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Autore: Athenryl    04/11/2014    14 recensioni
Dovrei avere paura, Leroy? E di cosa? Della tua voce fredda come una stanza vuota, del tuo odore di lupo, delle spine che ti hanno graffiato? Dei tuoi occhi che il dolore ha arrugginito? Del tuo involucro di carne che ti porti dietro con la tua andatura arrabbiata, delle mani che hai respinto e delle paure che ti hanno scavato nella pancia?
Io non ho paura, non di te, non di questa pioggia che ci ha lavato via noi stessi, non di questa Londra appannata dall'acqua, né di questo materasso ciancicato su cui i nostri corpi lasceranno delle impronte calde. Non ho paura di te e di questo cielo di cemento grigio, di questi fantasmi che ci scivolano alle spalle, di questo albergo che ancora non ha visto valigie sfatte e facce di turisti, di questo diluvio che i terrazzi trasformano in rivoli ghiacciati che cadono giù come equilibristi.
Siamo soli nella pioggia, Leroy, e tu più di tutti. E io non ho paura di te.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Era da un bel po' di tempo che avevo in mente questa one-shot e dirvi che l'ho scritta e riscritta ventordici volte non basta a esprimere tutti i disagi e le crisi esistenziali che ha comportato. Anyway, eccola qui. Si tratta di un breve spin-off sulla long che ho in corso, I'm a mess and you're a work of art, su due personaggi in particolare, su cui non ho avuto modo di fare approfondimenti né di indagare di più. Tuttavia la si può leggere anche separatamente dalla storia principale, non è necessario averla letta prima perché comprensibile e, come già detto, è qualcosa di lievemente staccato dalla trama.
Niente, buona lettura e grazie anche soltanto per avere letto; se avete voglia, lasciate un parere, critiche o fangirleggiamenti vari. In realtà aspetto i pomodori LOL  
Vi consiglio di ascoltare la canzone che ho inserito a metà capitolo perché io mi sciolgo ogni volta che la ascolto c: 
Adieu! 







"La vita è un buco
che s'infila in un altro buco.
E stranamente lo riempie."

 
   
Prima ancora di quei due piercing sotto il labbro, prima ancora di quella voce graffiata e bassa e di quella barba scura che gli ricopre il mento, prima ancora di quegli occhi di vetro smerigliato, di Leroy ho notato le mani.
Non sono le dita lunghe e allenate di un pianista né quelle callose di un operaio, sono le dita nodose e ruvide di chi le notti le passa in bianco, con un drum rollato dopo l'altro e una penna per fare i conti con i propri fantasmi; sono le mani di qualcuno che in testa ha ancora i non so più cosa fare con te di sua madre, di chi le sconfitte non le accetta e le tiene tutte nel cassetto insieme a fogli di storie mai finite che comunque non butterà; e la forma delle sue spalle – mon dieu, le sue spalle – è quella di qualcuno che ha passato almeno una notte al fresco, di chi si è rovinato le nocche a forza di pugni contro muri freddi.
 
 

«Ma che bel tempo.»
I tergicristalli della vecchia berlina anni '80 di Leroy hanno uno gnaulio simile a quello di un gatto quando, con uno scatto distratto del pollice, li mette in funzione. Scendono a liberare i vetri dalla pioggia e dalla sporcizia e risalgono sempre con quello stridio fastidioso, grattando il finestrino e spingendo indietro il muro nero d'acqua che si schianta sull'auto, umide dita violente che tamburellano con insistenza. Oltre il cruscotto – pacchetti di tabacco ovunque, depliant, lattine di birra e 49 racconti di Hemingway – i fari accesi bucano la pioggia, galleggiando nella notte, rivelano il bordo di un marciapiede lucido e un tombino.
Non ho idea di dove siamo, di quanto tempo sia passato da quando abbiamo lasciato Sam e Duff all'angolo di una tavola calda in Pavilion Road per recuperare quei quartini – e ancora cerco di soffocare quella voce remota nella mia testa simile a un campanello d'allarme, che continua a sussurrare sempre più debolmente che Duff, ma soprattutto Sam, si sta cacciando nella merda più assoluta.
Leroy picchietta ritmicamente le dita sul volante, quasi a voler inseguire lo scrosciare della pioggia.
«Siamo a Londra, che ti aspettavi?» osservo. Lui mi scocca un'occhiata in tralice, la brace della canna che disegna frange ardenti sul suo viso. Crook, sul sedile posteriore, manda un latrato di protesta: i finestrini sono chiusi e l'odore è così pungente che penso di stare diventando fattissimo soltanto con il passivo, per cui posso immaginare quanto se la sta passando bene il cane.
«Cazzate» ribatte. Un ultimo, lungo tiro e poi mi passa la canna. Non posso fare a meno d'osservare il profilo del suo collo e del pomo d'Adamo disegnati dalla luce liquida del lampione, quando rovescia la testa all'indietro e si abbandona al sedile in un cigolare di molle. Uno strano calore mi risale dal viso, e sono piuttosto sicuro che non abbia nulla a che fare con il pulsante del riscaldamento girato al massimo. Rimane così per un po', gli occhi chiusi, il petto che si abbassa lentamente.  «Questo luogo comune della pioggia e di Londra, intendo. Tutte cazzate. Ormai è un luogo comune anche dire che è un luogo comune la pioggia a Londra. Insomma» sbotta, la voce che si fa ad ogni parola più impastata e scura, senza tuttavia perdere il suo accento gutturale, «siamo un luogo comune anche noi due, anche Crook, seduti in questa macchina a lamentarci della pioggia.»
«Senti, Hemingway, si dà il caso che sei tu quello che si lamenta della pioggia. Io mi sto godendo in pace la mia metà della canna.» Il fumo è fermo nell'abitacolo, tentacoli azzurrognoli che si attorcigliano nell'aria immobile.
