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Autore: smarsties    01/12/2014    5 recensioni
{Evan/Avril}
Avril si sposa. Di nuovo.
Un dramma per il nostro Evan che è, però, convinto che anche questa volta riuscirà a superarlo. E se non fosse così? Se una semplice frase sconvolgesse tutto, anni ed anni fondati su supposizioni e sogni?
Ma si sa, i sogni non fanno la realtà e questa storia, una delle tante nel vasto universo, è destinata ad una tragica conclusione.
È proprio vero che le parole fanno più male di un semplice gesto.
~♥~
Estratto dal testo:
E intanto tutto dentro di sé era devastato. Una semplice affermazione aveva distrutto una fragile illusione che lo aveva aiutato ad andare avanti, giorno per giorno, per ben undici anni.
E ora, di quell’illusione, era rimasto nulla.
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ad Avril, che mi dà la forza per affrontare l’ennesima giornata con le sue splendide canzoni

 

 

 

 

Stupid in love ~

 

1°luglio 2013, Cannes, Francia.
Wow, non ci posso ancora credere.
Evan ammirava, con lo sguardo perso nel vuoto, una splendida Avril con un elegante abito da sposa nero dall’ampia gonna e lungo velo dello stesso colore avvicinarsi con un sorriso smagliante. I raggi del sole che s’infiltravano dal rosone centrale illuminavano la sua camminata lungo la navata rendendo il tutto più angelico.
Non riusciva ad abbassare gli angoli della bocca. Era proprio il migliore giorno della sua vita.
Il loro matrimonio, finalmente. Quello che sognava da anni. E finalmente il sogno diveniva realtà.
Se si fosse voltato un altro po’ avrebbe sicuramente incrociato l’occhiata fiera del suo papà e il pianto ininterrotto di sua madre e della sua sorellina Annie.
Suo fratello Drew, nonché suo testimone, gli tirò una sonora pacca sulla spalla, sussurrando qualcosa che non comprese per via della troppa emozione.
Nel frattempo la sua bella, allacciata nervosamente al braccio del padre, era giunta all’altare. Era commossa e, se possibile, ancora più bella del solito.
Stava per afferrarle saldamente la mano, quando…
«Ehi Evan, ci sei?» domandò qualcuno, sventolandogli davanti una mano all’altezza della fronte. Saltellava, per arrivarci.
A parlare, era stata una ragazza dai folti capelli neri ed occhi verdastri: Vanessa, la sua fidanzata.
Sbatté nervosamente le palpebre, per poi tornare alla cruda realtà.
Erano giorni che immaginava situazioni alquanto impossibili, del genere quella narrata poche righe più su. E sapeva bene perché. E lo faceva star male, quel perché.
«Tutto bene?» domandò ancora, vedendolo girarsi in sua direzione.
«Sì, sì, tutto okay.» annuì confusamente. Non sembrava ancora tranquilla. «Sto bene, non preoccuparti.»
Percepì la sua testa appoggiata sulla spalla destra.
Davanti a lui c’era quella dannata figura di cui si era invaghito anni orsono e che ancora gli riempiva il cuore. E che ancora non riusciva a dimenticare. Lunghissimi capelli biondi leggermente mossi, due occhi azzurro cielo, due labbra estremamente invitanti e la sua pelle diafana che risaltava sul nero dell’abito da sposa.
Già, si sposava. Di nuovo.
E non era il suo matrimonio, come tanto avrebbe desiderato, ma il loro.
Avril, la sua Avril, si sposava con Chad, dopo nemmeno un anno che lo conosceva.
«Che scemo che sei.» ridacchiò, vedendo dipinta sul suo volto una tipica espressione da ebete.

Effettivamente, sei a dir poco ridicolo, lo riprese la sua coscienza. Undici anni che vi conoscete e non hai ancora avuto il maledetto coraggio di esternare i tuoi sentimenti.
Era muto, non riusciva a spiccicare parola di fronte a cotanta bellezza.
«Sei stupenda!» esclamò Vanessa, abbracciandola istintivamente. L’altra ricambiò.
Rimase come pietrificato, non riusciva a muovere un muscolo.
Nella sua mente rimbombava solo una parola: idiota.
Dopotutto, lo era proprio. Eccome!
Era stato un emerito idiota ad accogliere a braccia aperte l’invito alle nozze.
Era stato un emerito idiota ad accettare il ruolo di testimone - anche se era difficile non cedere di fronte a due occhi da cucciola.
Era stato un emerito idiota a presentarsi.

