Ad
Avril, che mi dà la forza per affrontare
l’ennesima giornata con le sue
splendide canzoni ♥
Stupid
in love ~
1°luglio
2013, Cannes, Francia.
Wow,
non ci posso ancora credere.
Evan
ammirava, con lo sguardo perso nel vuoto, una splendida Avril con un
elegante
abito da sposa nero dall’ampia gonna e lungo velo dello
stesso colore
avvicinarsi con un sorriso smagliante. I raggi del sole che
s’infiltravano dal
rosone centrale illuminavano la sua camminata lungo la navata rendendo
il tutto
più angelico.
Non
riusciva ad abbassare gli angoli della bocca. Era proprio il migliore
giorno
della sua vita.
Il loro matrimonio, finalmente.
Quello che
sognava da anni. E finalmente il sogno diveniva realtà.
Se si
fosse voltato un altro po’ avrebbe sicuramente incrociato
l’occhiata fiera del
suo papà e il pianto ininterrotto di sua madre e della sua
sorellina Annie.
Suo
fratello Drew, nonché suo testimone, gli tirò una
sonora pacca sulla spalla,
sussurrando qualcosa che non comprese per via della troppa emozione.
Nel
frattempo la sua bella, allacciata nervosamente al braccio del padre,
era
giunta all’altare. Era commossa e, se possibile, ancora
più bella del solito.
Stava
per afferrarle saldamente la mano, quando…
«Ehi
Evan, ci sei?» domandò qualcuno, sventolandogli
davanti una mano all’altezza
della fronte. Saltellava, per arrivarci.
A
parlare, era stata una ragazza dai folti capelli neri ed occhi
verdastri:
Vanessa, la sua fidanzata.
Sbatté
nervosamente le palpebre, per poi tornare alla cruda realtà.
Erano
giorni che immaginava situazioni alquanto impossibili, del genere
quella
narrata poche righe più su. E sapeva bene perché.
E lo faceva star male, quel
perché.
«Tutto
bene?» domandò ancora, vedendolo girarsi in sua
direzione.
«Sì,
sì, tutto okay.» annuì confusamente.
Non sembrava ancora tranquilla. «Sto bene,
non preoccuparti.»
Percepì
la sua testa appoggiata sulla spalla destra.
Davanti
a lui c’era quella dannata figura di cui si era invaghito
anni orsono e che
ancora gli riempiva il cuore. E che ancora
non riusciva a dimenticare. Lunghissimi capelli biondi
leggermente mossi,
due occhi azzurro cielo, due labbra estremamente invitanti
e la sua
pelle diafana che risaltava sul nero dell’abito da sposa.
Già, si
sposava. Di nuovo.
E non
era il suo matrimonio, come tanto
avrebbe desiderato, ma il loro.
Avril,
la sua Avril, si sposava con Chad,
dopo nemmeno un anno che lo conosceva.
«Che
scemo che sei.» ridacchiò, vedendo dipinta sul suo
volto una tipica espressione
da ebete.
Effettivamente,
sei a dir poco ridicolo,
lo
riprese la sua coscienza. Undici anni che
vi conoscete e non hai ancora avuto il maledetto coraggio di esternare
i tuoi
sentimenti.
Era
muto, non riusciva a spiccicare parola di fronte a cotanta bellezza.
«Sei
stupenda!» esclamò Vanessa, abbracciandola
istintivamente. L’altra ricambiò.
Rimase
come pietrificato, non riusciva a muovere un muscolo.
Nella
sua mente rimbombava solo una parola: idiota.
Dopotutto,
lo era proprio. Eccome!
Era
stato un emerito idiota ad accogliere a braccia aperte
l’invito alle nozze.
Era
stato un emerito idiota ad accettare il ruolo di testimone - anche se
era
difficile non cedere di fronte a due occhi da cucciola.
Era
stato un emerito idiota a presentarsi.
Era
stato un emerito idiota ad innamorarsi
follemente di qualcosa di fin troppo irraggiungibile.
«Ehi,
non essere geloso!» lo risvegliò
Avril. «Guarda che ce n’è anche per
te.»
Prima che potesse realizzare, si
ritrovò due braccia attorno al collo. La strinse dolcemente
a sé, quasi fosse
stato colto da un improvviso istinto paterno.