Leroy solleva appena le palpebre, il grigio chiaro delle iridi che guizza tra le ciglia. Increspa la bocca in un sorriso pigro. «Mi è avanzato un po' di scotch lì dietro, e non credo che Crook abbia intenzione di scolarselo. Vero, bello?» Senza girarsi, allunga un braccio oltre il sedile, arruffa il pelo folto del border collie, si lascia bagnare le dita di bava.
«Ammettilo che gestisci una distillerie. Altrimenti non si riuscirebbe a spiegare la quantità di alcool che hai a disposizione.» Sorrido tra me e me, perché in effetti vorrei tanto sapere com'è che, non importa dove siamo, che ore sono o in che condizioni ci troviamo, Leroy, lui riesce sempre a recuperare dell'alcool. Non si sa da dove, non si sa come ed è esattamente il genere di cosa che ci si aspetterebbe da lui, ma sa sempre come far comparire magicamente una Paulaner o una boccia di tequila, il momento prima siamo inscimmiati perché non sappiamo cosa fare e il momento dopo, puf!, tutto sparisce e tutto è risolto perché Leroy ha dell'alcool.
Leroy aggrotta la fronte e si colpisce il petto con il pugno. «Beccato.»
Ha uno sguardo fermo, impassibile, Leroy, occhi chiari ma torbidi, fondi, color della pioggia. Una patina di gelido disinteresse e d'indolenza che lo separa dal resto del mondo, un vuoto che va abbattuto, ma che nasconde acque insidiose, fredde come pietra, un vuoto che io non ho mai osato attraversare.
Con la coda dell'occhio lo guardo mentre si dimena all'indietro, torcendo il busto, per recuperare la bottiglia da sotto il sedile. La luce taglia in trasversale il suo profilo, ombre nette e marcate, mascella decisa, linea del naso dritta se non fosse per quella leggera irregolarità al centro – se l'è rotto almeno tre volte, a quanto dice –, un ciuffo di capelli neri che gli ricade sul viso e che, quando è particolarmente annoiato, si riavvia sulla fronte.  
Chiunque abbia un po' di buonsenso cambierebbe lato del marciapiede se lo incrociasse per strada. È stato in riformatorio e ha tutti i libri di Hemingway, un'inclinazione abbastanza patologica per le risse e un bel po' di brutte cicatrici. E nonostante questo, ha trovato lavoro in un'officina non molto lontana dall'appartamento che divide con Duff e Sam e ha pubblicato un libro.
Le vie misteriose della vita, direbbe Jay, e una volta tanto sono d'accordo con lui. Voglio dire, ci vuole del fegato per assumere uno come Leroy. Uno capace di appenderti al muro come un chiodo, se commetti l'errore di irritarlo durante una delle sue giornate no. Che sono pressappoco sempre.
Mi passa la bottiglia, colpisce il mio palmo aperto in un tintinnare di vetro. Gli scocco un'occhiata dubbiosa, aggrottando le sopracciglia. «Cosa si suppone dovrei farci, con questa?»
«Avanti, ragazzino. Vogliamo dare una svolta a questa serata? Tanto quei due avranno trovato delle grane e ci faranno aspettare fino all'alba. Non so te,» e si passa la lingua tra la fessura delle labbra, e io mi scopro a trattenere il fiato «ma non avevo intenzione di passare così il venerdì sera.»
No, mi dico. Non voglio sapere come intendeva passare il venerdì sera, davvero.
Perciò mi porto la bottiglia alle labbra e bevo. Il primo sorso è sempre il più difficile. Ingollo strizzando gli occhi, imponendomi a tutti i costi di non tapparmi il naso, ma anche così impiego qualche istante per riprendermi dal retrogusto amaro e dalla scia bruciante di calore che si lascia dietro lo scotch. Mi passo l'avambraccio sulla bocca bagnata, sforzandomi di non sputare tutto, anche se non so a quanto possa servire. Probabilmente mi considera una checca isterica, è soltanto troppo annoiato per dirmelo. «Merde, sei proprio un cazzo di scozzese» sbotto. «Sono abbastanza sicuro di avere provato un sacco di alcolici illegali in almeno quarantacinque Paesi, ma questo li supera tutti in quanto a schifo.»
Leroy si riprende la bottiglia e butta giù senza fare una piega. «Anche questa, Thèo, è una cazzata.»
Oh, bene. Sono contento che ci sia buio qui dentro, perché altrimenti vedrebbe il colorito paonazzo che mi ha raggiunto persino le orecchie, e non ho assolutamente nessuna voglia di venire sfottuto da questo avanzo di galera. Mi rigiro distrattamente la sterlina che tengo sempre in tasca come faccio quando sono nervoso e aspiro quello che è rimasto della canna, quasi soltanto tabacco mescolato a un sapore più pungente, sottile.
Per un po', non si sente nient'altro che l'abbattersi solitario della pioggia sui vetri e il respiro pesante di Crook; ogni tanto, un tonfo liquido mi raggiunge, e non ci vuole molto prima che Leroy si beva metà bottiglia da solo.
In lontananza, le sirene di un'ambulanza – probabilmente sull'A4 – squarciano la notte londinese. Mi chiedo che fine abbiano fatto Sam e Duff, e anche se la possibilità è molto remota, per un istante ho il terrore che ci possano essere loro su quell'ambulanza.
Stasera Gail non è venuta, l'ho salutata scompigliandole i capelli in quel trionfo di disordine e sporcizia che è diventato il soggiorno del loro appartamento, a malapena mi ha risposto, gli occhi fermi sullo schermo del televisore. Non ha salutato nemmeno Sam, se n'è rimasta semplicemente lì mentre le richiudevamo la porta alle spalle, come una marionetta senza più fili a muoverla. Per un istante ho un brivido, deglutisco, pensando a cosa diavolo sta succedendo dentro quell'appartamento – anche se conosco già la risposta, e forse è per questo che non sento più il bisogno di fare domande.