Era stato un emerito idiota ad innamorarsi follemente di qualcosa di fin troppo irraggiungibile.
«Ehi, non essere geloso!» lo risvegliò Avril. «Guarda che ce n’è anche per te.»
Prima che potesse realizzare, si ritrovò due braccia attorno al collo. La strinse dolcemente a sé, quasi fosse stato colto da un improvviso istinto paterno.
Le accarezzò ripetutamente la schiena, lei si lasciò andare un po’ di più tra le braccia dell’amico.
Quell’abbraccio, almeno per come la vedeva lui, racchiudeva infiniti sentimenti.

Illuso.
Dopo il divorzio da Deryck, le era stato accanto giorno e notte.
Gli aveva dichiarato cose che mai si azzarderebbe a dire ad altri, in pubblico. E si era sentito felice di condividere quei profondi segreti con lei. Significava veramente molto.
Così tanto che era arrivato persino a credere che, tra loro, sarebbe potuto nascere qualcosa in quel periodo.
Dopo arrivò Chad e tutto finì così come era iniziato.

Stupido.
All’inizio, non l’aveva per nulla considerato come un avversario, anzi: erano diventati anche dei buoni amici.
Era un semplice collaboratore all’album di Avril e tale sarebbe rimasto. O, almeno, così pensava.
Non si sarebbe mai aspettato di trovarli avvinghiati in sala prove, quel giorno. Il bacio che si scambiavano era tutt’altro che amichevole, lo sapeva bene.
E sapeva che, da quel momento in poi - fino a quando?, si chiedeva -, avrebbe dovuto ricominciare a fingere.
A fingere che sia tutto okay, quando invece non era affatto così.
A condividere gioie che lasciavano cicatrici nel petto.
A reprimere sentimenti decennali, non ancora estinti.

Stupido illuso.
La mora si schiarì la voce, invitandoli a sciogliere quel gesto d’affetto: «Mi arrabbierei, se sapessi che tra voi due non c’è altro che una profonda amicizia.» disse.
«Non credo ci siano problemi del genere.» ridacchiò Avril, pensando ad una probabile relazione con quello che per lei era oramai come un fratello.
«Già.» aggiunse Evan, mormorando. Quello che aveva pronunciato prima lo aveva terribilmente ferito - era la piena conferma che sentiva tutt’altro -, ma rise sonoramente lo stesso.
E intanto tutto dentro di sé era devastato. Una semplice affermazione aveva distrutto una fragile illusione che lo aveva aiutato ad andare avanti, giorno per giorno, per ben undici anni.

E ora, di quell’illusione, era rimasto nulla.
Vanessa afferrò saldamente il velo della sposa, tenendolo sospeso a mezz’aria. Intanto, si diressero entrambe fuori da quella camera d’albergo.
«Ti aspettiamo fuori.» fu l’ultima frase pronunciata, prima di scomparire lungo il corridoio.

Comincia la recita, pensò amaramente. Ma se ce l’ho fatta fino ad ora, riuscirò ad andare avanti.
E fu allora che si lasciò andare in un pianto cristallino, silenzioso. Il primo di una lunga serie, in quella giornata.

Il primo di una lunga serie per l’eternità.
No, non ce l’avrebbe fatta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

10 settembre 2013, Los Angeles, California.
Un pugno netto sul bordo del lavandino. Idiota!
Si sciacquò ripetutamente il viso. Due, tre, quattro volte. Poi lo rialzò, per potersi così guardare allo specchio.

Come diavolo mi sono conciato?!
Era totalmente irriconoscibile, Evan.
Capelli indomabili, di un biondo oramai spento; occhi stanchi e non più tanto profondi; deliziosa barbetta sfatta che lo faceva apparire più anziano di quanto non fosse.
E un tremendo mal di testa, dovuto alla bottiglia di vodka che si era scolato. L’ennesima, in tre mesi.
E una voragine, al posto del cuore. Un vuoto che niente e nessuno avrebbe potuto colmare.
Era stato rifiutato dalla persona che aveva amato per tempo memore, e che ancora amava alla follia nonostante tutto, alla quale però mai si era dichiarata poiché temeva di rovinare la loro splendida amicizia. Di rovinare tutto, proprio come lei aveva distrutto i progetti di una vita.

