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Autore: ___Lilith    07/11/2014    6 recensioni
Marco è un ragazzo solo, emarginato dalla società a causa della sua sessualità.
È il giorno del suo diciottesimo compleanno, a Natale, quando incontra Michael. Il mondo gli sembra diventare improvvisamente un posto migliore.
Qualcosa di quel ricciolino lo colpisce subito. Sembra triste e solo, proprio come lui...
Dal Prologo:
Ed ora si ritrovava da solo. L'unica compagnia che aveva era quella sigaretta, ormai quasi mezza bruciata, che possedeva il magico potere di alleviare un po' il suo dolore.
Fece un respiro profondo, inalando tutto quel fumo tossico che creava una bolla irrespirabile intorno a lui. Solo così riusciva a sentirsi meglio.
Un fruscio, un lieve spostamento d'aria intorno a lui, attirò la sua attenzione. Voltò lievemente la testa di lato e quasi sobbalzò quando notò che una figura snella e riccioluta si era seduta accanto a lui.
Se ne stava immobile, con una bottiglietta di birra nella mano destra e il resto della confezione nella sinistra. Nella penobra riuscì a intercettare lo sguardo del ragazzo. Era puntato verso il nulla, su un punto imprecisato davanti a loro.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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18. Bip. Bip. Bip.





Il rumore ripetitivo e assordante di un'ambulanza si faceva man mano più chiaro. Gli occhi di Michael erano lucidi e le mani macchiate del rossastro sangue. Il cuore si era ripiegato più volte su se stesso a causa della troppa enfasi del dolore che provava.
Riuscì a scorgere, nonostante l'alone delle lacrime gli offuscasse la vista, avvicinarsi a gran velocità il veicolo, per poi parcheggiarsi proprio di fronte a lui. Scesero due infermieri, esaminarono prima con la sguardo la gravità della situazione, poi armeggiarono col corpo di Marco e lo adagiarono su una barella, trascinandolo all'interno dell'ambulanza.
Michael lo seguì, non staccandosi per nulla al mondo da lui. Finì col litigare persino con uno degli infermieri - poiché si ostinava a sostenere che non potesse andare in ambulanza con loro - ma alla fine i suoi occhi, tramutatisi in due pozzi che riflettevano pienamente la situazione del suo cuore, parlarono per lui. Nessuno avrebbe mai potuto resistere alla tristezza che persino solamente incrociando il suo sguardo poteva essere letta. E, quando l'infermiere ci entrò in contatto, non poté fare a meno di cedere.
Strinse forte una mano su quella fredda e immobile di Marco. Osservava le flebo che gli erano state infilate nei bracci, il bendaggio provvisorio intorno alla ferita sul capo intingersi sempre più di sangue. Il bianco si riduceva poco a poco, facendo spazio all'accesso e fluente rosso.
Michael era fisicamente lì, ma in realtà era completamente assente. Perso in chissà quale universo parallelo, non riusciva a capacitorsi di ciò che stava accadendo. È un brutto sogno, un incubo si ripeteva mentalmente. Non poteva essere vero, il suo Marco non poteva essere in uno stato transitorio tra la vita e la morte. No, non lo era.
Il viaggio fino all'ospedale fu una lenta e logorante tortura. Più passava il tempo, più le speranze di salvare Marco si affievolivano e più Michael si sentiva pian piano morire dentro. Gli stette vicino finché, arrivati al reparto del pronto soccorso, la barella non fu condotta all'interno di una di quelle sale riservate ai casi più urgenti. Il riccio tentò di seguirlo anche lì, ma un uomo in camice bianco chiuse la porta prima che riuscisse ad entrare.
L'attesa fu lunga e incredibilmente straziante. Trascorse le ore camminando avanti e indietro nel corridoio, senza fermarsi nemmeno per un attimo, tanto che il pavimento sembrò quasi consumarsi sotto i suoi piedi.
Di tanto in tanto lacrime nuove straboccavano dalle orbite oculari. Le dita si torturavano a vicenda. Nessuno usciva da quella sala, la porta era ancora fermamente chiusa. E se fosse un bene o meno a Michael non era dato saperlo.
L'ansia gli stava sfracellando lo stomaco. Non riusciva più ad aspettare, aveva bisogno di sapere se il suo Marco fosse ancora a questo mondo o stesse per lasciarlo per sempre. Se qualcuno non avesse aperto immediatamente quella maledetta porta, l'avrebbe sfondata.
Ma, finalmente, proprio in quel momento, qualcuno uscì. Michael lo riconobbe. Era lo stesso dottore in camice bianco che lo aveva chiuso fuori. Il suo viso era imperturbabile, non lasciava trasparire nulla, fermo come una statua di marmo.