Ma poi Leroy spezza il flusso dei miei pensieri, restituendomi bruscamente alla realtà. «Ma cosa cazz…» Il quadro è acceso, basta un colpo a lato del volante e gli abbaglianti esplodono nel vicolo, coni di luce violenta che attraversano le frange d'acqua. Non c'è molto da vedere, a parte un cassonetto della spazzatura fradicio di pioggia, la segnaletica di un cantiere, fabbricati tutti uguali nel buio. È proprio a quelli che è interessato Leroy, tanto da abbassare di colpo il finestrino, sfidare la pioggia per infilare un po' la testa fuori e vedere meglio.
Gocce d'acqua gli scivolano in umidi sentieri giù dal mento. «Ci avresti scommesso? Stanno costruendo un cazzo di hotel, qui. Vedi?» E indica qualcosa che i miei occhi non riescono a raggiungere, nel buio. Probabilmente un'insegna, un cartello.  
«Très bien» dico io, e torno a occuparmi dello scotch, cercando di farmi piacere questo gusto troppo intenso e forte, quasi legnoso. Mi gira già la testa ed è un buon segno. Reggere un'intera serata con Leroy in due metri quadrati di spazio, e farlo da sobri, è un'impresa titanica. Mi accorgo che Leroy mi sta fissando, i suoi occhi sono un'ombra allungata, immobili e fangosi come quelli di un animale selvatico, come la melma insidiosa che si lasciano dietro le acque di un fiume prima di ritirarsi. «Che c'è?» sbotto, troppo intontito per darmi un tono.
«Andiamo a dare un'occhiata, ragazzino
Lo scotch probabilmente mi va di traverso. Annaspo per qualche secondo prima di riprendere il controllo. Lo guardo sgranando gli occhi dietro la montatura troppo spessa dei miei occhiali. «Libero di andare, Hemingway. Io starò qui a… farti da palo. Sai com'è, qualcosa potrebbe andare sempre storto. Sam e Duff potrebbero chiamarci e avere bisogno d'aiut…»
«Non fare la femminuccia» m'interrompe lui, la voce tagliente come uno schiaffo sulla bocca. «Alza quel culo, Thèo, e andiamo. Ci dev'essere un ombrello da qualche parte sotto il tuo sedile. Prendilo.» Non mi dà il tempo di rispondere. L'istante dopo è sceso dalla macchina, si è sistemato il colletto della giacca e ha sbattuto la portiera con forza.  
L'unica cosa che riesco a pensare è: Mon dieu.
 
***
 
 
 
Lo scheletro dell'hotel è l'unica cosa che la luce opaca dei lampioni strappa all'oscurità. Nude vestigia di ferro, travi di metallo e assi di legno inchiodate, camminamenti sospesi nel vuoto là dove un giorno ci saranno balconate in un'improbabile stile vittoriano, forse. Una facciata spettrale, finestre come orribili bocche spalancate e senza denti.
Il mondo qui fuori è un alone nella pioggia, bagliori opachi e liquidi, nient'altro che ombre e contorni tremolanti cancellati dall'acqua.
Camminiamo nel terriccio misto a fango che precede il cantiere, unico rumore la pioggia e le nostre scarpe che affondano nel suolo morbido col rumore di un risucchio. Da in basso sale l'odore di terra bagnata e di spazzatura, pestiamo cocci di vetro che nel buio scricchiolano sotto le suole, cartoni umidi, un casco giallo buttato in mezzo alla sterpaglia.
C'è un freddo fottuto, qui fuori, il respiro lascia le nostre bocche in gorghi di condensa, l'ombrello serve a poco – ma se non altro, nel reggerlo il gomito di Leroy sfiora la mia spalla, e quel contatto basta a farmi risalire dal fondo quello strano calore. È molto più alto di me, con la coda dell'occhio, in quella striscia fuori fuoco del campo visivo, lo osservo camminare con quell'andatura un po' indolente, come se stesse sfidando continuamente un pericolo.
Non perdo molto tempo a domandarmi perché si porti dietro un coltellino svizzero. Ci armeggia un po', e l'istante dopo un fascio di luce bianca m'investe.
Mi schermo gli occhi con le dita, soffocando un'imprecazione. Leroy ridacchia, un suono più simile a un ringhio. Siamo arrivati davanti a un cancello che prima non avevo notato, circonda tutto il perimetro, probabilmente delimitava un prefabbricato che è stato abbattuto per costruirci l'hotel. I rovi si arrampicano intorno alle lance di ferro, non è molto alto, ma quanto basta per instillarmi la convinzione che scavalcandolo perderò come minimo i miei attributi.  
Una mano gelida d'inquietudine mi afferra d'improvviso la nuca. L'hotel è vicinissimo, sento la sua mole nel buio, una montagna di ferro e metallo e mattoni intorno a cui cade la pioggia rumorosamente come uno stormo di uccelli morti.
Nel frattempo ho sfilato la bottiglia di scotch dal cappotto e ne ho bevuto un bel po', non so quanto, senza quasi prendere fiato. Quasi non sento più quel sapore che mi dava la nausea, so solo che basta a scaldarmi. Ho la testa che mi pesa sulle spalle, uno strano languore dentro. Gli occhi si stanno abituando al buio e per un istante sento il cuore accelerarmi nel petto in una scarica di adrenalina.
Leroy mi passa il coltellino svizzero con la torcia e l'ombrello e mi chiede d'illuminare il cancello. Si sfila il giubbotto, un affare pesante simile alle giacche degli aviatori, con il collo in pelle di pecora, lo appende a un'inferriata e scavalca. La brace della sua sigaretta lampeggia dall'altra parte.
«Allora?» dice, impaziente.
«Mi romperò il femore.»
«Ti vuoi dare una mossa, ragazzino?»