Le accarezzò ripetutamente la schiena,
lei si lasciò andare un po’ di più tra
le braccia dell’amico.
Quell’abbraccio, almeno per come la
vedeva lui, racchiudeva infiniti sentimenti.
Illuso.
Dopo il divorzio da Deryck, le era
stato accanto giorno e notte.
Gli aveva dichiarato cose che mai si
azzarderebbe a dire ad altri, in pubblico. E si era sentito felice di
condividere quei profondi segreti con lei.
Significava veramente molto.
Così tanto che era arrivato persino a
credere che, tra loro, sarebbe potuto nascere qualcosa in quel periodo.
Dopo arrivò Chad e tutto finì così
come
era iniziato.
Stupido.
All’inizio,
non l’aveva per nulla
considerato come un avversario, anzi: erano diventati anche dei buoni
amici.
Era un semplice collaboratore all’album
di Avril e tale sarebbe rimasto. O, almeno, così pensava.
Non si sarebbe mai aspettato di
trovarli avvinghiati in sala prove, quel
giorno. Il bacio che si scambiavano era tutt’altro che
amichevole, lo sapeva
bene.
E sapeva che, da quel momento in poi - fino a
quando?, si chiedeva -, avrebbe
dovuto ricominciare a fingere.
A fingere che sia tutto okay, quando
invece non era affatto così.
A condividere gioie che lasciavano
cicatrici nel petto.
A reprimere sentimenti decennali, non
ancora estinti.
Stupido
illuso.
La
mora si schiarì la voce, invitandoli
a sciogliere quel gesto d’affetto: «Mi arrabbierei,
se sapessi che tra voi due
non c’è altro che una profonda
amicizia.» disse.
«Non credo ci siano problemi del
genere.» ridacchiò Avril, pensando ad una
probabile relazione con quello che
per lei era oramai come un fratello.
«Già.» aggiunse Evan, mormorando. Quello
che aveva pronunciato prima lo aveva terribilmente ferito - era la
piena
conferma che sentiva tutt’altro -, ma rise sonoramente lo
stesso.
E intanto tutto dentro di sé era
devastato. Una semplice affermazione aveva distrutto una fragile
illusione che
lo aveva aiutato ad andare avanti, giorno per giorno, per ben undici
anni.
E
ora, di quell’illusione, era rimasto nulla.
Vanessa
afferrò saldamente il velo
della sposa, tenendolo sospeso a mezz’aria. Intanto, si
diressero entrambe
fuori da quella camera d’albergo.
«Ti aspettiamo fuori.» fu l’ultima
frase pronunciata, prima di scomparire lungo il corridoio.
Comincia
la recita,
pensò amaramente. Ma se ce
l’ho fatta fino ad ora, riuscirò ad
andare avanti.
E fu allora che si lasciò andare in un
pianto cristallino, silenzioso. Il primo di una lunga serie, in quella
giornata.
Il
primo di una lunga serie per l’eternità.
No,
non ce l’avrebbe fatta.
10
settembre 2013, Los Angeles, California.
Un
pugno netto sul bordo del lavandino.
Idiota!
Si sciacquò ripetutamente il viso. Due,
tre, quattro volte. Poi lo rialzò, per potersi
così guardare allo specchio.
Come
diavolo mi sono conciato?!
Era
totalmente irriconoscibile, Evan.
Capelli indomabili, di un biondo oramai
spento; occhi stanchi e non più tanto profondi; deliziosa
barbetta sfatta che
lo faceva apparire più anziano di quanto non fosse.
E un tremendo mal di testa, dovuto alla
bottiglia di vodka che si era scolato. L’ennesima, in tre
mesi.
E una voragine, al posto del cuore. Un
vuoto che niente e nessuno avrebbe potuto colmare.
Era stato rifiutato dalla persona che
aveva amato per tempo memore, e che ancora amava alla follia nonostante
tutto,
alla quale però mai si era dichiarata poiché
temeva di rovinare la loro
splendida amicizia. Di rovinare tutto, proprio come lei aveva distrutto
i
progetti di una vita.
Be’,
progetti… Non proprio progetti, direi. Più che
altro qualcosa che esiste solo
nella tua mente.
Si
sentiva insignificante, si sentiva inutile.
