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Autore: Maiwe    08/11/2014    2 recensioni
[La ragazza del Dipinto (Belle) ]
Racconto liberamente ispirato al film - e alla figura storica realmente esistita - de 'La ragazza del dipinto'. Liberamente ispirato perché il background dei campi di cotone è di mia invenzione.
Storia scritta per il Muse Contest 2.0 cui partecipa.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nastri di cotone fra i capelli


  Sono nata vicino a un campo di cotone. Non so neanche dove, esattamente; in effetti, non ho molti ricordi di quel periodo. Ero molto piccola. Ricordo fiocchi bianchi di luce del sole, quello sì. E mani scure che li strappavano, tagliando gli arbusti e afferrandone le bacche aperte.
  Il cotone.
  Mia madre, alta che quasi non riuscivo a vederle la faccia quando stavo per terra e la fissavo, aveva capelli neri e mani bianche, bianche come i fiocchi di cotone che tagliava dalla terra e metteva nei sacchi - ma solo sotto, sui palmi. Quando li afferravo, per addormentarmi, nel buio della nostra stanza le portavo la mano sotto la luce della luna che trapelava dalle assi di legno, e le giravo e rigiravo la mano finché entrambe non ci addormentavamo. Aveva i palmi bianchi e la pelle nera. La sua pelle sembrava anche più scura quando afferrava i fiocchi di cotone e li metteva nelle gerle.
  Io avevo i capelli come lei, scuri, ricci, gli occhi neri e la pelle più chiara.
  Una mattina non si svegliò. Le presi la mano e giocai al bianco, nero, bianco, nero!, ma lei non aprì più gli occhi. Aveva tossito tutta la notte, come la nonna e quell'amico gentile che mi regalava sempre qualche fiore dei campi. Avevano tossito e non si erano svegliati più.
  Fu forse per questo motivo che mi portarono via da lì.
  Non cambiò molto: la mia casa era fatta di assi di legno, umide e piene di chiodi, e d'estate si respirava un'aria densa di odori; la nave sulla quale mi ritrovai per la mano con quell'uomo alto dalla pelle chiarissima come i padroni, anche. Anche la nave era di legno. Non tornai a terra per molto, molto tempo.
  Ricordo che il viaggio fu lungo, stancante, e che il mare mi faceva venir voglia di vomitare. Ricordo le facce dei marinai quando videro che vomitavo e si lamentarono che ero femmina e che ero nera. Il mare muoveva la nave a destra e a sinistra, le vele dondolavano a ritmo e tutto pareva così grande che mi domandavo se sarei mai arrivata a terra di nuovo, o se quel viaggio fosse stato semplicemente infinito.
  Era stato mio padre a portarmi via. Era bianco. Diceva di essere mio padre, ma l'avevo visto poche volte. Quando arrivò e mi portò via, prendendomi per mano, non piansi. La mamma era stata messa nella terra, avvolta in un bianco lenzuolo di cotone, e cotone sarebbe tornata. Il cotone era la nostra vita. Il fiore è di un bianco abbagliante, poi secca e muore. Arrivano le bacche, dal fiore morto. Dalle bacche, il cotone. Passa del tempo, prima che succeda; prima del fiore, la pianta sta ferma per dei mesi, come morta. È simbolo di rinascita, mi diceva la mamma: un arbusto secco che fa un fore bianchissimo.
  Tutto torna al cotone.
  La vita di mio padre invece era il mare. Lui non sapeva che rumore facessero le radici quando crescevano e puntavi l'orecchio per terra. Io ero nata accanto a un campo, lui non stava mai a terra, viaggiava sempre.
  Non so se gli somigliassi. Mi chiamò “Bambina” quando mi vide e mi prese per mano. Gli dissi che mi chiamavo con un altro nome, ma lui parlava poco la mia lingua. Lui parlava quella dei padroni, fluente e arrotolata. Io parlavo quella di mia mamma, la lingua dei campi, musicale e veloce, affannata, come se invece di parlare corressimo sempre.
  Il ricordo del viaggio prese presto tanto spazio nella mia testa, che a malapena ricordai da dove venissi.
  Avevo bisogno della terra.
  Un giorno, dopo mesi, arrivammo a un porto. Non sapevo cosa aspettarmi, era diverso da quello della città da cui eravamo partiti. Il cielo era grigio e la città emanava fumo, come se stesse bruciando. Un fumo grigio che mi mise tristezza. Il pavimento della strada era fatto di pietra, non c'erano alberi, solo quelli delle navi.
  Salimmo su una carrozza e mio padre mi rassicurò.
- Sei al sicuro, ormai.
  Non seppi dire da cosa.
- Dove stiamo andando? - Tentai di dire.
- Andiamo da uno zio. È ricco e potente, bambina, vedrai.
  Io non sapevo ancora lavorare nei campi, però. Senza la mamma non avrei saputo farlo.
  La casa dello zio ricco e potente era di pietra ed era un castello, non una casa. Mi fece entrare una figura vestita di nero e mio padre mi fece sedere in una sala piena di disegni sulle pareti, i soffitti alti e grandi specchi che riflettevano la luce delle candele.
  Avevo freddo e avevo il naso chiuso.
  Lo zio ricco e potente apparve sulla soglia, era vestito come un re e mi guardò dal basso verso l'alto.
- È nera.
- Lo so, ma è mia figlia. Vi scongiuro.
- Non possiamo tenerla. Abbiamo un nome, figliolo.
- Non posso portarla con me in India, non reggerebbe il viaggio.
- Che si arrangi, allora, dovevi pensarci prima.
  Alla moglie dello zio piacqui ancora meno. Ma non andai via. Prima di poter dire qualcosa, mi ritrovai in una camera enorme, su un letto grande con le tende ai lati. Mi fu data una casa e un letto prima che gli zii si potessero dare il tempo di pensarci bene. Dalla finestra della mia stanza si vedeva il giardino, immenso, e ci giocava una bambina.
Era una cugina con la pelle bianca e i capelli biondi e le volli subito bene.