«M'infilerò una sbarra nel culo e dovrai portarmi all'ospedale.»
«Aspetta, c'è scritto da qualche parte che devo portarti all'ospedale?»
«Appunto. Non voglio morire a diciannove anni.»
«Ma io ti lascerei qui ad agonizzare in preda al dolore. Solo dopo moriresti.» La sua voce è vibrante di un insolito divertimento. «Ammettilo, a questo non ci avevi pensato.»
«Invece ti sbagli, conosco perfettamente il tuo lato perverso e sadico. Ad essere sincero, non credo che esistano, in effetti, altri tuoi lati. Dimmi qualcosa che non so, Leroy.» Credo di stare flirtando con lui e credo anche che la cosa non gli dispiaccia.
Uno sbuffo, quasi un soffio, e poi la torcia riverbera negli occhi grigi di Leroy in mezzo alle inferriate. «Finiscila e muovi quel culetto gay, dolcezza. Se cadi ci sono io dall'altra parte.»
Dalla padella alla brace, non riesco a fare a meno di pensare. Senza dire nulla ingollo un altro sorso di scotch e mi accorgo con sgomento che è quasi finito. Allungo il coltello a Leroy, appendo l'ombrello, afferro una lancia e mi isso in alto con forza.  Tutto sommato riesco a completare l'operazione con dignità, se non fosse che nel momento di atterrare dall'altra parte per poco non travolgo Leroy.
Gli finisco praticamente addosso, sento le sue mani calde sugli avambracci, una presa salda ed energica, il suo fiato che mi cade nella piega del collo. Sa di scotch anche lui, di fumo, di pioggia e di qualcosa d'indefinibile, forse pino selvatico; un odore muschiato e pungente che risale lungo le mie narici con prepotenza.
«Andiamo» mormora, la voce incredibilmente vicina e roca. Sembra esitare qualche istante prima di lasciarmi andare, ma probabilmente è solo una mia impressione.
L'hotel è sopra di noi. Ignoriamo le transenne e gli steccati, a lato la silhouette di una scavatrice è immobile nella pioggia, come un mostro di metallo assopito. Un cartello di Divieto d'accesso viene buttato a lato con un calcio da Leroy. Ci issiamo all'interno da una finestra bassa senza vetri, la porta è sbarrata da un'asse troppo pesante. Atterriamo sull'impiantito polveroso di stucco e non mi rendo conto di quanto sia grato di essere finalmente all'asciutto finché non mi riscopro a tremare violentemente.
La torcia è una lama bianca e violenta, lambisce il pavimento, le pareti spoglie di una stanza che probabilmente diventerà la hall. Raggiunge anche qualche gradino, una scala che sparisce nel buio. Leroy si china e passa un dito sul pavimento, raccogliendo un grosso strato di polvere. «Chissà da quant'è che non ci mette più piede nessuno, qui dentro.»
Forse hanno interrotto i lavori in attesa della bella stagione, forse stanno aspettando dei permessi che non arriveranno mai. La pioggia canta là fuori, un concerto di metallo che viene colpito con un suono a tratti cupo e rugginoso, come le viscere di una grossa bestia affamata.
E invece c'è qualcuno che ci mette piede, scopriamo quando saliamo al piano di sopra. Buttato nell'angolo polveroso di una stanza c'è un vecchio materasso bucherellato dai topi, disseminato di fogli di giornale e coperte macilente e rattoppate alla bell'è meglio. Fortunatamente, il proprietario del materasso non sembra essere nei paraggi.
Il vento s'insinua nei passaggi tra le travi e le pareti mandando un rumore simile al lamento di un bambino. Rabbrividisco, mentre i nostri passi rimbombano lugubri intorno a noi. 
Ci sediamo sul materasso in un gemere di molle e, per qualche strano e assurdo motivo, mi sento più in colpa per aver violato questo rifugio piuttosto che per essere entrato abusivamente in un edificio in costruzione.
«Cos'è che dicevi, a proposito di quello scotch?» Il sorriso di Leroy è un baluginare di denti nel buio.
«L'ho bevuto solo per inerzia» mi difendo.
Leroy si scrolla nelle spalle, appoggia la torcia a terra, tira fuori il suo tabacco e inizia a rollarsi una sigaretta con la meticolosità di un chirurgo. L'unica finestra che c'è nella stanza è un varco aperto nel vuoto, una fessura da cui intravedo a malapena i profili scuri dei fabbricati di Knightsbridge. La pioggia è la fuori, un tintinnare che si è fatto più mite, come un bussare timido alla porta di uno sconosciuto.
«Vuoi?» Mi sta offrendo il suo pacchetto di tabacco. Accetto di buon grado, anche se sono sempre stato una frana con i drum. Leroy se ne accorge e lo sento ridacchiare nella penombra.
«Lo so» lo precedo. «Se riesco a mettere il filtro mi scivola di lato, il tabacco è sempre troppo e quando non lo è non riesco a chiudere la cartina. È tutto uno schifo.»
«Da' qui, ragazzino. Mi piange il cuore vedere un drum trattato a questo modo.» Nelle sue mani, la sigaretta prende forma in una manciata di secondi. Vorrei poter dire di essere indifferente al modo in cui la chiude, leccando l'estremità con accuratezza, senza perdere quell'ombra sporca e maledettamente eccitante negli occhi, ma purtroppo l'alcool mi sta rendendo più spudorato del solito e quando sono più spudorato del solito tendo a notare quello che normalmente mi lascerebbe indifferente.
Il punto è che Leroy non ti lascia indifferente. Non può semplicemente passarti accanto senza notarlo, senza notare quegli occhi da lupo o quelle mani. È un cavo elettrico scoperto, energia vibrante e oscura, un brivido su per la nuca. 