Be’, progetti… Non proprio progetti, direi. Più che altro qualcosa che esiste solo nella tua mente.
Si sentiva insignificante, si sentiva inutile.
Non c’era nient’altro da fare, se non scomparire per un bel po’. Per sempre.
Ma sì! In fondo, quale dispiacere avrebbe recato? E a chi?
Chiuse il rubinetto della vasca, oramai colma sino all’orlo. Prese un respiro profondo.
Si sentiva precipitare, ma presto tutto sarebbe finito.

Presto sarò felice anch’io, si disse.
Un ultimo messaggio a lei, prima di sparire nella nebbia.
Non si preoccupò nemmeno di svestirsi. Entrò in acqua senza pensarci su.
Si sedette sul marmo gelido con l’acqua che gli arrivava quasi al torace. Si accorciò la manica destra. Un rasoio nella mano sinistra. Un taglio netto sul polso.

Ecco, sì. Bravo.
Un caldo rivolo di sangue lungo tutto il braccio.
Prese un asciugacapelli accesso, lo stesso che aveva appoggiato poco prima sul bordo della vasca. Lo guardò per un attimo, ma senza farsi assalire da ripensamenti.

La verità è che sono uno stupido, recitò per l’ultima volta il suo subconscio. Uno stupido innamorato. Di te.
Un secondo e lo gettò con sé in acqua, verso l’eterno oblio. E l’ultima cosa che vide fu il rosso mischiarsi col trasparente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

11 settembre 2013, Los Angeles, California.
Con uno scatto, aprì la porta di casa dell’amico.
«Evan? Ci sei?» mormorò Avril, come intimorita, entrando nel delizioso appartamentino di periferia.
Non capiva. Perché gli aveva inviato, alle ventitré e cinquantaquattro in punto della sera precedente, un messaggio? E soprattutto, perché non aveva risposto?

“Scusami”, diceva. Poi più nulla.
Aveva provato a chiedergli il motivo. Aveva aspettato due, tre ore, ma non aveva ricevuto niente indietro.
Poggiò il mazzo di chiavi sul tavolo - mazzo di chiavi che possedeva da tanto; era stato lui ad insistere tanto affinché le avesse - e si guardò attorno più volte.
«Evan?» lo chiamò di nuovo, stavolta più forte. Ma ancora niente.
Sentiva una strana sensazione invaderle lo stomaco. Sentiva il panico che si impossessava di lei.
Sì, aveva paura. Temeva che fosse successo qualcosa all’amico, che, solitamente, a quell’ora stava già in piedi, pronto per liberare milioni di idee su un foglio per una probabile nuova canzone.
«Non farmi questi scherzi idioti. Vieni subito qui!»

Purtroppo non era uno scherzo, ma l’avrebbe saputo solo dopo.
Scosse la testa, come per scrollarsi di dosso tutta quell’ansia. Non ci riuscì, si sentiva ancora attanagliata dall’addome in giù.
Soltanto allora notò, vicino alle chiavi, una busta. Dentro c’era una lettera bianca, candida. La aprì. La sua calligrafia, perfettamente ordinata e accurata.
Prese un respiro profondo e si fiondò tra quelle righe.

  

