: aveva del talento.
Una sera decisi che sarebbe stata mia e Nuberus guidò la carrozza lungo le strade di campagna, fino al palazzetto dove Claire abitava. Entrambi pregustavamo il pasto.
Ascesi fino alla balconata di quella stanza come se non avessi peso, balzando sul muro con un'agilità spropositata.
Una volta nella camera da letto, mi chinai ad annusare la pelle salace e fragrante, le sfiorai i capelli; esercitai su di lei la mia malia e la sentii abbandonarsi nel sonno. Mi sdraiai accanto a lei, chiudendola in un abbraccio da cui tracimava tutto il mio bisogno. Le sfiorai la schiena e la sentii inarcarsi, le accarezzai le natiche floride e assaggiai la voluttuosa consistenza dei piccoli seni orgogliosi. Poi la morsi, non potei trattenermi oltre e subito mi accorsi di quanto il cuore di Claire fosse forte: ne sentivo l'eco pulsare direttamente nelle mie tempie. Bevvi a lungo, come se quella cavalcata non dovesse mai finire, come se non volessi più staccarmi dalle braccia nude e candide che mi avevano ghermito, dalle cosce sottili in cui mi ero intrufolato e dal profumo degli umori di donna imprigionati tra la peluria del pube.
Il formicolio del Marchio, però, mi richiamò bruscamente alla realtà: Nuberus era lì, tra le tende svolazzanti della porta-finestre, e attendeva con la stessa smania che animava me.
Lasciai Claire a lui quando non potei chiederle più alto sangue e rimasi ad osservare la scena che aveva il potere di raccapricciarmi ogni volta.
Nuberus le premette una mano sul petto ansante, schiacciò con forza, tanto da a spezzarle le costole, fino a che la sottile e tremolante patina che era l'anima di Claire divenne visibile. La ghermì e la tirò, mentre lei boccheggiava e si contorceva, gli occhi rovesciati e preda di una sofferenza intollerabile.
Il Demone estirpò quell'anima e la ingabbiò tra le fitte pieghe del suo manto, eclissandone il fulgore.
Claire giacque con gli occhi vitrei spalancati sul soffitto e il braccio mollemente abbandonato a mezz'aria oltre la sponda del letto.

 


La notte sta sbiadendo mentre scrivo queste parole e temo di non poter indugiare oltre, anche se avrei molto da raccontare dei miei viaggi attraverso l'Europa dell'Est, all'ombra dei Carpazi, attraverso la Romania e la Bulgaria e fino alla Transilvania, patria di Vlad Dracula.
Nei miei diari potrai leggere del mio incontro con i Vampiri del Vecchio Mondo, in quei villaggi montani sperduti: creature così diverse a quelle a cui ero abituato, gravati da una maledizione del Sangue unica, condannati ad essere orrendi mostri cenciosi dalle carni marcescenti che potevano riposare solo nella terra natia.
Attraversare quei paesini con la carrozza sferragliante, la dondolante luce rossa della lanterna che proiettava fantastiche ombre e l'enorme luna piena come sfondo, mentre i pipistrelli ci volavano attorno e i lupi in lontananza ululavano tetramente, fu come immergersi in un sogno medievale e barbarico.
Alimentate dalla Chiesa, la paura e la superstizione regnavano incontrastate e la gente viveva con la perenne consapevolezza che gli Strigoi, i Non Morti figli del Diavolo e amanti delle Streghe, rapivano i mortali ai crocevia e se ne cibavano, ritraendosi all'alba nelle loro tombe in antichi cimiteri infestati di spiriti maligni.
Mi sovvengono ancora le scene raccapriccianti dei racconti dei contadini timorosi e balbettanti che si facevano il segno della croce in continuazione e ornavano le case di ghirlande d'aglio: se trovavano una sepoltura sospetta, la scoperchiavano e, quando trovavano il cadavere gonfio di sangue fresco, allora gli conficcavano un paletto nel cuore e gli spiccavano la testa, dando i resti in pasto al fuoco e disperdendo le ceneri. Potevo immaginare il Sangue Oscuro che eruttava dal corpo smembrato di quei Vampiri e che, per qualche orrido attimo, continuava a contorcersi come impazzito.
Tutto questo, però, venne lenito e dimenticato quando Nuberus mi condusse in Russia. Era inverno, si respirava aria natalizia e io vidi San Pietroburgo ornata di una pioggia di fiocchi di neve come una sposa.
Eppure, dopo quattrocento anni di peregrinazioni, ero sazio di quanto avevo visto e compiuto e decisi di tornare nella mia patria.
Nuberus venne con me, tu stessa l'hai intravisto spesso. Non sai quanto ciò sia stato pericoloso, non puoi immaginare quanto tu sia stata vicina al disastro.
Era la fine del 1700 e mi presentai agli amministratore delle mie proprietà come l'erede di me stesso, somigliante in modo assolutamente sorprendente all'Alphonse di Benavia da cui dicevo di discendere e il cui ritratto stava nel salone del castello, appeso sopra al camino.
Finalmente il castello riprese vita, ne aprì le porte alla gente e fui lieto: nessuno mi conosceva più ormai e potevo muovermi indisturbato.