«Ecco qui» dice, soddisfatto e probabilmente ignaro dei pensieri che mi stanno affollando la testa. Vorrei scappare, vorrei precipitarmi giù da quelle scale sorrette da impalcature, oltre la finestra scheggiata e la scavatrice, vorrei volare sopra il cancello e nel terrapieno e dritto in macchina, anzi, a casa, solo, nel mio letto, a osservare i sentieri della pioggia sul vetro, ma sono inchiodato qui, cercando d'ignorare l'inaspettato calore che s'irradia dal punto in cui i nostri gomiti si sfiorano, cercando di controllare il respiro, il battito accelerato del cuore. Leroy mi passa in un silenzio sempre più pesante il drum, fruga un po' in tasca, si accende la sigaretta e mi allunga l'accendino. «Quella cos'è?»
«C-cosa?» farfuglio.
«Quella sterlina.» Inspira profondamente, butta fuori il fumo allargando le spalle in un gesto sfrontato, come se dovesse scrollarsi di dosso qualcosa. Si lascia andare all'indietro, appoggiandosi al muro. «Ce l'hai sempre in mano.»
«Quel…oh.» Non mi ero accorto di averla tirata fuori ancora. Me la sto rigirando distrattamente tra pollice e indice da non so nemmeno quanto tempo. È una sorta di anti-stress. «Be', è una cazzo di sterlina» farfuglio precipitosamente. «Davvero, non c'è niente da dire.»
Il suo respiro nel buio. Un altro sbuffo di fumo che stavolta mi colpisce la nuca. «Tanto abbiamo tutta la notte.»
Se la metti in questo modo. «È la prima sterlina che ho guadagnato. Portafortuna, sai, stronzate del genere.»
«Guadagnato dove?»
«Wembury, Modbury, qualcosa del genere. Era una cittadina sulla costa meridionale, mi ricordo solo questo.» Parlare di questo, di come sono finito qui, mi fa sempre risalire addosso una certa vertigine, una precipitosa sensazione di vuoto, il tempo che ritorna alle mie ossa come dopo un lungo volo. «È stato tre anni fa» aggiungo, forse perché pronunciarlo ad alta voce lo restituisce alla realtà, lo rende più vero. «Quando mi hanno mandato via di casa, sai.»  
Tre anni fa, una vita fa, mon dieu. Non ne ho mai parlato apertamente con Leroy, perlomeno non così, non così vicini, non così soli. Non c'è nessuno probabilmente in tutto l'isolato a quest'ora, soltanto la pioggia che cade.
«Ti manca la Francia?» mi chiede inavvertitamente. Mi sarei aspettato un grugnito in risposta, non un'altra domanda. Non da lui.
Esito, trattengo il fumo in bocca, sentendolo stemperarsi nel sapore che si è lasciato dietro lo scotch. Alla fine lo butto fuori tutto con uno sbuffo, forse per riscattarmi da certi pensieri. «No, non mi manca la Francia» dico, «a volte mi chiedo se effettivamente sia mai esistito un Thèo in Francia, e se è esistito, be', non ero di certo io.»
Un fischio, Leroy mi guarda impressionato, la luce fioca di un lampione che entra dalla finestra gli taglia di netto il profilo, ombre marcate e il chiarore degli occhi, fermi in quell'oscurità. «Poi sarei io l'Hemingway, ragazzino? Questa mi è piaciuta, potrei quasi prendere in considerazione l'idea di metterla nel mio libro.»
La cosa mi fa scoppiare a ridere, perché ci ho scommesso la testa la prima volta che l'ho visto che lui è una di quelle persone a cui il cielo non basta e mai andrà bene, è uno di quelli che l'amore lo conosce solo per sentito dire però poi gli chiedi di scrivere e capisci – o intuisci, perché con Leroy non puoi essere certo di nulla –  che l'amore per lui è quello – una storia e una voce per raccontarla.
Leroy è una di quelle persone che odia tutti così, per sicurezza, perché è meglio attaccare che farsi trovare indifeso, sono sempre stato pronto a scommetterci la sterlina che ho in tasca o la mia tastiera o il gatto di Jeremy. Ma adesso, fermi su questo materasso che puzza di sudore e di troppe notti all'addiaccio, fermi nella strada di luce che la torcia e il lampione disegnano sulle piastrelle quando si incontrano, con il suo sguardo addosso, non sono più sicuro di nulla, men che meno del Thèo di adesso.
«Dico davvero» insisto, «a volte mi sforzo di ricordarmi come si dice quella cosa in francese, e sbatto contro un muro. Sto dimenticando tutto, lentamente.» Non ho idea del perché sto dicendo questo, né tantomeno perché lo sto raccontando a lui, ma forse lo scotch mi ha reso più audace, o forse sono semplicemente stanco e non m'importa più niente di quello che potrebbe pensare di me.
Silenzio accanto a me, il sibilo di un respiro leggero, furtivo, che non vuol far rumore. Non ho bisogno di girarmi per sapere che Leroy mi sta guardando, e lo sta facendo perché vuole che continui. «Sai» sussurro, e le parole lasciano le mie labbra come un pensiero, con la stessa facilità della pioggia quando scivola via «c'era un pergolato davanti a casa e una porta a doghe verniciata, l'ho verniciata io un'estate insieme a mio padre, eppure, per quanto ci provi, non ricordo di che colore sia. Ricordo l'odore di bucato pulito e di gelsomino, la gamba di papà che nemmeno a tavola stava ferma, le schiene dei miei amici nascoste dagli zaini di scuola, ma le loro facce, le loro voci… merde, Leroy, io sto dimenticando tutto.» Sono ricordi che lentamente non hanno più nemmeno il sapore del dolore o della felicità, soltanto un fondo di malinconia che galleggia in certe mattine d'inverno, quando la neve liquefa i contorni di Londra e ferma l'insensatezza della sua vita frenetica sotto uno strato di ghiaccio, quando la promessa sfavillante di una vita senza più nascondermi sembra svanire insieme ai colori, ai comignoli rossi delle case che pungono il cielo grigio, al macerare della folla di Covent Garden o alle insegne di Soho, agli strilloni e le acque infuriate del  Tamigi o a quell'artista di strada che mi aveva offerto un posto in una soffitta spiovente a qualche minuto da Times Square. 