Non c’era nient’altro da fare, se non scomparire per un bel po’. Per sempre.
Ma sì! In fondo, quale dispiacere
avrebbe recato? E a chi?
Chiuse il rubinetto della vasca, oramai
colma sino all’orlo. Prese un respiro profondo.
Si sentiva precipitare, ma presto tutto
sarebbe finito.
Presto
sarò felice anch’io,
si
disse.
Un ultimo messaggio a lei, prima di
sparire nella nebbia.
Non si preoccupò nemmeno di svestirsi.
Entrò in acqua senza pensarci su.
Si sedette sul marmo gelido con l’acqua
che gli arrivava quasi al torace. Si accorciò la manica
destra. Un rasoio nella
mano sinistra. Un taglio netto sul polso.
Ecco,
sì. Bravo.
Un
caldo rivolo di sangue lungo tutto
il braccio.
Prese un asciugacapelli accesso, lo
stesso che aveva appoggiato poco prima sul bordo della vasca. Lo
guardò per un
attimo, ma senza farsi assalire da ripensamenti.
La
verità è che sono uno stupido, recitò
per l’ultima volta il suo subconscio. Uno
stupido innamorato. Di te.
Un secondo e lo gettò con sé in acqua,
verso l’eterno oblio. E l’ultima cosa che vide fu
il rosso mischiarsi col
trasparente.
11
settembre 2013, Los Angeles, California.
Con
uno scatto, aprì la porta di casa
dell’amico.
«Evan? Ci sei?» mormorò Avril, come
intimorita, entrando nel delizioso appartamentino di periferia.
Non capiva. Perché gli aveva inviato,
alle ventitré e cinquantaquattro in punto della sera
precedente, un messaggio?
E soprattutto, perché non aveva risposto?
“Scusami”,
diceva. Poi più nulla.
Aveva provato a chiedergli il motivo.
Aveva aspettato due, tre ore, ma non aveva ricevuto niente indietro.
Poggiò il mazzo di chiavi sul tavolo -
mazzo di chiavi che possedeva da tanto; era stato lui ad insistere
tanto
affinché le avesse - e si guardò attorno
più volte.
«Evan?» lo chiamò di nuovo, stavolta
più forte. Ma ancora niente.
Sentiva una strana sensazione invaderle
lo stomaco. Sentiva il panico che si impossessava di lei.
Sì, aveva paura. Temeva che fosse
successo qualcosa all’amico, che, solitamente, a
quell’ora stava già in piedi,
pronto per liberare milioni di idee su un foglio per una probabile
nuova
canzone.
«Non farmi questi scherzi idioti. Vieni
subito qui!»
Purtroppo
non era uno scherzo, ma l’avrebbe saputo solo dopo.
Scosse
la testa, come per scrollarsi di
dosso tutta quell’ansia. Non ci riuscì, si sentiva
ancora attanagliata
dall’addome in giù.
Soltanto allora notò, vicino alle
chiavi, una busta. Dentro c’era una lettera bianca, candida.
La aprì. La sua
calligrafia, perfettamente ordinata e accurata.
Prese un respiro profondo e si fiondò
tra quelle righe.
Cara
Avril,
speravo
sul serio che leggessi questa lettera. E se lo stai facendo, te ne sono
veramente grato.
Allora,
da cosa iniziare?
Bene,
sappi che nei tre mesi successivi alle tue nozze sono diventato sul
serio un
mostro - mi faccio paura da solo: ho ricominciato a fumare come una
ciminiera,
bevo fino a perdere il lume della ragione e, lo ammetto, qualche canna
me la
sono concessa.
Fatto
sta che Vanessa, rendendosi conto della situazione, ha deciso di
mollarmi. Ha
fatto bene ad abbandonarmi pure lei, lo avrei fatto pure io.
Una
sera, infatti abbiamo discusso animatamente e, sotto
l’effetto di un cocktail
di alcolici, sono arrivato anche alle mani. Sono stati un paio di
schiaffi, sì,
ma c’è mancato poco che non arrivassi a
violentarla.
Scommetto
che avrai assunto un’espressione stupita nel leggere che il
tuo migliore amico
è divenuto un maniaco. Ebbene, sappi che la colpa
è tua. Soltanto tua.