***

  Non esiste fanciulla inglese che non apprezzi almeno un po' l'idea di un corteggiamento: non esiste, e sicuramente si veste male, non vuole piacere, non gioca alle frivolezze con veli di stoffa e fiocchi nei capelli. Non ha certamente cappellini di pizzo, né nastri colorati da abbinare all'abito. Sicuramente è una donna destinata a restare sola.
  Per stasera, non avrò la pelle nera. Avrò un ricevimento.
  Ho uno zio che mi ama tanto, una zia che ha imparato a volermi bene e una cugina che sa del mio corteggiatore e lei stessa presto si sposerà.
  Sono una rarità, mi dicono. Sono nera, eppure mi comporto come una signora. So fare un ottimo inchino e suonare davvero molto bene il pianoforte. Mi esercito spesso, amo la musica.
  Il ricevimento di stasera metterà in chiaro che sono una donna adulta, pronta ad affrontare un matrimonio.
  La casa di campagna degli amici di famiglia è una reggia. Svolazzo nel mio abito colorato, leggero come un soffio, e immagino la scena.
La sala ha grandi quadri appesi alle pareti, tutto intorno. Enormi e maestosi, giganteschi volti che ti osservano e ti entrano dentro, fino nell'anima.
Come sempre faccio, da che ho memoria, mi ritrovo a soffermarmi su quei volti pallidi, perfetti, quella carnagione rosea e chiara.
Mi sento meno donna.
Una volta ho catturato una mosca. Non ci sono mai mosche, nei quadri: solo fiori e frutti e foglie rigogliose.   Ho freddo.
  Mi chiudo nella mia stanza, sono stanca e tremo come un foglia. Chiamo la servitù, che accendano la stufa.
  Uno strano gioco di specchi mi si para davanti.
  Certo, lei è grassa, è tozza e non ha un bel naso.
  E quella pezzuola, per carità, proprio da serva.
  Mi guarda, la balia, e io mi siedo sul letto e le dico di andarsene, non ho bisogno di niente. Serro le labbra e prendo a pettinarmi i miei dannatissimi capelli, maledetti loro. Il pettine si impiglia. Andrò a letto come sempre, scarmigliata, il volto rigato di lacrime e non uscirò dalla mia stanza per nessuna ragione al mondo.
  Mi stendo fra le lenzuola bianche, candide, pulite.
- Non deve pettinarli così.
- Vattene via.
- I capelli, dico. Lasciate che vi mostri come pettinarli.
  Colta nella mia vanità, alzo la testa. Incrocio di nuovo i suoi occhi, e mi vergogno. Avrei dovuto esserci io, al suo posto, vestita di niente, i capelli raccolti, invisibile più che mai.
Le porgo il pettine, e l'avorio di quei denti prende a passare delicatamente nella matassa indistinta di ricci neri che mi cresce sulla testa.
- Dovete iniziare dalle punte, Miss, vedete? E poi, pian piano, salire. Non è difficile, provate.
  Mi alzo dal letto e mi siedo alla specchiera; lentamente, comincio.
- Bravissima! Avete visto?
- Credi che stasera andrà tutto bene?
  La serva di quel grande castello sconosciuto, marmoreo e pieno di quadri fatti di luce pura mi sorride e gioca con le mie ciocche maltrattate, spezzate e nere. Prende un nastro di cotone di un bianco brillante e me lo acconcia fra i capelli, senza rispondere.
Una volta ho catturato una mosca: l'ho racchiusa in un panno di cotone tanto candido che quasi abbagliava.
  
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