«Lo dici come se fosse un male» mormora lui dopo un po'.
«Non so più se lo sia, è questo il problema.» Stavolta lo guardo negli occhi, lui non distoglie lo sguardo, ricambia immobile, congelato in questo momento come una scultura di ghiaccio. «Mi hanno cacciato via, Leroy. Mi hanno lasciato fuori dalla soglia perché hanno scoperto che non avrei mai portato a cena una ragazza, non mi sarei mai sposato, non avrei mai dato loro dei nipotini con cui riempire le loro esistenze vuote. È così difficile da accettare? Che tuo figlio non sia un mostro ma un ragazzo come tutti gli altri?»
Potrebbe mettersi a ridere, Leroy, darmi della femminuccia e del piagnucolone e francamente è proprio quello che mi aspetto da lui e quello che mi meriterei; potrebbe sfottermi all'infinito e farmi sentire ancora più uno schifo di quello che mi sento quando, come ora, il passato risale dal fondo con i suoi lupi.
Ma non lo fa. È un silenzio che non si prende gioco di queste confessioni, né della mia rabbia. Leroy semplicemente tira l'ultima boccata della sua sigaretta, la spegne sull'orlo della coperta già bucherellata di decine di fori identici, e dice: «Vuoi sapere una cosa? Mio padre si divertiva a bere troppo e quando tornava a casa decideva che era giusto fracassare di botte mia madre. Se poi non ne aveva abbastanza, veniva da me.» Si passa la lingua sulle labbra. «Una notte ne ho avuto abbastanza io, invece. Avevo diciassette anni, una cosa del genere. Un ragazzino che non capiva un cazzo. In seguito hanno parlato di un incidente. Sei sicuro di volerlo sapere?»
Vorrei ricordargli di non avergli mai chiesto nulla, ma annuisco perché effettivamente voglio saperlo.
«Da un po' di tempo mi piaceva passare le serate in un seminterrato del cazzo a farmi riempire di botte da altri ragazzini che non capivano un cazzo. Incontri di boxe clandestina e minchiate varie, li chiamavano, ma la verità è che non ci pagavano nulla, il vero divertimento stava nel darsele. Una sera mio padre è rientrato. Era più incazzato del solito, quella sera. Non sapeva con chi prendersela, mia madre, come al solito, non gli bastava. È venuto da me. Mi ha sbattuto contro l'armadio. L'ho guardato negli occhi, quel figlio di puttana, e gli ho chiesto perché ci stesse rovinando la vita. Poi l'ho spinto indietro per liberarmi, ho spinto più forte che potevo. La finestra era aperta. Quella è stata l'ultima volta che qualcuno mi ha sbattuto contro un cazzo di armadio e urlato che non valevo niente.»
Le sue parole si diradano nel silenzio come foglie che cadono. Mi accorgo di avere trattenuto il respiro, lo rilascio in un sibilo che risuona assordante. Quella è stata l'ultima volta che qualcuno mi ha sbattuto contro un cazzo di armadio e urlato che non valevo niente.
«Tutto questo per dirti che la gente è stupida. Fa cose stupide e ti fa credere di essere stupido, Thèo. Ma non lo sei.»
Mi sto guardando le mani, la ragnatela sottile delle vene e gli spazi tra le dita come segni tracciati da una matita per unire due punti. Le mie sono mani da pianista, invece, lunghe a affusolate, stanno tremando come un uccello caduto dal nido e non riesco a pensare a nient'altro che a un Leroy diciassettenne che butta fuori suo padre dalla finestra, il suo corpo scomposto e senza vita due o tre piani più in basso, Leroy che spalanca quegli occhi grigi come un gatto spaventato e si chiede che cazzo ho fatto, oh, dio, cosa ho fatto.
«Hai paura di me, adesso, ragazzino?» Non sembra più voler sfidar nessuno – perché è questo che pensi quando senti parlare Leroy: che stia sfidando te o se stesso –, ora la sua voce è sporca soltanto di un velo di ghiaccio sottile – il pulviscolo pallido che ricopre le macchine nelle mattine di inizio inverno.
«Dovrei?» La mia voce rotola in un sussurro in questo posto tirato fuori dal mondo apposta per noi, dove in basso, oltre la gengiva vuota della finestra, oltre il ferro gocciolante delle impalcature, un grappolo di luci umide galleggia come un pugno di monete scivolate fuori da un portafoglio sdrucito.
Dovrei avere paura, Leroy? E di cosa? Della tua voce fredda come una stanza vuota, del tuo odore di lupo, delle spine che ti hanno graffiato? Dei tuoi occhi che il dolore ha arrugginito? Del tuo involucro di carne che ti porti dietro con la tua andatura arrabbiata, delle mani che hai respinto e delle paure che ti hanno scavato nella pancia?
Io non ho paura, non di te, non di questa pioggia che ci ha lavato via noi stessi, non di questa Londra appannata dall'acqua, né di questo materasso ciancicato su cui i nostri corpi lasceranno delle impronte calde. Non ho paura di te e di questo cielo di cemento grigio, di questi fantasmi che ci scivolano alle spalle, di questo albergo che ancora non ha visto valigie sfatte e facce di turisti, di questo diluvio che i terrazzi trasformano in rivoli ghiacciati che cadono giù come equilibristi.
Siamo soli nella pioggia, Leroy, e tu più di tutti. E io non ho paura di te.