«Come sta Marco?» chiese d'impeto Michael. Le mani gli tremavano, tutto il corpo era scosso da spasmi.
«È sopravvissuto...» a quella piccola rivelazione tirò un sospiro di sollievo, «ma...» il medico calò la testa. L'espressione che aveva dipinta in viso sembrava più che affranta.
«Ma?!» fremette, incapace di attendere ancora per capire come diavolo stesse il suo ragazzo.
«Ma... Ha riportato un forte trauma alla testa... Ha perso i sensi e beh... Potrebbe risvegliarsi a breve, oppure potrebbe volerci un po' di tempo... O, peggio ancora, mai più» il cuore di Michael a quelle parole si rifiutò per qualche istante di svolgere la sua vitale funzione. «È in coma e non si sa per quanto tempo potrebbe rimanerci.»
«C-Coma?!» balbettò. Era una delle poche parole italiane che non conosceva ancora, ma aveva capito perfettamente a cosa quell'uomo si riferisse.
«Sì.» Risposta secca, che non lasciava nulla nel vago.
Le parole "Marco - coma" non gli sembravano poter stare insieme in una sola frase.
Ma, quando la consapevolezza di quella notizia fu metabolizzata dal suo cervello, Michael sentì le gambe perdere la loro capacità di sorreggere il peso del corpo.
Allungò una mano verso la sinistra e cercò a tentoni un appiglio. Quando toccò il gelido e ruvido muro, ci si appoggiò contro. Si lasciò scivolare lungo la parete, fino a finire con il sedere per terra.
«Si sente bene?» chiese il dottore. Ma Michael lo ignorò. Non percepiva più il mondo intorno a lui, non sentiva nulla. Nella sua mente le parole pronunciate dal dottore sembravano ripetersi come un disco inceppato.
Le sue orecchie non percepiamo più alcun suono. Né il medico che continuava a chiedergli come stesse, né il rumore delle barelle che correvano avanti e indietro dalle stanze intorno, né le urla delle persone disperate, né il suono che penetrava ovattata dalle pareti dell'ambulanza che stava nuovamente partendo...
Nessun rumore arrivava più ai suoi padiglioni auricolari. E stessa cosa poteva dirsi per il resto dei suoi sensi. Non percepiva neanche l'odore nauseante dei medicinali, dei disinfettanti, delle bende, misto a quello acre del sangue. Nulla. Assolutamente nulla.
«Si sente bene?» era l'ennesima volta che quell'uomo gli faceva la stessa domanda. E, data la situazione di instabilità mentale nella quale si trovava, Michael non riuscì a non perdere la pazienza.
Si rialzò con fatica dal pavimento. Le gambe continuavano a tremare e fu costretto ad appoggiarsi alla parete. «COME DOVREBBE SENTIRSE SECONDO LEI UNA PERSONA CHE HA APPENA SCOPERTO CHE L'UNICA RAGIONE DELLA SUA ESISTENZA È IN UNO STATO DAL QUALE PUÒ NON RISVEGLIARSE MAI PIÙ?! COME?!» urlò con tutto il fiato che aveva in gola, afferrando il dottore per il bavero del suo camice. Gli occhi di tutti si posarono su di lui.
Le lacrime ormai si erano scavate un letto sulle sue guance nel quale far scorrere il loro copioso fiume.
Rabbia, dolore, incredulità... Si accavallarono tutte nel suo petto, tutte insieme, l'una sull'altra, tutte in una volta, sfociando in un tornado di inaudita potenza che si abbatté contro egli stesso.
«Distrutto» rispose il dottore. E vocabolo migliore non avrebbe potuto sceglierlo. Aveva ragione, era completamente, totalmente distrutto.
Michael allentò piano a piano la presa, fino a lasciarlo del tutto. Ispirò a fondo, tentò di darsi una calmata, poi si precipitò immediatamente dal suo Marco. Appena lo videro, gli infermieri si apprestarono a concludere ciò che stavano facendo ed uscire. Uno di loro, gli lasciò una pacca calorosa sulla spalla, rivolgendogli un amaro sorriso.
Solo quando la stanza si fu svuotata e lì non rimase altri che lui, riluttante per la situazione, ebbe il coraggio di guardare il ragazzo adagiato sul letto. Il fiume sulle sue guance si trasformò in un oceano.
Gli scostò la coperta che gli arrivava fino a metà busto. Fasciature intrise di rosso ricorprivano il braccio e la gamba sinistra, che Michael ipotizzò essersi rotti per l'impatto. Altre medicazioni più piccole erano sparse un po' ovunque, su ferite probabilmente superficiali. E, infine, una benda, non meno sporca delle altre, gli avvolgeva la fronte.