 


Due anni fa arrivasti in città, alloggiando nella tenuta che era stata della tua famiglia per secoli, ricchi mercanti che con i Benavia avevano sempre fatto ottimi affari.
Ricordo il momento in cui ti vidi per la prima volta: è rimasto indelebile nel mio cuore e nei miei occhi.
Uscivi dalla Chiesa di Santa Maria dopo la messa del vespro ed eri vestita di bianco, con uno grazioso cappellino calcato sui capelli biondi raccolti sulla nuca. Ti cadde un guanto e io mi chinai a raccoglierlo; ti sfiorai la mano quando te lo porsi.
Credo fu quel semplice contatto che mi accese nel cuore una smania che non avevo mai conosciuto prima. C'era stato qualcosa, qualcosa di labile e remoto, ma che aveva aperto un canale tra noi, un ponte gettato attraverso l'abisso che ci separava.
Ho attraversato gli oceani del tempo per trovarti, Alexandra. Tu eri la donna che mi era destinata.
Sei divenuta quel ponte verso l'umanità che a me mancava: sfavillavi di vita, splendevi come il più bel gioiello e non immaginavi che dietro al mio sorriso affabile ci fosse una Bestia.
Tu, nella tua immensa purezza, non mi hai mai trattato come un mostro nocivo. Hai guardato oltre e hai scovato l'ultimo sprazzo di una umanità che, in quattro secoli, credevo di aver ormai dismesso come un vecchio vestito tarlato.
Eri bellissima, Alexandra, nella tua consapevolezza, con la boccuccia socchiusa e imbronciata mentre mi osservavi al lume di una lanterna in strada, mollemente poggiata ad un un muro, con l'aria pensierosa che cercava di penetrare il segreto della mia avvenenza che aveva sempre stregato le donne, ma che su di te non sortiva lo stesso incanto. Eri diversa da tutte le altre, poiché non ti fermavi mai alle apparenze.
Quando ero accanto a te, sentivo la Sete torcermi le viscere, la Bestia scalpitare; suscitavi in me il più sfrenato desiderio, ma mi ci opponevo: non volevo far sfiorire la tua vita, né contaminarla.
Non potevo trascinarti nel mio mondo tenebroso, nelle lunghe notti gelide dove la passione del sangue pennella tutto di rosso.
Ti avrei protetto da me stesso, dall'insana voglia di concupirti, di raggirare la tua dolcezza e la tua fiducia e pervertirla ai miei capricci, poiché questa è la mia natura, in realtà.
Tutte le donne, prima di te, non avevano esercitato alcun vero fascino su di me; tutte arrendevoli, troppo facili da conquistare, troppo legate al superfluo: non c'era sfida.
Invece, tu eri quella sfida, una miscela di audacia e di accortezza. Allungavi la mano e mi sfioravi, ma non eri mai davvero mia, conservavi il tuo segreto di donna e il fascino sottile delle creature inaspettatamente forti, che sanno quanto valgono e ciò che desiderano.
Tu eri libera, Alexandra, lo sei sempre stata. Volavi molto più in alto di quanto persino tuo padre era capace di comprendere.
Tu valevi la pena. Hai dato luce e calore al mio mondo.
Sono stato un uomo dissacrante e crudele e un Bevitore di Sangue ancor più crudele e appassionato, un fervente devoto alla causa della mia sopravvivenza e della mia lussuria cannibale.
Tuttavia, quando venivo a trovarti e passeggiavamo tra le vie tortuose del borgo e posavi la tua piccola mano nell'incavo del mio gomito, lasciandoti condurre dove volevi, tu riuscivi a placare la Bestia e la facevi uggiolare impotente.
È questo che gli esseri umani chiamano amore? Non lo so, mia cara, ma sono certo che è qualcosa di molto vicino ad esso. Tu avevi la mia devozione: il mio pensiero volava a te prima che il sole sorgesse e divenissi un cadavere esanime nelle cupe stanze del mio castello. Mi levavo, risorgevo, solamente per scivolare nella folla della piazzetta e aspettarti davanti al cancello del tuo vecchio palazzo. Uccidevo in modo che il calore del pasto mi regalasse una parvenza umana ai tuoi occhi. Oh, sì, ti ho ingannata, ti ho ingannata a lungo, volevo che quel sogno in cui camminavamo non finisse mai.
Ricordi come fremetti quanto ti pungesti con le rose selvatiche che crescevano sulla riva del fiume? Fu una tortura e dovetti fare appello a tutta la mia forza di volontà pur di non ghermirti. Ti presi la mano, baciai quella puntura e assaporai – per la prima volta – una perla del tuo sangue.
Era così buono! Di una dolcezza che mi distrusse e che scatenò i miei più bassi istinti.
Oh, come mi tramavano le mani, subito dopo!
Quello fu il primo, vero e intimo contatto tra noi. Mai avevo posato le mie labbra sulle tue e mai avevo osato stringerti nell'arco delle mie braccia.
La nostra era un danza, un venirsi incontro senza fretta, assaporando ogni attimo, anche se sapevamo di essere ormai legati l'uno all'altra.