Il suo respiro taglia la penombra, preciso, sottile come un coltello. Leroy è un alone semplicemente più nero nella semioscurità di queste quattro mura, e improvvisamente vicinissimo, così vicino che il suo fiato si mescola al mio, così vicino che faccio fatica a metterlo a fuoco del tutto.
«Non serve a niente essere coraggiosi.» Con una mano gelida mi solleva il mento, il bagliore liquido fuori dalla finestra per un istante mi bagna gli occhi, violento come un pugno sulla bocca. Lo sguardo di Leroy indugia sul mio viso, fermi e spietati occhi d'acqua, e io trattengo il respiro, mentre il suo mi cade addosso – aroma di scotch e tabacco e poi qualcosa di più selvatico e impalpabile, nebbia d'inverno.
Ho chiuso gli occhi senza nemmeno accorgermene, il suo pollice scivola sulla mia mascella, brividi sulla nuca, brividi ovunque. E poi si ferma sulla curva delle labbra, esita un attimo. «Capito, ragazzino? Puoi avere paura, qualche volta. Puoi permettertelo.» Nel buio delle mie palpebre sento il suo respiro e penso che no, stavolta non mi posso permettere di avere paura, Leroy, proprio no. Mon dieu.
È un istante ed è infinito. La pioggia continua a cadere e improvvisamente è dentro di noi, tra di noi, la sento insinuarsi tra la carne calda e il giaccone, sparire lungo la nuca di Leroy, dentro questi spazi – perché gli spazi sono fatti per essere riempiti da altri, come i vuoti lo sono per combaciare con certi spigoli e le ossa per prendere la forma di altre –, sento il temporale rompere gli assi di questo silenzio, di questo equilibrio, spinge lontano i fogli di giornale, le assi abbandonate sul pavimento, i capelli sul viso di Leroy, irrompe violento e spietato, rovescia i secchi di vernice, la bottiglia di scotch, capovolge tutta la stanza. La pioggia ci inghiotte e questo è solo un istante, questa solo una notte d'inverno come tante altre, ma è una storia che continua, che si dilata all'infinito nella distanza tra di noi.
E quando la bocca di Leroy cade sulla mia il rumore della pioggia inghiotte ogni cosa, mi sale nelle orecchie e nella testa, non sento nient'altro che il picchiettare solitario dell'acqua, suoni profondi e incessanti come il fragore del mare in una conchiglia. Sto annegando, non c'è abbastanza aria – le sue labbra si muovono sulle mie con forza, quasi con rabbia, come se anche lui stesse annaspando per cercare ossigeno, come se lasciare la presa su di me significasse lasciarsi andare a fondo.
Mani che risalgono lungo la mia nuca, dita che stringono ciocche dei miei capelli ancora umidi. Sono i movimenti di un annegato, di qualcuno che ha occhi e orecchie e bocca invasi dall'acqua, un rotolare di gesti sommersi, lenti e perfetti, la naturale successione l'uno dell'altro. 
Posso davvero avere paura, Leroy? Posso almeno scegliere che cosa mi può spaventare?
E se posso scegliere, mi dico, se proprio posso, se proprio stavolta, come dice lui, posso smetterla di essere coraggioso, allora io ho paura di questo, della pioggia che ci cade dentro e che ci allaga, che ci trascina via, ho paura di questo, Leroy, del tuo respiro ruvido nella mia bocca e di questo bacio che sembra un temporale, ho paura di questo, di quello che ci resterà e quello che si porterà via.
 
 
***
 
L'alba si dilata nel cielo con la sua luce grigia, una pozzanghera di chiarore nel cielo plumbeo della notte. Dallo specchietto retrovisore della vecchia berlina riesco soltanto a scorgere la nuca di Duff stretta nella solita fascia, i suoi capelli crespi e, più in là, la curva della mascella di Sam. Crook gli dorme in grembo, il grosso muso quieto poggiato sulle ginocchia, il respiro regolare.
«Aspettiamo di arrivare a casa» sta dicendo Sam, nel tono più convincente possibile. Mi chiedo chi sta cercando di convincere, se Duff o se stesso. «Per oggi abbiamo combinato abbastanza casini.»
Duff, curvo in avanti, manda un grugnito di disapprovazione. Sta esaminando il bottino che hanno recuperato questa notte. Lancio una rapida occhiata a Leroy sul sedile del guidatore. Ha lo stesso sguardo di pietra di qualche ora fa, lo tiene puntato sul nastro della strada lucida di pioggia che si srotola davanti a noi. Guida impassibile, la mano sul cambio come un grosso ragno, l'altra che muove pigramente il volante.
I lampioni si stanno spegnendo, un giornalaio particolarmente mattiniero sta sollevando le saracinesche. Knightsbridge è ancora assopito, il rumore del motore dell'auto copre il chiasso lontano di Londra, come un ronzio di sottofondo che non se ne va mai davvero. 
«Naaaa» replica Duff dopo un po', probabilmente troppo immerso nell'ispezione della roba per seguire davvero ciò che sta dicendo Sam. «Perché aspettare quando ce la possiamo calare qui, ora?»
«Avete aspettato tutta la fottutissima notte» lo interrompe Leroy, sollevando il labbro superiore in una smorfia. I due piercing brillano e io improvvisamente sento il sangue fluire sul viso. «Che vi cambia?»
«È quello che dico anch'io.»
«Sta' zitto, Connolly, questa è roba davvero buona. Ne è valsa la pena.»
«Di farsi inseguire per mezzo miglio dagli sbirri per colpa di una soffiata, e per un altro mezzo miglio dal boxer di una polacca ultranovantenne in vestaglia? Come no.» Sam si passa una mano tra i capelli ramati, sbuffa, guarda fuori dal finestrino. Lo specchietto retrovisore cattura il suo sguardo verde, le occhiaie scure sotto gli occhi. «A proposito, voi che avete fatto?»
Scocco un'occhiata esitante a Leroy. Non mi aspetto granché, non ho più voglia di pensare. Vorrei soltanto lasciarmi andare contro il sedile e dormire per dieci anni.