Gli occhi erano serrati, così come la bocca. Il suo normale colorito roseo aveva ora una sfumatura quasi bianca. Poteva addirittura sembrare fatto di ceramica per il pallore che aveva assunto la sua pelle.
«Marco...» voce bassa come un soffio di vento, «Torna. Please.»
Cercò un contatto con lui e decise di riprendere a stringere le dita intorno alla sua mano sinistra, facendo attenzione a non muovere la flebo che era incastrata nel polso. «Please» lo supplicò ancora.
Bip. Bip. Bip. Era il rumore snervante riprodotto ad intervalli regolari dalla macchinetta che monitorava il battito del suo cuore.
Bip. Bip. Bip. Sempre lo stesso, sembrava non variare di un millimetro.
Bip. Bip. Bip. Almeno sapeva che fino a quando la macchina avesse prodotto questo suono il suo Marco era ancora vivo.
Bip. Bip. Bip. Prima o poi sarebbe impazzito.
Bip. Bip. Bip. Ma ancora non sapeva che sarebbe diventato la colonna sonora della sua vita per giorni, settimane, mesi...
Così come Marco era entrato in coma quella sera, anche l'anima di Michael sembrava essersi bloccata in uno stato quasi vegetativo, mentre la vita gli veniva risucchiata via attimo dopo attimo.

Il tempo passava, portandosi con sé giorni interi. E Marco non sembrava avere miglioramenti.
Michael era ormai ridotto ad uno straccio. Passava tutto il giorno lì in ospedale a prendersi cura del suo Marco. Quella era ormai diventata la sua nuova casa.
Nella vecchia ci tornava di tanto in tento, quando aveva bisogno di cambiarsi o quando il suo stomaco reclamava qualcosa di più sostanzioso del caffè poco digeribile delle macchinette automatiche dell'ospedale.
Le occhiaie ormai avevano preso residenza fissa sul volto, il suo fisico appariva visibilmente deperito. Già prima aveva una costituzione fin troppo esile, ma ora di lui non rimaneva altro che qualche ossuccia che a stento riusciva a tenersi in piedi.
Aveva conosciuto molte persone in quel periodo, persone che prima avevano abbandonato Marco al suo triste destino e ora sbucavano dal nulla, fingendosi dispiaciuti per il ragazzo.
I suoi genitori, appena venuti a sapere dell'accaduto, si erano precipitati lì. La madre, che anche se Michael ormai vedeva ogni giorno non sarebbe riuscito a riconoscerla se l'avesse incontrata per strada, mostrò da subito compassione per il ricciolino. In fondo, il dolore che provavano era molto simile.
Il padre, però, si era rivelato scontroso e diffidente verso di lui. Gli lanciava occhiatacce e ripeteva che quella era la giusta punizione al loro essere diversi.
Veniva a trovarlo di tanto in tanto, ma non aveva versato una sola lacrima per il figlio.
L'unica cosa che colpì Michael di quell'uomo apparentemente senza cuore, fu l'enorme somiglianza fisica che aveva con Marco: era semplicemente la versione invecchiata del ragazzo. Stessi occhi, stessi tratti del viso, stessa corporatura, solo qualche ruga in più sul viso. Ma completamente diverso era il carattere. Non c'era in lui neanche un barlume della dolcezza, della sensibilità appartenenti al figlio.
Ogni settimana esatta, di che giorno Michael non avrebbe saputo dirlo perché ormai gli era nulla la cognizione del tempo, veniva a trovarlo anche quella che si era definita la sua 'ex migliore amica'. Neanche quella ragazza Michael sarebbe riuscita a distinguerla al di fuori di lì. Ormai non vedeva più nulla.
Si alternavano amici, familiari, parenti lontani che Michael si chiese da dove sbucassero dato che Marco aveva da sempre lamentato la sua condizione di totale solitudine.
Spesso si fermavano a parlare con lui, soprattutto la madre. Ma Michael si limitava ad annuire, senza proferir parola. L'unico con cui parlava era Marco, quando ormai era talmente tardi che in ospedale rimanevano solamente gli infermieri e i medici dal turno di notte e quando i poveri ricoverati stipati nella stessa stanza di Marco erano immersi nel loro profondo sonno.
I dottori dicevano che sentire la voce di una persona cara gli faceva bene.
E, siccome quella era l'unica cosa che potesse fare per il suo Marco, gli parlava per tutta la notte, finché le prime luci dell'alba non si innalzavano in cielo.
Per il resto era muto, eccetto quel "Ci sono miglioramenti?" ogni qualvolta i medici facevano gli ormai quotidiani controlli.
Ma la risposta era sempre negativa. La situazione sembrava non volersi sbloccare: non migliorava, non peggiorava. Stabile, bloccata, congelata.
