Disclaimer: i personaggi sono proprietà di Furudate Haruichi
Prompt: “I vestiti di Lev sono un po'
troppo grandi per Yaku.” richiesto da un anonimo che in realtà non è poi così
anonimo (<3) @ summertimrec
Note: credo dovesse venire una cosa
molto più fluff di così, ma tant’è, sono andata di getto e così ho deciso di
lasciarla ùù” Per la situazione famigliare di Lev
giuro di aver letto in proposito sulla wikia anche se
ora non ritrovo la nota *piange*
Fino al secondo anno, Yaku
aveva le idee piuttosto chiare su come sarebbe stata la sua vita da liceale e
in merito al fatto che non avrebbe permesso a niente e nessuno di ostacolare
quella che sarebbe stata una tranquilla vita scolastica all’insegna di
risultati di tutto rispetto e dello sport. Poi al terzo anno quel cataclisma
umano di Haiba Lev ha incrociato la sua strada e, con
una sottile irritazione – sottile in maniera del tutto diversa dal primo calcio
che gli ha dato, sì – ha dovuto rivedere i suoi piani.
Naturalmente lo sport c’è ancora (peccato che Lev lo condivida rendendo a dir
poco chiassosa ogni seduta in palestra), i risultati scolastici non sono stati
minimamente intaccati da quella bestia di kohai che si ritrova (ci mancherebbe
altro); non può dire lo stesso della tranquillità della propria esistenza, che
inizia al suo rientro a casa da scuola e finisce quanto incontra Lev
all’entrata, o in un corridoio, o in palestra – un qualsiasi spazio in cui,
inspiegabilmente, anche se l’acustica fa schifo la voce del più giovane lo
raggiunge sempre come se gli avesse urlato nelle orecchie.
Non è una cosa che si vuole provare, soprattutto la mattina.
Nonostante questo, molti dei punti fermi di Yaku sono rimasti; alla fine Lev si
è dimostrato anche meno peggio di quanto sembrasse all’inizio, benché si
impegni sempre socialmente per far pensare il contrario – non lo ammetterebbe
mai di fronte al diretto interessato, ma ne riconosce di certo l’impegno nello
sport e ha capito con il tempo che non può pretendere molto, Lev è come un
bambino di cinque anni nel bene e nel male.
Un suo punto fermo, però, si sta infrangendo esattamente in questo momento: sta
entrando in casa Haiba. Lui non ha mai chiesto molto
a Lev sulla sua famiglia, sa solo che non parla il russo benché le sue origini
lo siano per metà; sa che è nato e cresciuto in Giappone e ha dedotto che sia figlio unico.
Oltre la soglia che Lev sta oltrepassando potrebbe esserci un’orda di piccoli Haiba casinisti quanto il suo kohai e lui non vuole nemmeno
pensare a come possa essere un bambino legittimato dalla propria età anagrafica
a fare il marmocchio fastidioso. Loro non potrebbe picchiarli come fa con Lev,
per esempio.
Mentre il più giovane si gira verso di lui, lasciandogli lo spazio necessario a
entrare, pronuncia un: «Entra, entra Yaku-san!»
contento come se portasse in casa un amichetto per il pigiama party e Yaku per
un attimo vuole solo svenire lì dov’è, così non dovrà entrare e magari trovarsi
di fronte a piccoli Haiba delle elementari più alti di lui.
Il problema è solo uno, e per una volta la cosa che lo preoccupa di più non è a
quanti decibel arriverebbero le lagne di Lev se lui ora facesse dietro-front.
No, lo preoccupa aver preso un acquazzone quando era esattamente a metà strada
tra la scuola e la stazione, cosa che avrebbe comportato prendere acqua a
prescindere dalla sua scelta, facendo sì che ora si ritrovi completamente
zuppo. Cosa affatto salutare, e Yaku non può permettersi di – né è così
masochista da – ammalarsi e far ricadere la cosa su tutta la squadra, quando
entro una settimana avranno da giocare.
Solo ed esclusivamente per questo motivo sta entrando in casa Haiba, solo per questo ha accettato l’invito di Lev perché
casa sua è più vicina della stazione e da un qualsiasi treno sul quale i
vestiti zuppi gli si sarebbero asciugati addosso causando il peggio.
Lo accoglie il silenzio totale e questo lo lascia perplesso, gli fa inarcare un
sopracciglio e in una certa misura lo inquieta.
Si aspettava tante cose dalla casa di Lev e della sua famiglia – chiasso,
persone anche troppo amichevoli, giganti – ma non il silenzio rotto solo da un
allegro: «Sono a casa!» che però non riceve risposta.
Yaku voleva aspettare
all’ingresso, per non gocciolare in giro in casa d’altri; Lev ovviamente ha
insistito per fargli percorrere il corridoio fino all’antibagno, assicurandogli
che “sono solo due gocce Yaku-san, le asciugo in un attimo!”. Lo ha lasciato lì,
dicendogli di usare il bagno come preferisce e che gli avrebbe portato subito
dei vestiti puliti da indossare in attesa che l’asciugatrice di casa Haiba gli restituisca i suoi, e che fuori smetta di
diluviare come se dovesse placare la siccità di dieci Paesi in cui non piove da
almeno due anni. Nonostante un certo disagio iniziale non ha potuto fare a meno
di eseguire e, deve ammetterlo, l’assenza della divisa bagnata che gli si
appiccica addosso è un sollievo.
Gli abiti che Lev intende prestargli, e che ha lasciato nel cesto
dell’antibagno, non sono che una semplice tuta dall’aria morbida e che odora di
pulito e ammorbidente. Fa molto casa, e Yaku apprezza davvero una tale
ospitalità, non fosse per il fatto che si ritrova con una maglietta a maniche
corte che gli fa da vestito, a dover tirar su le maniche della felpa con la zip
perché altrimenti finiscono ben oltre le sue mani – e, in ogni caso, continuano
a scivolare giù.