«Noi?» Leroy non cerca i miei occhi, tiene i suoi puntati sulla strada. L'alba li tinge di una sfumatura di piombo, due schegge grigie e imperturbabili. «Oh, niente di che. Davvero. Girato in macchina. Fumato.»
Sam e Duff non dicono molto altro per il resto del viaggio,  a parte il breve battibecco sullo spararsi o no il quartino di roba lì o a casa, che Sam stronca sul nascere strappando l'involucro dalle mani di Duff. Si accascia al sedile, sconfitto, e poco dopo il sibilo del suo russare invade l'abitacolo.
Rimango aggrappato al mio sedile, il più possibile contro la portiera per evitare qualsiasi accidentale contatto fisico con Leroy, e incollo gli occhi a Londra che scorre come un fiume fuori dal finestrino, cercando di dare un senso a questa serata. L'alcool ha lasciato una patina sottile di foschia nella mia testa, ho i pensieri più lenti del solito, assopiti, e in bocca un sapore pungente. La pelle del viso mi brucia, come se i punti toccati da Leroy, le labbra, le mani, il collo, stessero prendendo fuoco. Fatemi scendere da questa auto, fatemi scendere da questa vita. Riavvolgere il nastro e tornare a qualche ora fa. Respingere con una forza che non mi appartiene la bocca di Leroy che scende sulla mia.
Sono un coglione, penso. Mi lacrimano gli occhi per la stanchezza. Il vetro dell'auto restituisce un mio pallido riflesso, un fantasma opaco con il volto bianco segnato dal nero degli occhiali e, più in alto, dei capelli. Che cazzo pensavi di fare, Thèo, merde, pensa se si viene a sapere, pensa soltanto se una sera Leroy è ubriaco e se lo lascia sfuggire, così, per sfotterti un pochino, pensa, pensa se Sam e Duff e Gail lo scoprono. Non mi rivolgerà più la parola, guardalo, guarda questo figlio di puttana, come se non fosse successo nulla per lui. Proprio così.  
Il grigiore di Islington si accorda bene con quello del cielo e dei miei pensieri, è un quartiere con il volto triste delle case popolari, delle pensiline dell'autobus luride di polvere e scritte oscene, di rami scheletrici abbarbicati intorno ai cancelli. L'orologio sul cruscotto segna le 7.12 quando la macchina svolta nel vialetto davanti al palazzo in uno scricchiolare di ghiaia. Sam sveglia Duff e scendono zoppicando e sbattendo le portiere, mentre  Leroy richiama con un fischio Crook che sta saltellando loro dietro.
Un brandello del montgomery di Sam è stato mangiucchiato, i jeans sono strappati in più punti e inzaccherati di fango fino alle ginocchia; anche Duff non è messo molto meglio, ma vanta segni dei denti di un cane su un braccio. Li osservo arrancare verso il palazzo con la voglia di vivere di un condannato a morte e Sam intercetta il mio sguardo.
«Non. Una. Parola» ringhia, ma non riesco a respingere l'attacco di risate che mi risale da dentro. No, Sam e Duff stamattina hanno altro a cui pensare che preoccuparsi di quello che  Leroy abbiamo effettivamente fatto. E poi, dannazione, è stato lui. Ha fatto tutto lui. Sam esibisce il dito medio con espressione a metà tra l'affranto e lo stizzito e mi dà le spalle.
«Dove credi di andare?» La voce di Leroy mi raggiunge come una stilettata tra le costole.
Mi giro. I suoi occhi sembrano bruciare lo spazio tra di noi, si allungano nella luce brumosa del mattino, una luce pigra come un gatto che si stira, come se il cielo si stesse scrollando di dosso assonnato gli ultimi residui del temporale. L'aria taglia come un coltello, le ultime frange della nebbia che sale dai marciapiedi sta fuggendo come un ladro, l'acqua scola dai terrazzi in un tamburellare ininterrotto. Il mio naso cattura tutti gli odori risvegliati dalla pioggia, quello acre della spazzatura accatastata disordinatamente accanto ai bidoni, quello dell'erba umida, quello di smog.
«In casa?» sbotto esitante, scoccando un'occhiata dubbiosa alla palazzina di Moon st.
Fa un cenno con la testa, indicando il bar in fondo alla via. «Niente colazione?»  
Per un istante sono convinto che sia una battuta, ma sul suo viso non c'è traccia d'ilarità né di sarcasmo. È sporco soltanto di un alone di stanchezza che lo fa apparire un po' più vulnerabile, come se la notte gli avesse lavato via quella corazza di gelido distacco dal resto del mondo per lasciarlo spossato e indifeso. «C'è il trabocchetto?» chiedo.
Leroy mi guarda, scopre i denti in un sorriso. «Sei così prevedibile, ragazzino, che a volte penso di averti scritto io. No, non c'è nessun trabocchetto. Allora, andiamo?»
Sono quasi le sette e mezza di un mattino di febbraio e sto attraversando la strada deserta insieme a Leroy e al suo cane. Non parliamo, lasciamo che i nostri respiri si mescolino nella condensa sopra le nostre teste. C'è una strana resa nei movimenti di Leroy, nelle mani affondate nelle tasche di quel giaccone, nelle sue lunghe gambe che mangiano l'asfalto. Fuori dal bar all'angolo una donna con il trucco colato sulle guance e dei capelli di paglia fuma in piedi, arrampicata su dei tacchi troppo alti.
«Nottataccia?» le chiede Leroy, prima di spingere la porta a vetri.
«E voi?» fa lei.
Leroy mi scocca uno sguardo, solleva un sopracciglio con un'aria maliziosa e maledettamente sexy che mi fa avvampare. «Noi? Abbiamo preso solo un sacco di pioggia.»

 
 
 
 
  
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