 


Inaspettato, però, venne il terribile giorno in cui Nuberus si presentò a me e si tolse il cappuccio, rivelando la pelle ancor più bianca della mia e una fredda determinazione intrisa di malizia. Mi sorrise, beffardo come la notte in cui le nostre strade si incrociarono.
«Sembra che tu abbia trovato qualcuno per cui investire energie e fantasie, come se fossi un ragazzino alla prima esperienza d'amore» esordì e sentii nel suo tono di scherno una insinuazione che mi suscitò un improvviso senso di vertigine «Mi chiedo quanto ancora tu voglia giocare con lei, prima di immolarla alla tua fame e ai tuoi capricci.»
Mi sistemai la giacca e lisciai il tessuto, osservandomi nello specchio con aria improvvisamente distaccata, con quel volto privo di espressioni che genera apprensione in chiunque si ritrovi a fissarlo e risposi: «Non ho intenzione di ucciderla. Non la toccherò.»
«E allora perché corri da lei tutte le sere, come il cane che rincorre l'osso, se non è per soddisfare la tua Sete?» mi domandò allora Nuberus con un che di mellifluo, seguendomi lungo il corridoio, mentre marciavo ostinatamente verso il portone d'ingresso.
«Non puoi capire, Nuberus. Lei è ciò che ho sempre cercato in questi quattro secoli: è il mio ponte con l'umanità, è casa mia. Solo lei vede oltre le apparenze e cerca la parte migliore di me» rivelai, di colpo, e lo fissai con odio «Quindi non la toccherò. Godrò della sua compagnia fin quando mi sarà concesso, senza farle alcun male.»
«Tu non hai una parte migliore, Alphonse, sei sempre stato un bastardo perverso e sardonico» ribatté Nuberos con un'alzata di spalle che, su di lui, sembrava un gesto orrido, innaturale «Tu le stai facendo già del male, fin da quando hai deciso di irrompere nella sua esistenza. Si è legata a te e tu la lascerai, gettandola nello sconforto e nella disperazione esattamente come tutte quelle che l'hanno preceduta. Sfiorirà quando gli anni la renderanno curva e grinzosa e tu resterai immutato. La distruggi ogni sera un po' di più con la tua sola presenza. E fai del male a te, castigando il tuo appetito.»
Quelle parole mi scossero, aprirono una breccia in me, nelle mie paure: Nuberus diede voce a ciò che io pensavo senza volerlo ammettere e mi infuriai. Lo afferrai e lo scossi con tutta la potenza di cui ero capace; i miei occhi si erano colorati di cremisi in quell'impeto di ira bestiale e che le zanne erano ben visibili tra le labbra socchiuse.
«Non interferire! Non hai il diritto, Nuberus!», esclamai e sentii la mia voce rimbombare nell'atrio, far tremare il lampadario di cristalli e scivolare giù, verso le cucine.
L'eco della mia voce innaturale atterrì ogni servo e suonò terribile al mio stesso orecchio.
Lui si divincolò e fece una smorfia: «Non ne ho il diritto? Tu mi hai tolto qualcosa che consideravo prezioso tanto quanto lo è per te la piccola Alexandra. Ricordi? Beth. Ecco, tu ora mi darai Alexandra, così saremo pari.»
Sentii il mondo crollarmi addosso. Dopo quattrocento anni, dopo ogni singola anima che aveva divorato sotto i miei occhi, lui chiedeva il conto.
«Sta' lontano da lei!», gli intimai.
Tremai di una furia che travalicava tutto ciò che avevo mai provato prima e sentii una forza incredibile elevarsi da me, come avevo sperimentato solo poche altre volte in passato: il Sangue Oscuro ribollì e con la forza della mia mente riversai quel potere contro il Demone, scagliandolo lontano.