Ma
chi voglio prendere in giro? Tu non hai nessuna colpa se preferisci gli
uomini
maturi ai bambocci come me.
È
solo che pensavo di superarlo anche questa volta, così come
avevo fatto con
Deryck. Ma non è stato così,
c’è una ragione. Quella ragione sono le tue
parole.
Dissi
che non c’era alcun rischio che il nostro rapporto potesse
sfociare in qualcosa
di serio, se ben ricordi. Ma, forse, ti sbagli.
Tu
potrai benissimo preferire uomini che hanno nove, dieci anni in
più di te,
pronti a difenderti e proteggerti, ma io ho avuto solo una persona a
cui mi
sono pienamente legato.
Non
si tratta di Vanessa o di tutte le altre mie innumerevoli ex. Quella
persona
sei tu, soltanto tu e semplicemente tu.
La
verità è che sono uno stupido.
Uno stupido innamorato. Di te.
Sì,
Avril Ramona Lavigne, io ti ho sempre amata e, sebbene facessi sforzi
notevoli
per farmi notare, per te sono rimasto soltanto un semplice amico. E mi
fa star
male.
Ma,
ripeto la colpa non è tua. È mia,
che non ho mai trovato il coraggio di dirtelo. Forse le cose sarebbero
andate
diversamente.
Ti
chiedo solo un’ultima cosa, poi sparirò per
l’eternità. Lo giuro.
Portami
nel cuore, fa’ che il mio ricordo - quello del ragazzo
spensierato e un poco
ribelle - rimanga vivo in te e, se puoi, amami come non hai mai fatto.
Mi farai
felice.
E,
soprattutto, non piangere per me. Non me lo merito, non merito le tue
lacrime.
Come
ho detto prima, ora sparirò per sempre. Perché,
sappi che non ho mai creduto
nei “lieto fine” e questo, senza alcuna ombra di
dubbio, non lo sarà.
Ti
amo e basta. Non c’è altro da aggiungere.
Tuo
per sempre,
Evan.
Sono
patetica, fu
il primo pensiero
che invase la mente di Avril.
Sapeva che Evan aveva sempre provato
una strana attrazione, e lei l’aveva bellamente ignorato,
pensando che fosse solo amicizia.
La stessa che sentiva
lei.
Ed ora era di sicuro fuggito alla volta
di qualche nazione che nemmeno appariva sui planetari per evitare la
scena
ridicola, che, sicuro, avrebbe seguito. E che gli avrebbe recato altro
dispiacere.
Notò una debole luce filtrare dalla
porta socchiusa del bagno.
Forse c’era ancora qualche speranza,
forse entrambi avrebbero potuto esprimere al meglio i loro sentimenti
piuttosto
confusi. Forse l’avrebbe perdonata.
Perché sì, la colpa era solo sua.
Ma quando la spalancò non c’era
nient’altro che un inquietante silenzio, una strana puzza di
bruciato e una
vasca piena di un liquido rossastro.
Quel liquido non era altro che sangue -
lo capì dall’odore metallico che emanava - e non
vi galleggiava altro che il
corpo folgorato di Evan senza vita.
Quando scorse i tratti spigolosi del
suo viso, non poté fare altro che appoggiarsi al muro e
piangere lacrime amare.
Era vuota. Era sola.
Anch’io
sono una stupida innamorata. Di te.
Ligabue
{2.168
words}
Solluxy’s
wall
Lo
so, è triste. E pensate che questa è
solo la prima di una futura serie di one shot a sfondo
malinconico/triste.
Sì, voglio distruggervi dolcemente
i sentimenti.
Allora, cosa ne pensate? Devo seriamente
cambiare mestiere, o questo piccolo sclero è alquanto
leggibile? E pur sempre la prima volta che tratto di tematiche del
genere, quale il suicidio.
Ho fatto uccidere Evan, lo so bene.
Merito il linciaggio. Tutto ciò meritava un lieto fine, e
invece…
Chiudo con un piccolo dettaglio,
dicendo che la citazione finale è presa da «Angelo
della nebbia», canzone
praticamente sconosciuta di Ligabue. So che non c’entra
granché, ma ce la
vedevo bene. E questo brano, ultimamente, mi fa impazzire.
Vi lascio, adesso. Torno a ripassare
greco. Ma anche no.
With
love,
Solluxy
♥