Nota dell'autrice: sì, lo so, dovrei finire di pubblicare La via della spada (che oltretutto è già terminata ^^;), ma ci sono alcune cosette che vorrei modificare negli ultimi capitoli e, nel mentre, mi sono ricordata di questa raccolta... che momentaneamente comprende una flashfic sola... ma quando l'ispirazione colpirà aumenteranno!
Buona lettura.







Kaoru chiuse la porta del furo e attraversò il giardino, pochi respiri profondi nel petto e una luce ambrata di lanterna per unica guida. Stanca, si passò le dita fra i capelli.
Il bagno l'aveva rilassata, ma era stata una giornata piena. Gli allievi, la cerimonia di apertura dell'anno d'insegnamento, Yahiko, il pavimento sfondato nell'ala est, Kenji. L'ultimo, in particolare; un terremoto di un anno e mezzo. Non avrebbe mai pensato che crescere un bambino fosse tanto allucinante.
Il suo piccolo, adorabile Kenji… non era sempre così adorabile. Non stava fermo un attimo, né taceva o dava un attimo di tregua. Francamente, si chiedeva come Kenshin riuscisse a fare i lavori di casa con lui tra i piedi.
Oh beh. In fondo, era anche colpa sua (buon sangue non mente).
Raggiunse la veranda, aprì lo shoji che dava sulla stanza matrimoniale, lo sprangò alle sue spalle e si preparò a dormire il sonno dei giusti. Solo un attimo per pettinarsi e cambiarsi, poi, finalmente, pace. Sorrise a Kenshin, già disteso nel futon.
Poi un’occhiata strategica le rivelò che il lettino-culla di Kenji era vuoto. «Kenshin, dove―»
«Ah» mormorò lui, con aria colpevole.
Kaoru camminò sino ai piedi dei futon. Entrando non aveva potuto vedere oltre il corpo del marito, sdraiato su un fianco; ora sì. Incrociò le braccia, tra l’esasperato e l’intenerito. Kenshin si sosteneva su un braccio e teneva l’altro a mezz’aria, a disposizione di Kenji che, sprofondato nelle coperte, giocava con l'orlo della sua manica.
«Non vuole dormire.»
«Una novità.» disse lei. «Lo sai che non si può. Se dovessimo–»
«Ma è così carino.»
«Sì, finché è tranquillo…»
Kaoru pensò di mettere subito a dormire la piccola peste, ma alla fine preferì sedersi al tavolino da toeletta e osservare. Mentre si spazzolava i capelli, dividendoli in tre parti sulla spalla per la treccia, spiò la scena.
Padre e figlio si studiavano in silenzio, affascinati l’uno dall’altro. Kenji esplorava la mano profferta, ora afferrandone il pollice, ora avvicinandola per guardare bene (piccole, tenere dita su calli da spada) con espressione era seria e concentrata. Kenshin gli lasciava fare e sorrideva. Erano la cosa più bella che Kaoru avesse mai visto.
Si cambiò in fretta e li raggiunse.
«Appena si addormenta lo mettiamo nel lettino» sussurrò Kenshin, senza sollevare lo sguardo.
Lei annuì. Il piccolo fu distratto dal suo arrivo. Gli diede un bacio, stringendolo forte e respirando il profumo dei suoi capelli; lui protestò e – liberato – continuò a osservare il padre.
Due mani protese, un verso di assonnato comando. Kenshin inarcò un sopracciglio, poi abbassò il viso, lasciandosi toccare.
(Mento, bocca, cicatrice, naso, guance – e i suoi occhi parlavano. Parlavano.)
Kaoru sorrise e si chiese quando avesse meritato di essere così felice. Rimase a vegliare sui suoi amori finché il più giovane, esausto, non si fu addormentato.
Prima di spostarlo nella culla lei e Kenshin si tennero per mano, stretti intorno al loro inestimabile tesoro, in pace col mondo.