 


Ora puoi capire perché ho preso la mia decisione, non è vero? Dovevo salvarti e così ho fatto.
Com'eri tenera quando ti sei lasciata prendere tra le braccia e ti sei stretta al mio petto, con le labbra premute contro il mio collo e la guancia bollente sulla mia spalla, i lunghissimi capelli biondi sciolti e ondulati che mi scorrevano tra le dita come oro liquido.
Quanta fiducia riponesti in me, mentre tra il sonno e la veglia ti portai via dal tuo letto, dalla tua casa e ti condussi – saltando di tetto in tetto – fino al castello, deponendoti sul mio cuscino.
Tu avevi capito chi ero senza bisogno di parole!
«Alphonse, so chi sei, so che vivi grazie al sangue, so tutto da molto tempo, senza che tu abbia mai pronunciato una sola sillaba a tal proposito. Ti ho visto e ho sentito l'odore del sangue indugiare sulle tue labbra ogni volta che sei venuto a trovarmi. Eppure – anche se mi sforzo – io non riesco a vedere davvero del male in te, né a pensarti come un essere mostruoso e spaventevole. C'è qualcosa, nel tuo cuore, che è ancora umano e che si aggrappa a me con forza. Così, io voglio essere sempre ciò che ti tiene legato a questo mondo mortale e non ti faccia mai dimenticare chi sei davvero.»
Mi dicesti proprio così, con le tue piccole mani contro il mio viso e il sorriso sulle labbra.
Sentii qualcosa che credevo fosse morto da tempo balzare nel petto e capii che non potevo lasciarti a Nuberus.
La mia decisione fu rapida e, ammetto, non me ne pento. Ti ho davvero lasciato tutto ciò che farà di te la più splendida figlia delle tenebre: nel candore della tua umanità, sei rinata come la più pura tra i Bevitori di Sangue.
Il mio amore, la mia salvezza, il mio ponte con l'umanità, la mia amante, mia figlia: sei tu, Alexandra.
Questa notte, il patto con Nuberus finirà con me e sarai salva. La tua anima sarà per sempre legata al tuo corpo agile e flessuoso, lui non potrà averla.
Anzi, spezzerò il contratto e infrangerò il Marchio e, infine, riposerò accanto a mia madre e mio padre. Aspetterò l'alba e ascenderò nel sole.
Avrei voluto godere con te tutti i secoli a venire, baciarti e stringerti con tutto l'ardore di cui – scoprirai – siamo capaci. Avrei voluto istruirti nel Sangue e donartene molto del mio per fortificarti sempre più: sei l'unica a cui l'abbia mai concesso.
Eppure, sei forte e piena di risorse, Alexandra, e saprai cavartela. Non hai bisogno di nessun altro, adesso, se non di te stessa e della tua volontà.
Caccia senza rimorsi: la notte ti appartiene.
Vivi, abita questo mondo come un'autentica immortale, sii la memoria di queste epoche che si avvicendano con inaudita velocità, sii attenta e scrupolosa osservatrice delle vite degli uomini e falle tue!
Non abitare ai confini della storia, ma entra in essa, assapora le sue correnti, lascia che galoppi nella direzioni in cui gli uomini la conducono, ma non essere mai estranea ai suoi eventi.
Ricordami, Alexandra.

Hai il mio amore, sempre.

 

 

Alphonse

 

   
 
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