Erano ormai già passate tre settimane, quando, un giorno, si era presentato persino Luca. Appena lo aveva visto, Michael si sforzò di rivolgergli il più sdegnato dei saluti. In realtà avrebbe voluto cacciarlo a calci fuori da lì, ma alla fine decise di lasciare che facesse vista a Marco. Non c'era più spazio nel suo cuore per il rancore.
Il biondo ci era rimasto un bel po' lì dentro con il ragazzo e, quando era uscito, Michael avrebbe giurato di avergli visto gli occhi leggermente lucidi. Occhi di ghiaccio sciolti dal dolore.
«Mi dispiace. Meritava davvero di rifarsi una vita insieme a te» gli aveva detto, «peccato probabilmente gli sarà sottratta anche quella che aveva prima.»
Freddo, insensibile, ma vero. Era l'unico che era stato capace di sputare fuori la verità nuda e cruda: aveva ragione, ormai era passato molto tempo e le possibilità di salvezza di Marco si facevano sempre più lontane.
Sputate fuori quelle crude frecce, era andato via. Quella fu l'ultima volta che Michael vide la sua sfacciata e arrogante faccia.
Scivolavano via sempre più velocemente i giorni. Eppure ogni ora sembrava una dolorosa tortura da dover scontare. Mattina e sera, giorno e notte, ormai si erano fusi insieme. Michael non riusciva più a distinguerli.
Rimaneva per quasi tutto il tempo nella stanza vuota e senza finestre di Marco e lo guardava. Osservava il suo viso immobile, che non mutava di un solo millimetro, disteso su quel lettino così scomodo sul quale addormentarsi sarebbe stato impossibile. Eppure lui stava dormendo, e da molto ormai.
Ma la parte peggiore della giornata era quando il buio scendeva e, come ogni notte, prendeva la sedia, la avvicinava al letto di Marco, perdendosi ad osservare il suo corpo accarezzato dalla luce artificiale delle lampadine al neon. Così, dopo aver versato qualche lacrima iniziava il suo quotidiano monologo notturno.
Cominciava a parlargli di tutto ciò che era avvenuto quel giorno. E, anche se non c'era molto da dire, lui continuava a parlare.
Ogni tanto incespicava in qualche accento sbagliato o qualche verbo coniugato male. «Ora non c'è più tu che me correge e mio italiano sta peggiorando. Deve tornare, amore mio. Io ha bisogno di risentire tuo meraviglioso suono di risate quando io sbaglia. Vuole che tu me sfotte all'infinito, che te prende gioco di me. Vuole che tu smette di dormire. Risvegliate Marco, please.»
Ma il ragazzino rimaneva fermo, immobile, e la macchinetta che monitorava l'andamento del suo cuore produceva sempre il solito ripetitivo suono.
Tirò un sospiro afflitto e riprese a lasciar venir fiori tutto ciò di cui poteva parlargli. Quando esauriva le notizie giornaliere, iniziava a immergersi del passato.
Vagava nei ricordi, ripescando piccoli aneddoti della sua vita che non aveva mai avuto l'opportunità di raccontargli. Faceva tuffi nell'infanzia, non molto felice, poi sboccava nell'adolescenza, anch'essa tormentata, fino ad arrivare all'origine del suo star finalmente bene: Marco.
«E poi io ha incontrato te. Era Natale, do you remember?» fece una breve pausa, come se si aspettasse che lui rispondesse, poi continuò, «Faceva freddo, molto freddo e tu era avvolto nella pesante sciarpetta che portava al collo. E io mi è sentito attratto da te, come una calamita, come due poli opposti, sin dal primo istante.»
Dall'altro lato in risposta arrivava solo silenzio, come al solito. Però Michael non si rassegnava e la speranza che prima o poi le sue labbra si sarebbero mosse e avrebbero prodotto qualche suono non lo abbandonava mai.
Si avvicinò alla sua fronte e ci poggiò delicatamente la bocca sopra. Gli lasciò un piccolo e dolce bacio.
Sfiorò la sua guancia con un dito e poté giurare di sentire il suo viso muoversi leggermente sotto il suo tocco. Ritrasse la mano, fissando la figura del ragazzo con attenzione. Le palpebre stavano tremolando, un dito della sua mano destra si era leggermente mosso.





#MySpace
Ciao carissimi lettori,
Ovviamente, mi scuso ancora per i miei imperdonabili ritardi. Non riesco mai a essere puntuale. La puntualità non è decisamente uno dei miei pregi.
E beh, che dirvi?! Siamo arrivati alla fine. Il prossimo sarà l'ultimo capitolo, poi finalmente non avrete più questa rompiscatole tra i piedi.
Nel frattempo, vi lascio questo capitolo che fa seriamente schifo.
A presto :*
Un bacio, _Lollipop_96 ❤
  
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