Per non parlare del fatto che rischia di inciampare nelle gambe dei pantaloni,
troppo lunghe per le sue.
Sente di odiare Lev con tutto se stesso mentre, con un sospiro tra il seccato e
il rassegnato, si ritrova per forza di cose ad abbandonare il bagno e
percorrere il corridoio.
Arrivare quasi all’ingresso, dove l’una di fronte all’altra si trovano le porte
della cucina e del salotto (entrambe aperte), senza incrociare nessuno è un
sollievo non indifferente; e quando trova Lev in cucina e nota che il silenzio
è sempre lo stesso di quando sono entrati, la cosa fa scivolare via un po’ del
disagio e dell’imbarazzo che gli hanno irrigidito le spalle finora.
Lev è girato, di fronte al microonde che è la causa dell’unico rumore nella
stanza. Yaku non fa in tempo a parlare che il padrone di casa si dimostra
attento solo nei momenti meno opportuni o non richiesti, voltandosi nella sua
direzione come se lui lo avesse chiamato di proposito.
C’è un momento di stallo in cui si guardano e Yaku sa, lo legge nell’espressione ebete che si fa strada sul viso di
Lev, che il kohai sta per dire qualcosa di troppo stupido persino per i suoi
standard; non si stupisce minimamente, quindi, nel sentirlo ridacchiare e
pigolare un «Awww, Yaku-san…!»
che si potrebbe concludere con un terrificante “che carino”, se solo Morisuke non gli
pestasse un piede per bloccarlo sul nascere.
E se non era ciò che Lev voleva dire pazienza, si sarà comunque portato avanti
per qualcosa di stupido che l’altro presto o tardi dirà comunque.
Ma il kohai ride. Ridacchia, per meglio dire, e nonostante lamenti qualcosa
come “sei cattivo, Yaku-san” gli si avvicina
ulteriormente e si piega in avanti. C’è un secondo momento, più di terrore che
di stallo, perché da Haiba si aspetta di tutto e vedere un gigante di quasi
due metri chinarsi su di te stimola la fantasia verso cose grottesche e
inquietanti in molti sensi. Invece Lev si limita ad allungare una mano fino a
prendere il polso del libero, guidandolo in modo che tiri su il braccio e
mantenga la posizione.
Yaku si aspetta di tutto, ma non Lev
che gli rimbocca una manica. La cosa lo destabilizza e sorprende a tal punto
che non gli sbraita nemmeno contro, non interpreta la cosa come una presa in
giro in merito a vestiti troppo larghi che lo fanno sembrare un bambino delle
elementari.
Il ding del
microonde avvisa che qualsiasi cosa fosse all’interno è pronta, ma Haiba non abbandona la sua postazione: continua a rigirare
la manica con calma e, quando arriva più o meno all’altezza del gomito, la
rigira un’ultima volta solo da un lato; miracolosamente, quando allontana le
mani per controllare il proprio operato, quella non scivola per l’ennesima
volta.
A Yaku si deve leggere in viso la perplessità per qualcosa che ha tentato fino
a due secondi prima di entrare in cucina – con scarso successo –, perché Lev ridacchia
di nuovo: «Me lo ha insegnato mia madre.» spiega anche se non richiesto «Come
lunghezza mi sta bene, ma è larga anche per me.» afferma.
L’altro lo guarda, e ammette di non avere idea di come sia più o meno larga per
Lev quella giacca; si fida sulla parola, comunque: «Solo tu potevi sbagliare a
prendere una taglia, Haiba.» fa notare, mentre lascia
che il kohai gli sistemi l’altra manica.
Non c’è un ridacchiare in risposta, ma l’espressione di Lev è ancora ferma al
sorriso ebete – anche se sembra in un certo senso più affettuoso e Yaku non capisce né vuole davvero sapere (crede) a
cosa sia dovuto.
«Non ho sbagliato a comprarla, per chi mi hai preso, Yaku-san?»
domanda, esibendosi in un broncio infantile, e Yaku sta per dirgli esattamente
per chi lo ha preso ma Lev e la sua parlantina non gli danno modo di farlo: «Era
di mio padre, per questo sarà sempre troppo grande. Oh, forse se crescessi
ancora un po’…!»
E nonostante Yaku gli tiri uno scappellotto ribattendo con un: «Quanto ancora
vuoi crescere?!» non gli è sfuggito quel tempo passato che non sa assolutamente
come gestire – non sa davvero niente di Lev fuori da quello che vede in
palestra e a scuola, e non crede di avere la sensibilità necessaria (né il
diritto) di fare una qualsiasi domanda sull’argomento. Preferisce picchiarlo
come fa sempre, sbraitargli contro perché è la loro norma, e vederlo
piagnucolare allontanandosi una volta sistemata anche l’altra manica.
Risulta molto più facile avere quella loro normalità, fatta di battibecchi
quasi sempre senza importanza; una normalità che Yaku rompe senza nemmeno
accorgersene quando si dimostra indulgente con Lev, mosso forse a pietà o
dall’istinto un po’ da mamma che ha sempre avuto nei confronti della Nekoma, con gesti che spiazzano entrambi dopo.
Quando Lev è ormai troppo su di giri e rischia di rovesciare la cioccolata
calda lasciata scaldare nel microonde, e per Yaku è troppo tardi per rimediare
a quella carezza leggera lasciata fra i capelli di un kohai troppo idiota, a
cui per esaltarsi basta un: «Almeno sai rimboccare le maniche come si deve,
idiota.»