Cara Avril,
speravo sul serio che leggessi questa lettera. E se lo stai facendo, te ne sono veramente grato.
Allora, da cosa iniziare?
Bene, sappi che nei tre mesi successivi alle tue nozze sono diventato sul serio un mostro - mi faccio paura da solo: ho ricominciato a fumare come una ciminiera, bevo fino a perdere il lume della ragione e, lo ammetto, qualche canna me la sono concessa.
Fatto sta che Vanessa, rendendosi conto della situazione, ha deciso di mollarmi. Ha fatto bene ad abbandonarmi pure lei, lo avrei fatto pure io.
Una sera, infatti abbiamo discusso animatamente e, sotto l’effetto di un cocktail di alcolici, sono arrivato anche alle mani. Sono stati un paio di schiaffi, sì, ma c’è mancato poco che non arrivassi a violentarla.
Scommetto che avrai assunto un’espressione stupita nel leggere che il tuo migliore amico è divenuto un maniaco. Ebbene, sappi che la colpa è tua. Soltanto tua.
Ma chi voglio prendere in giro? Tu non hai nessuna colpa se preferisci gli uomini maturi ai bambocci come me.
È solo che pensavo di superarlo anche questa volta, così come avevo fatto con Deryck. Ma non è stato così, c’è una ragione. Quella ragione sono le tue parole.
Dissi che non c’era alcun rischio che il nostro rapporto potesse sfociare in qualcosa di serio, se ben ricordi. Ma, forse, ti sbagli.
Tu potrai benissimo preferire uomini che hanno nove, dieci anni in più di te, pronti a difenderti e proteggerti, ma io ho avuto solo una persona a cui mi sono pienamente legato.
Non si tratta di Vanessa o di tutte le altre mie innumerevoli ex. Quella persona sei tu, soltanto tu e semplicemente tu.
La verità è che sono uno stupido
. Uno stupido innamorato. Di te.
Sì, Avril Ramona Lavigne, io ti ho sempre amata e, sebbene facessi sforzi notevoli per farmi notare, per te sono rimasto soltanto un semplice amico. E mi fa star male.
Ma, ripeto la colpa non è tua. È mia, che non ho mai trovato il coraggio di dirtelo. Forse le cose sarebbero andate diversamente.
Ti chiedo solo un’ultima cosa, poi sparirò per l’eternità. Lo giuro.
Portami nel cuore, fa’ che il mio ricordo - quello del ragazzo spensierato e un poco ribelle - rimanga vivo in te e, se puoi, amami come non hai mai fatto. Mi farai felice.
E, soprattutto, non piangere per me. Non me lo merito, non merito le tue lacrime.
Come ho detto prima, ora sparirò per sempre. Perché, sappi che non ho mai creduto nei “lieto fine” e questo, senza alcuna ombra di dubbio, non lo sarà.
Ti amo e basta. Non c’è altro da aggiungere.

Tuo per sempre,
Evan.
 

 

Sono patetica, fu il primo pensiero che invase la mente di Avril.
Sapeva che Evan aveva sempre provato una strana attrazione, e lei l’aveva bellamente ignorato, pensando che fosse solo amicizia. La stessa che sentiva lei.
Ed ora era di sicuro fuggito alla volta di qualche nazione che nemmeno appariva sui planetari per evitare la scena ridicola, che, sicuro, avrebbe seguito. E che gli avrebbe recato altro dispiacere.
Notò una debole luce filtrare dalla porta socchiusa del bagno.
Forse c’era ancora qualche speranza, forse entrambi avrebbero potuto esprimere al meglio i loro sentimenti piuttosto confusi. Forse l’avrebbe perdonata.
Perché sì, la colpa era solo sua.
Ma quando la spalancò non c’era nient’altro che un inquietante silenzio, una strana puzza di bruciato e una vasca piena di un liquido rossastro.
Quel liquido non era altro che sangue - lo capì dall’odore metallico che emanava - e non vi galleggiava altro che il corpo folgorato di Evan senza vita.
Quando scorse i tratti spigolosi del suo viso, non poté fare altro che appoggiarsi al muro e piangere lacrime amare.
Era vuota. Era sola.

Anch’io sono una stupida innamorata. Di te.

 

 

 
Siamo qui, angelo della nebbia. Guardaci. Buttaci solo un po’ di colore.

Ligabue

 

 

 

{2.168 words}

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Solluxy’s wall
Lo so, è triste. E pensate che questa è solo la prima di una futura serie di one shot a sfondo malinconico/triste.
Sì, voglio distruggervi dolcemente i sentimenti.
Allora, cosa ne pensate? Devo seriamente cambiare mestiere, o questo piccolo sclero è alquanto leggibile? E pur sempre la prima volta che tratto di tematiche del genere, quale il suicidio.
Ho fatto uccidere Evan, lo so bene. Merito il linciaggio. Tutto ciò meritava un lieto fine, e invece…
Chiudo con un piccolo dettaglio, dicendo che la citazione finale è presa da «Angelo della nebbia», canzone praticamente sconosciuta di Ligabue. So che non c’entra granché, ma ce la vedevo bene. E questo brano, ultimamente, mi fa impazzire.
Vi lascio, adesso. Torno a ripassare greco. Ma anche no.

With love,
Solluxy

  
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